Le regole del gioco
L’articolo di Cislaghi parte dalle controversie sul NITAG per invitare a riflettere più in generale sul rapporto tra scienza e politica nel contesto delle decisioni che riguardano la salute degli individui e della comunità. La vicenda del NITAG insieme ad altre vicende simili nel nostro paese (astensione italiana nell’accordo pandemico globale di OMS e commissione parlamentare su pandemia) sono dei segnali allarmanti di quanto possa guastarsi il rapporto tra politica e scienza sul tema della salute. Zocchetti si è concentrato sulla vicenda NITAG, rimandando ad altre sedi più appropriate l’esame del rapporto tra scienza e politica. Io invece raccolgo questa provocazione di Cislaghi per capire cosa possa fare l’epidemiologia per evitare o mitigare le conseguenze di questa contrapposizione.
Nell'articolo Cislaghi non può fare a meno di cercare le fonti di questa contrapposizione nella tensione che esiste tra i tre valori che sono in gioco in qualsiasi decisione: l’impatto sulla salute (la cosiddetta beneficialità), la libertà di scelta e la giustizia distributiva. In ogni sistema sociale (un paese, una città, un’impresa…) gli attori di solito si fanno un’opinione e concorrono ad una decisione sulla base di quello che comprendono circa il beneficio (o il rischio) che la scelta comporta, circa il grado di libertà e autonomia che la decisione può limitare e infine circa la distribuzione più o meno equa del beneficio e della libertà.
Ogni sistema sociale si caratterizza per il grado di maturità con cui ha imparato a disciplinare i processi decisionali in modo che garantiscano un buon bilanciamento tra beneficialità, libertà e giustizia. Ci sono sistemi sociali che si sono dati regole esplicite e trasparenti per valutare la situazione dei tre valori e per dare ad ognuno il peso che si merita (ad esempio ci sono paesi che hanno imparato ad utilizzare percorsi strutturati di democrazia deliberativa, come è stato il caso della decisione di fare o meno ricerca sulle staminali nel Regno Unito); all’estremo opposto ci sono sistemi sociali che alle regole preferiscono il potere (sembra essere questo il gorgo che sta inghiottendo gli Stati Uniti); in mezzo ci sta chi non ha le idee chiare (come in Italia, dove un procuratore pugliese a suo tempo poteva ordinare all’ospedale di Brescia di somministrare la terapia Stamina in nome della libertà di scelta, mentre le istituzioni scientifiche di garanzia ne denunciavano l’assenza di beneficialità). Tra l’altro uno stesso sistema sociale può cambiare le regole del gioco, oggi può dare un peso importante alla beneficialità e domani preferire la libertà, o avere regole eterogenee al suo interno (si pensi all’importanza che ha la libertà di scelta nelle cure per il modello lombardo di organizzazione del sistema sanitario rispetto a quello di altre regioni).
La domanda di Cislaghi è con quale ruolo l’epidemiologia o in senso lato la scienza debba stare su questa scena prendendosi le sue responsabilità e prerogative nel modo con cui i sistemi sociali costruiscono le conoscenze sui tre valori e nel peso che essi attribuiscono ad ognuno di loro.
Nel primo caso (come costruire conoscenze) è evidente che da sempre la scienza è la protagonista nel campo della beneficialità, in quanto il suo mestiere è quello di studiare i nessi di causalità tra fattori di rischio e salute e di valutare l’impatto sulla salute che deriverebbe da una decisione/azione che li modifichi, il tutto con una esplicita attenzione ai limiti di incertezza che sono insiti nei metodi di osservazione; la medicina basata sulle prove è il modo con cui la scienza ha imparato a disciplinare questo suo compito precipuo. E’ poi responsabilità della scienza comunicare queste conoscenze in modo che anche gli altri attori possano comprenderne non solo la validità scientifica ma anche il valore operativo; questo ambito è di solito più lacunoso e poco regolato. Dunque la beneficialità è materia della scienza e delle sue regole interne di funzionamento, che non dovrebbero essere in discussione. Al contrario la scienza in senso stretto non avrebbe ha nulla da dire a proposito degli altri due principi, libertà e giustizia, perché sono ambiti dove non contano i dati ma i valori, gli interessi e le preferenze; in questi due ambiti lo scienziato non ha uno specifico contributo da dare, ma se vuole dire la sua deve cambiare giacca e tornare a fare il cittadino, cioè a partecipare al gioco come uno qualsiasi degli altri attori, che può voler fare prevalere le sue preferenze, interessi e valori.
Nel secondo caso (le regole del gioco) la scienza può ritornare in gioco a tutto campo, non solo per il suo compito di fare stime della beneficialità, ma anche per dire la sua sulle regole del gioco, cioè sul peso relativo che si dovrebbe attribuire ad ognuno dei tre valori. E è appunto di queste regole del gioco che si sta discutendo quando si parla del rapporto tra scienza e politica.
In questa discussione però la scienza dovrebbe imparare a dialogare di più e meglio con gli altri attori. A molti di essi la scienza appare come una casta che pretende di mettere le brache al mondo perché possiede le conoscenze sulla beneficialità; la beneficialità è solo uno dei tre principi su cui si gioca la partita e non necessariamente e sempre il più importante. Agli occhi del pubblico questa pretesa primazia della scienza gli ha inimicato molte simpatie, facendola apparire come uno dei santuari più refrattari del politicamente corretto. Inoltre può capitare che nel comunicare l’incertezza scientifica lo scienziato non rispetti la regola della neutralità ma entri in gioco a favore di una parte senza dichiarare conflitto di interesse; è quello che capita spesso nelle attività di advocacy, come ad esempio quelle su temi ambientalisti. Ad esempio in queste settimane l’Imperial College ha pubblicato un rapporto sulla stima di quanto l’eccesso di mortalità da ondata di calore dell’estate 2025 fosse attribuibile al cambiamento climatico indotto dall’uomo; a Londra si tratterebbe di un eccesso totale di circa 260 morti di cui il 65% non sarebbe accaduto se non ci fosse stato il riscaldamento globale di origine antropica. In questo caso la comunicazione ha scelto di concentrarsi sull’esito di salute del numero di morti, in modo da colpire l’opinione pubblica con un intento di advocacy a favore di politiche di contrasto e mitigazione del cambiamento climatico. In alternativa si sarebbe potuto scegliere di confrontare questo rischio con altri rischi estivi ben noti al pubblico, ad esempio il rischio di annegamento in stagione estiva, e usare un esito di salute diverso come gli anni di vita persi; questa scelta alternativa, avrebbe prodotto numeri meno preoccupanti, stante la differenza di età delle morti da caldo rispetto alle morti da annegamento.
Essere disponibili a farsi un esame di coscienza su come evitare lo stigma dell’arroganza, non vuol dire rinunciare alle regole interne. Anzi la scienza deve mettersi sulle barricate per difendere le sue regole del gioco interne, quelle della medicina basata sulle prove, regole che si è data per produrre e comunicare conoscenze valide sulla beneficialità, non come atto di difesa corporativa ma come atto di responsabilità per la tutela della salute dei singoli e della comunità. Ma, si chiede Cislaghi, la scienza dovrà poi anche fare advocacy nelle sedi dove si discutono le regole del gioco, in modo che il criterio della beneficialità abbia priorità sugli altri due? E come?
Nel caso della pandemia da Covid 19 ci fu un momento in cui bisognava scegliere chi dovesse beneficiare delle prime dosi disponibili di vaccino. Era un classico caso dove i tre principi di beneficialità, libertà ed equità erano tutti in campo, la scelta dipendeva da quale dei valori, interessi e preferenze dovesse avere la priorità: se la priorità era salvare più vite bisognava destinare le prime dosi ai super anziani e ai fragili; se si voleva sostenere la resilienza del personale sul fronte della sanità la priorità erano i sanitari; se si voleva salvare l’economia erano i lavoratori dei settori strategici per l’esportazione; se si voleva contenere i danni alla salute mentale da isolamento tramite l’apertura dei locali pubblici erano i giovani. Alla fine furono scelti i superanziani (scelta coerente con la priorità alla beneficialità) e il personale sanitario (scelta compassionevole). Molte migliaia di dosi inutili per il personale sanitario non esposto a rischio (pensiamo agli studenti di medicina) sono stati destinati ad uno scopo compassionevole per una categoria specifica di lavoratori, mentre le stesse dosi avrebbero potuto salvare molte vite di soggetti fragili. Dunque un potenziale beneficio di salute è stato sacrificato sull’altare di una scelta compassionevole verso una categoria esposta allo stress. Nel rapporto dell’Imperial College sugli effetti dell’ondata di calore del 2025 si fa cenno ad una situazione simile, dove si passano in rassegna i tanti effetti negativi dell’ondata di calore, tra cui quella della caduta della produttività, che però è messa in secondo piano rispetto all’eccesso di mortalità. Negli esempi è evidente che gli altri attori in gioco possono dare priorità ad altri indicatori di beneficialità o di libertà di scelta rispetto alla naturale preferenza dell’epidemiologia e della sanità pubblica per la riduzione della mortalità.
In tutte queste situazioni complesse io vorrei una scienza che sapesse costruire con gli altri attori regole del gioco flessibili, che permettono ai diversi attori di farsi una opinione su beneficialità, libertà e equità basata su conoscenze costruite con regole condivise, e sulla base di quelle opinioni lasciare che i meccanismi democratici di elaborazione delle decisioni facciano il loro corso; riservando però tempo e risorse per valutare ex post processi e risultati e così comprendere se si è fatta la migliore scelta possibile e come procedere nel futuro in situazioni simili. In questo sforzo di costruzione e ammodernamento delle regole del gioco, l’epidemiologia avrebbe poi una missione particolare; siccome è una disciplina abituata da sempre ad andare a caccia di differenze (geografiche, temporali, sociali…) essa è l’interlocutore più attrezzato per indagare i problemi di giustizia distributiva dei benefici potenziali e delle libertà limitate.
Dunque la scienza e l’epidemiologia non possono permettersi di chiudersi nella torre d’avorio della loro superiorità e purezza. Hanno grandi tradizioni di autoregolazione che le hanno preservate da tradimenti allo loro missione, che è di costruire conoscenze valide. Questa tradizione va preservata soprattutto con la promozione del rigore e della autorevolezza delle istituzioni (enti vigilati dal Ministero, enti di ricerca; tecnostruttura del SSN). Ma la scienza deve lavorare con la politica e gli stakeholder per dotarsi di regole del gioco esplicite trasparenti e per quanto possibile condivise su come comporre un sano bilanciamento tra beneficialità, libertà e giustizia.
Di tutta questa vicenda delle nomine e del teatrino governativo che ne è seguito il vero problema che mi assilla (probabilmente sono l'unico a preoccuparsi in questa prospettiva) è come diavolo sia avvenuta questa saldatura fra un movimento di opposizione e la destra estrema
Perché tutto ciò non era scontato. In fondo i movimenti di opposizione (indipendentemente dal tema contestato) si pongono come antagonisti al "sistema". Ed il "sistema" è solitamente rappresentato da persone con visioni, diciamo, conservatrici
Certo, possono essere stati alcuni politici di destra particolarmente accorti nell'offrire spazio al movimento novax, ricevendone in cambio sostegno elettorale. O, come alcuni sostengono, in passato furono alcuni politici di sinistra ad esasperare lo scontro
Ma la semplice prospettiva "nostrana" non spiega come si sia arrivati a medesime dinamiche in altri stati: emblematico il caso degli US dove a dirigere la sanità è arrivato un complottista novax sostenuto da una folta schiera di votanti. Oppure in Olanda ove il principale politico di estrema destra non si fa problemi ad incitare la folla di novax. Ed un po' in tutto il mondo sembra esserci una sovrapposizione fra pensiero di destra e rifiuto dei vaccini
Forse ha ragione Matthieu Amiech, sociologa francese che ha pubblicato un libro dal titolo "L'industria del complottismo", ad affermare che questo genere di manifestazioni sociali siano "lo spauracchio delle classi dirigenti" strumentali al controllo sociale ed al mantenimento del potere
È oscuro però capire su quali meccanismi esso si basi, od almeno è difficile trovarne esplicita descrizione
Tentandone una spiegazione, mi sembra di individuare nella dicotomia libertà individuale / responsabilità sociale la chiave per comprendere il successo politico e la diffusione del pensiero complottista fra le masse contemporanee
La libertà individuale è infatti riconosciuta come bene supremo da tutti, ma è sempre stata limitata dai doveri sociali verso il prossimo e la comunità, sia a destra come a sinistra: a destra è declinata spesso come dovere verso la propria stirpe/sangue/religione ed a sinistra come doveri verso la più ampia comunità civile, ma sempre risulta essere mitigata nei confronti dei doveri sociali
Tuttavia, l'alienazione progressiva della rappresentanza democratica, intrinsecamente portata dalla modernità, come già aveva previsto Weber, con il dissolversi od almeno la sfocatura dei contorni dei gruppi sociali, avvia un processo di individualismo spinto all'eccesso come unico paradigma valoriale
In buona sostanza, solo ciò che appare appropriato all'individuo è degno di essere perseguito, contro qualsiasi logica collettiva
Ed in questo rientra chi si sente minacciato dalle misure per contrastare il cambiamento climatico, chi crede che non si debbano fare sacrifici per difendere altri popoli la cui libertà e la vita stessa è minacciata, ed infine appunto coloro a cui si chiede di vaccinarsi
Qualcuno a destra, che aveva già capito queste dinamiche, ha promosso tutta una serie di narrazioni adeguate, dalla presunta supremazia woke alle distopiche fantasie di QAnon per capitalizzare sulla paura delle cose che minacciano la sfera delle nostre abitudini, spacciandole per libertà minacciate dai poteri forti
E poiché il meccanismo di "difesa" della propria sfera individuale a dispetto degli interessi collettivi, è universale, rimane molto difficile da contrastare ed a poco valgono ragionamenti complessi, dati e ricerche scientifiche da mostrare come confutazione di quelle narrazioni
Occorrerebbe un risveglio sociale, un "New Deal" che ci facesse essere parte di un progetto collettivo di benessere condiviso, ma personalmente dubito assai che ciò si possa realizzare a breve, a meno di qualche evento catastrofico
Rimane infine curiosa l'afasia attuale di alcuni che a sinistra avevano vellicato il movimento novax in nome del diritto di scelta vaccinale (cosa che ha anche qualche ragione di essere, ma appunto andrebbe discussa su basi scientifiche e non sui "social") e che adesso vedono alcuni di quei colleghi accettare poltrone, sedie e strapuntini di varie commissioni ed istituti elargiti da governi di destra che riducono i finanziamenti alla sanità ed alla ricerca, e magari anche tentano di ridurre proprio quelle libertà individuali che pretendevano di difendere
L’invito alla discussione sollecita interventi stringati, cerchero’ almeno di non essere troppo lungo.
Punto primo, i criteri per l’inclusione in una commissione consultiva. Dice Cesare : competenza scientifica e apertura al confronto. Per semplificare diciamo che la prima e’ accertabile, ma la seconda ? Si possono scartare persone gia’ note per attitudini pubbliche intolleranti , ma salvo casi estremi il giudizio puo’ risultare sfumato e risulta semplicemente impossibile per candidati competenti non adusi a esibirsi pubblicamente : quindi questo secondo criterio e’ rispetto al primo relativamente “debole”. Ma c’e un terzo requisito che puo’ rivelarsi ben piu’ determinante sul comportamento dei membri di una commissione : la presenza di conflitti di interesse. A titolo puramente esemplificativo credo che una commissione di dieci persone in campo vaccinale costituita da sei membri provenienti da istituzioni scientifiche e privi di conflitti di interesse, tre ricercatori dell’industria vaccinale e un rappresentante commerciale della stessa industria sia di gran lunga preferibile a una commissione di dieci membri tutti provenienti da istituzioni scientifiche ma – come puo’ essere facilmente il caso- quasi tutti con rapporti diretti con l’industria vaccinale. Oltre alla rilevanza intrinseca per il modo di operare di una commissione la presenza di conflitti di interessi e’ una ragione principale addotta da chi e’ ostile ai vaccini la cui promozione, lesiva della liberta’ di scelta individuale, e’ vista come derivante da una combutta tra ricercatori solo nominalmente indipendenti e BigPharma vaccinale. Paradossalmente si ritrovano su questa posizione anche cittadini di orientamento libertario da un lato ostili ai vaccini a causa della non indipendenza degli esperti e dall’altro ostili a tutto il settore pubblico, incluse strutture pubbliche di ricerca il cui adeguato finanziamento ne garantirebbe una effettiva indipendenza.
Punto secondo. Scienza e politica nella societa’. Tema di estensione enorme. Non mi stupisce molto che dopo la presentazione di Paolo Vineis ad Atlanta le reazioni dei ricercatori americani siano state tenui : sono in questo momento , come lo saremmo noi, in stato ‘stuporoso’ per quanto gli sta cadendo addosso in modo repentino. Ed e’ proprio il carattere repentino e inatteso che scopre d’un tratto quanto nelle condizioni normali di funzionamento della ricerca e’ scontato e quindi in pratica ignorato : che la ricerca dipende dall’economia e dalla politica molto di piu’ di quanto economia e politica dipendano dalla ricerca. Perche’ se e’ vero che l’innovazione scientifica modifica continuamente e intermittentemente sconvolge le condizioni concrete di ogni settore della vita sociale e’ anche vero che chi al momento dell’arrivo dell’innovazione e’ in posizione di potere dominante e’ in grado di captarla a suo vantaggio piu’ agevolmente di chi potere ne ha meno o pochissimo : questo a meno che non esista un movimento sociale popolare in ascesa capace di interferire con la captazione. Quanto sta succedendo ai nostri colleghi americani ci fa toccare con mano un fatto fondamentale : il sistema di tutta la ricerca e’ “embedded” nel capitalismo attuale, inclusa la variante predatoria trumpiana e le varianti filantropiche , e si vedono al momento pochi segni di un robusto movimento sociale che venga a tendergli una pertica di collaborazione per uscirne almeno in parte.
Da quel che so la commissione NITAG è stata ritirata subito dopo che un noto giornale ha riportato che ben 6 membri avevano conflitti di interesse con le case farmaceutiche grandi come una casa. Presumo che il ministro se ne sia accorto tardi. E Credo che le nomine dei 2 con posizioni non propriamente favorevoli ai vaccini siano secondarie e non molto rilevanti anche se ha portato una collega del Veneto, nominata, a rifiutare la nomina.
Al di là di queste opinioni ho sempre creduto che il bene collettivo fosse superiore al bene individuale. E ho sempre pensato che la cosa fosse ampiamente condivisa, tant'è che in caso di malattia contagiosa un alunno non può andare in classe venendo privato così della sua libertà, per il bene degli altri compagni di classe e di scuola.
È secondo me il proncipio fondamentale su cui discutere, ed è una decisione politica se si intende equiparare libertà individuale e sicurezza pubblica. La prima tradizionalmente difesa dalla destra, la seconda dalla sinistra.
Caro Alberto, mi dispiace se per qualcuno l'espressione No-Vax risulti offensiva. Ne riconosco l'eccessiva genericità perché viene usata sia per chi ha un'avversione ingiudtificata verso i vaccini ma anche, di sicuro impropriamente, per chi invece ha delle perplessità basate su riflessioni scientifiche.
la valutazione dei rischi e dell'efficacia dei vaccini per il Covid è una cosa seria e purtroppo spesso affrontata superficialmente sia da chi è contro sia da chi è a favore.
Mi permetto di segnalare il link di una nota del Mario Negri sull'argomento: non dico sia la verità peró non ne dubito sia la scientificità sia, per quanto ne conosco, l'onesta e l'indipendenza. Vale la pena ragionarci!
https://www.marionegri.it/magazine/sfatiamo-i-falsi-miti-sul-vaccino-covid-19-effetti-collaterali-rischi
Non dire di posizioni no-vax, termine infamante e assurdo, come targare no-farm chi vuol valutare rischi, benefici attesi ecc. di ogni farmaco in sé, e poi rispetto ai destinatari.
Ecco una rettifica (non soddisfatta) inviata da me a La Repubblica, simile ad altre inviate dal Pediatra Serravalle, uno dei due medici diffamati.
‘L'articolo… 23-8-2025 di M. Giannini… afferma: ‘… un pediatra sicuro che i bambini non vaccinati siano più sani dei vaccinati… come se per fronteggiare un virus… servissero anche sciamani aborigeni, guaritori filippini, cartomanti gitani… superstizione che scavalca la scienza’. Il Dott. Serravalle è membro della Commissione Medico-Scientifica indipendente (CMSi), e chiedo (art. 8 L. 47/’48 di pubblicare questa rettifica:
Per quanto riservato al membro CMSi Dott. Serravalle, van chiariti gravi equivoci. Anzitutto, proprio perché non è sicuro (con prove certe) di quanto riferite sulla salute complessiva dei bimbi non vaccinati, chiede una ricerca di disegno adeguato (oggi carente) per smentire o confermare osservazioni sul campo.
Nella CMSi siamo uomini di scienza. Tra i critici sulla narrativa vaccinale corrente vi sono, certo, anche posizioni non scientifiche, che però abbondano anche tra i fautori dei vaccini a prescindere. Ma altri scienziati critici, tra cui noi della CMSi:
• dichiariamo riferimento al metodo scientifico: riferirsi all’Evidence è la regola interna n. 1 per appartenere alla CMSi
• chiediamo da anni confronti scientifici basati su prove, impegnandoci a presentare non opinioni, ma dati, fatti, prove aggiornate
• se nei confronti ci portassero prove più valide e forti di quelle a noi note, lo ammetteremmo in modo pubblico
• rifiutiamo l’ingiuria no-vax. Accetteremmo EB vax.
Se La Repubblica non sapeva, dimostri la buona fede accettando un confronto scientifico, affiancata da chi riteneste, a condizioni eque da concordare. Se si concretizza, riconsidereremo rivalse in sede penale e civile per le gravissime diffamazioni attribuite anche al dissenso scientifico e alle posizioni critiche costruttive che, con altri, esprimiamo.
24-8-2025 Il coordinatore CMSi, Dott. A. Donzelli
Sui criteri per far parte del Nitag, i due colleghi li rispettano per competenza scientifica specifica (per Bellavite accademica, e con 177 pubblicazioni su PubMed, 15 sui vaccini), disinteresse privato/indipendenza da COI, disponibilità al confronto, e, almeno Serravalle, membro CMSi, per adesione ai 4 punti su richiamati.
Alberto Donzelli 339-71.03.452
Grazie per gli interessanti spunti.
Mi sembra di ricordare che nelle critiche alla commissione ci fossero anche il problema del conflitto di interesse nonché di rappresentazione di professione sanitaria. Questi mi sembrano quasi più importanti, e in pochi ne hanno parlato, alimentando così un dibattito che sembra sterile dualismo tra vax e non vax. Messaggio molto sbagliato verso i cittadini.
Ai cittadini dovrebbero essere assolutamente esplicitati, e resi noti in modo trasparente, i criteri con cui si forma una commissione.
Cesare Cislaghi parte dal fatterello del NITAG per poi provocare più in generale un dibattito su scienza e politica. Troppo ampio il tema generale per essere trattato in un blog: mi limito ad alcune considerazioni sulla questione NITAG.
Il decreto che ha istituito il NITAG (National Immunization Technical Advisory Group), cioè il Gruppo Tecnico Consultivo Nazionale sulle Vaccinazioni, dice che ad esso “sono affidati compiti di supporto tecnico alla definizione delle politiche vaccinali nazionali” e aggiunge che esso “opera seguendo un approccio di valutazione delle tecnologie sanitarie (Health Technology Assessment) coerente con il processo decisionale suggerito dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, indicando le evidenze scientifiche che sostengono le decisioni di politica vaccinale, valutando l’attendibilità e l’indipendenza delle fonti utilizzate e verificandone l’assenza di conflitti di interesse”. Inoltre “I componenti del NITAG, nel loro operato, garantiscono completa indipendenza e non rappresentano gli interessi di specifici gruppi di interesse”.
Chi ha avuto l’opportunità di partecipare a questi tipi di gruppi presso il Ministero della Salute non farà fatica a rendersi conto di quanto siano molto formali (cioè non si possono non scrivere) ma poco sostanziali (cioè quello che effettivamente avviene) i requisiti che vengono indicati: sicuramente nei gruppi ci sono degli esperti e si trattano argomenti tecnici (ma non solo); più incerto e discutibile è che venga seguito l’approccio descritto nel decreto; assolutamente impossibile (nella mia esperienza) che si riesca a garantire “completa indipendenza” ed a non rappresentare “gli interessi di specifici gruppi di interesse”. Questa premessa mi è necessaria perché si comprendano le considerazioni che seguono.
Nel decreto istitutivo del NITAG il Ministro ha nominato 22 persone e nell’elenco sono presenti i dottori Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle. Ritenendo di aver riconosciuto, in questi due medici, persone che avevano espresso critiche sulle politiche vaccinali adottate durante la pandemia si è immediatamente scatenata la gogna nei loro confronti da parte di molte società rappresentative un po’ di tutta la comunità medico-scientifica, di molti soggetti che si sono espressi personalmente, della usuale raccolta di firme che non manca mai in queste occasioni (con firme di peso: Silvio Garattini, Giorgio Parisi, Matteo Bassetti, per dirne alcuni), e naturalmente di tutta l’opposizione politica al governo, ma anche con tanti malumori all’interno della maggioranza. Nel frattempo, proprio la presenza di Bellavite e Serravalle ha portato una delle componenti della commissione (Francesca Russo, direttrice della prevenzione della regione Veneto e coordinatrice dell’area prevenzione della Conferenza delle regioni) a dimettersi.
Montata la polemica e consigliato (dalla sua parte politica?) di attendere nel prendere ulteriori decisioni, il ministro ha superato tutti (non so se a sinistra o a destra) e con atto di imperio ha revocato tutta la commissione appena nominata.
Con queste azioni credo che il Ministro abbia compiuto due errori.
Primo errore. Se i due medici sono degli esperti al pari degli altri che sono stati nominati e sui quali non ci sono state obiezioni (e qui bisognerebbe almeno intendersi sulle caratteristiche che definiscono uno un esperto) non vedo perché non possano essere nominati; se invece essi non sono degli esperti allora il Ministro ha sbagliato, ma poteva facilmente correggersi (certo accettando di fare brutta figura) sostituendoli con due altre persone.
Secondo errore. A seguito delle proteste il Ministro ha revocato la nomina dell’intera commissione, commettendo in questo modo, a mio avviso, un secondo errore: è diventato infatti evidente che il NITAG è solo in apparenza un organo tecnico e indipendente ma in realtà risponde innanzitutto alla politica, peggio ancora se alla politica partitica.
Fino a qui gli errori che attribuisco al comportamento del Ministro.
L’intera vicenda, però, mi porta anche ad un’altra considerazione. Quali sono stati gli argomenti utilizzati dai polemizzatori nei confronti dei due medici nominati? Forse hanno portato elementi per dire che non si tratta di soggetti esperti (ma gli altri lo erano tutti?) e che quindi la loro nomina non era giustificata? Niente affatto: si è trattato semplicemente della opposizione alle idee che i due avrebbero espresso in precedenza, idee ritenute non condivisibili al punto tale da provocare tutto quel po’ po’ di reazione e persino una dimissione. Detto in altre parole, forse un po’ più forti ma sicuramente più chiare: si è trattato di censura ideologica, di critica aprioristica alle idee, perché è del tutto evidente che le proposte ed indicazioni che Bellavite e Serravalle (che personalmente non conosco) avrebbero potuto portare nella commissione tecnica sarebbero comunque state sottoposte al vaglio degli altri 20 componenti.
[Nota bene. Non vorrei che da queste considerazioni qualcuno deducesse che io sia condiscendente con qualche tesi no-vax: chi lo pensasse sarebbe assolutamente fuori strada perché sono favorevole alle vaccinazioni (ed ho fatto tutte quelle previste per il covid) e contrario agli argomenti no-vax].
Dietro a tutto questo ambaradan, il vero tema che si pone, che a mio parere però non ha soluzione, è come deve essere composta una commissione come il NITAG, quali tipi di figure devono essere chiamate, come si fa a definire gli attributi che deve possedere chi viene chiamato a partecipare, e così via: osservo, ad esempio, che tra i 22 chiamati in questo caso dal Ministro non sembravano presenti le competenze epidemiologiche, anche se proprio su questo argomento si è svolta una robusta contrapposizione di pareri in un blog che è stretto parente di questo.
E perché, a mio parere, non ha soluzione? Perché si deve accettare la impossibilità che le commissioni nominate dai governi, dovendo aiutare i governi stessi nella definizione di politiche sanitarie, possano essere indipendenti rispetto alla politica: il massimo che ci si può aspettare è che si dia spazio ad esperti (che in ogni caso sono persone con una propria opinione o visione culturale o ideologica), che siano coperte con esperti tutte le aree che possono subire le ricadute delle politiche relative all’argomento di volta in volta in discussione, che possano essere rappresentati i diversi punti di vista che sono caratteristici di un determinato argomento (anche se le commissioni devono avere una numerosità che permetta di lavorare agevolmente), e poco altro.
SAituazione assurda. l politico deve interessarsi di scienza ma non sostituirsi allo scienziato, specie se i suoi vaneggiamenti non comportano alcuna responsabilità. Sarebbe interessante conoscere la posizione dell’Ordine dei Medici e quali azioni concrete intenda prendere.
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Opportuna proposta di dibattito su un tema come le vaccinazioni: appare dai dati ministeriali che in molte regioni siamo alla soglia minima per l'immunità di gregge per il morbillo. Su questo si potrebbe aprire un bel dibattito: anche il R.K junior ha rivisto in parte la su posizione sul morbillo.
Debbo dire che avendo letto delle nomine per la Commissione NITAG effettuate a firma del ministro Schillaci ho pensato che era suo intento aprire un confronto interno con chi ha altra visione sui vaccini. Il fatto che abbia azzerato tu mi lascia perplesso: lo ha fatto a seguito delle pressioni dei partiti (la politica è ben altra cosa!), oppure non sapeva chi aveva nominato?
Purtoppo non c'è una adeguata educazione sanitaria dei cittadini: la medicina di base ha da fare mea culpa.
Buon dibattito
MF
Gentilissimo dott. Cislaghi, il Suo articolo apre a importanti riflessioni. Il corso di laurea di cui fa cenno " ...di sanità pubblica ... di promuovere la salute collettiva ..." già esiste ed è il Corso di Laurea in Assistenza Sanitaria e gli scopi della professione di Assistente Sanitario sono definiti dal relativo Profilo professionale. Pensi che la professione di Assistente Sanitaria Visitatrice nacque nel 1919 subito dopo la prima Guerra Mondiale. Quanta storia quanta esperienza e conoscenza porta con sè. Sono certa, se fosse di Suo interesse, che l'Ordine e l'Albo di appartenenza cosi come AsNAS -Associazione Nazionale Assistenti Sanitari - sarebbero lieti fornirle ogni informazione.
Cordialmente,
Mara Bonazzola
Assistente Sanitaria professionista della prevenzione
Ho letto velocemente quanto scritto descritto e ipotizzato nell'articolo.
Per rigenerare i Servizi Territoriali mi pare occorra un confronto sereno e costruttivo, di sicuro occorrono risorse ma soprattutto è necessario riconoscere alla Assistenza Sanitaria Territoriale la dignità che merita.
Penso che la Medicina Preventiva nelle Comunità, la Prevenzione e la Promozione della Salute siano questioni serie, non riconducibili alla riformulazione sommaria di qualche funzione burocratica.
Ringrazio comunque per la attenzione dedicata e per il tentativo evidente di mantenere aperta la discussione su temi scottanti.
M.Grazia Alloisio
Assistente Sanitaria
Lo spunto di riforma della medicina di base che ho qui scritto deve evidentemente semmai essere approfondito e le figure professionali devono essere ridisegnate stabilendone formazione e competenze. Ho solo voluto dare una provocazione affermando che i MMG devono ritornare a fare veramente i clinici senza esser ingolfati da compiti che altri potrebbero fare anche megliodi loro.
Trovo assai interessante l'impostazione data alla proposta di cambiamento. Appare un pochino prolissa e non ben chiaro il ruolo che si propone per l'Assistente Sanitario: affidare la parte burocratica per toglierla al MMG va bene. Fare prevenzione bene: un tempo la figura era ASV Assistente Sanitaria Visitatrice, che entrava nelle case e verificava la condizione abitativa e familiare. Ma non mi pare possa dare consigli su piccole patologie: lasciamo questo agli Infermieri di Famiglia/ Comunità. Sostiture "igiene" con "prevenzione" è un concetto bellissimo.
Buon proseguimento
Mario Fiumene
Opportuna questa precisazione. Un "caso" di Covid per lo più è un caso di contagio confermato con il virus Sars-2-Cov. All'inizio della pandemia veniva considerato caso anche solo su base sintomatologia , ma da quando si sono diffusi i test antigenici sono questi la base della definizione di caso. Un problema è per i casi registrati di ricovero e di decesso: sono "per Covid" o "con Covid".? Per lo più i ricoveri sono con Covid perché comunque necessitano di isolamento mentre per i decessi si richiede la causa iniziale e quindi dovrebbero essere per Covid.
Questa la teoria, però ormai i casi sono solo quelli diagnosticati nei PS che per lo più fanno test antigenici solo a coloro che hanno sintomatologie che creano sospetto. Però per il ricovero in alcuni reparti, come gli oncologici, il tampone è obbligatorio e quindi vengono individuati anche i contagi asintomatici.
Comunque gli andamenti dei casi registrati nel breve dovrebbero indicare correttamente l'andamento della circolazione del virus in quanto le procedere di diagnosi non mutano solitamente rapidamente.
Interessante articolo, che evidenzia la sottonotifica dell'infezione di SARS-CoV-2. Non dimentichiamo che COVID-19 e', a quanto mi risulta, l'unico esempio di malattia infettiva la cui definizione di caso confermato e' data dal solo criterio di laboratorio. Forse in questa fase della sorveglianza, in cui moltissime infezioni risultano asintomatiche, occorrerebbe separare la sorveglianza epidemiologica dell'infezione, utile a controllarne la circolazione, da quella della malattia, rispecchiata in modo più veritiero dall'andamento dei ricoveri ospedalieri.
La valutazione della circolazione di Covid-19 è particolarmente difficile ovunque data la scarsa attendibilità dei dati di notifica di nuove infezioni e in effetti la sorveglianza anche a livello internazionale rientra ormai nel monitoraggio delle malattie virali respiratorie al pari dell’influenza e delle infezioni da RSV. Però a differenza di molte di queste forme Covid-19 non è stagionale e continua a circolare in tutte le stagioni, con andamenti perturbati solo dalla quota di persone immunizzate con vaccinazione recente o infezione recente. L’indicatore più attendibile di frequenza ed importanza delle infezioni da SARS-CoV-2 è certamente il numero di nuovi ricoveri dovuti alla malattia o comunque in cui l’infezione agisce da concausa aggravando patologie preesistenti. In EU ECDC segnala un aumento di positività dei tamponi analizzati in diversi paesi europei. Tuttavia la frequenza di ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi per SARS-CoV-2 è inferiore a quella registrata nello stesso periodo del 2024. Le persone sopra i 65 anni rimangono a maggior rischio di forme più severe. ECDC mette in guardia dal fatto che la ridotta circolazione dello scorso inverno possa essere motivo di aumentata suscettibilità per la ridotta esposizione naturale . Anche negli USA le positività per Covid-19 sono più frequenti di quelle per qualsiasi altro virus respiratorio. L’ondata estiva di Covid-19 sta crescendo, soprattutto nelle zone sud e ovest degli USA, ma l’incidenza è ancora inferiore a quella dello scorso anno. Anche le ospedalizzazioni sono in crescita e I tassi più elevati di accesso al pronto soccorso sono per bambini nei primi sei mesi di vita.
I numeri ufficiali danno una crescita dei contagi registrati di un 36% in più: da 513 a 700 nella settimana 31/7 - 6/8 e i tamponi con esito positivo dal 2,8% sono diventati il 4,2%. Stabili o quasi i ricoveri e per fortuna pochi i decessi, cinque.
L’incompletezza delle registrazioni impedisce di stimare esattamente quanto stia realmente crescendo la circolazione del virus e non vorremmo però che accadesse come nell’agosto del ‘20 quando la riapertura estiva delle discoteche contribuì alla successiva grande ondata autunnale.
Il virus non fa più paura ma fa ancora morire, seppur episodicamente, fa ancora ricoverare anche in terapia intensiva anche se non c’è una emergenza ospedaliera.
Insomma il Covid non è diventato come un banale raffreddore anche se molti lo credono.
Occorre una maggior consapevolezza collettiva perché in presenza di sintomi respiratori diventi consuetudine porsi con cautela in auto isolamento per ridurre, seppur non eliminare, i rischi di propagazione del contagio. E un’altra precauzione e quella di curare maggiormente l’igiene dell’aria negli ambienti chiusi, specie se aria condizionata: serve aprire spesso per cambiar aria seppur se così facendo si fa crescere la temperatura: un grado in più per qualche contagio in meno.
E speriamo che il virus si stanchi finalmente di darci fastidio.
Epidemiologo è chi epidemiologo fa
Alla domanda posta da Cesare mi verrebbe spontaneo rispondere alla Forrest Gump “epidemiologo è chi epidemiologo fa”. Ma, Forrest Gump a parte, la necessità che l’epidemiologia continui ad avere il contributo di molte competenze e discipline dentro e fuori la sanità emerge in maniera direi addirittura urgente dalla crescente necessità di avere il supporto della epidemiologia nella analisi “attualizzata” dei determinanti di salute. Mi riferisco in particolare all’analisi del rapporto tra le scelte di politica sanitaria e i livelli di salute della popolazione. Prendiamo i dati dell’ultimo Rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile) dell’ISTAT, dove la differenza tra dato regionale massimo e minimo in termini di attesa di vita alla nascita è di 84,6 (Provincia di Trento) e di 81,4 (Campania), mentre l’attesa di vita in buona salute ha un range che va da 66,5 (Provincia di Bolzano) a 52,8 (Basilicata). Tra i tanti fattori che influenzano quest’ultima forbice impressionante c’è la “qualità” dei sistemi sanitari regionali molto mal monitorata dal sistema di indicatori ministeriali del Nuovo Sistema di Garanzia, ma emerge molto meglio dalle tante indagini di settore su Dipartimenti di Salute Mentale, consultori, servizi per le demenze, rete delle cure palliative, residenzialità per anziani, cure domiciliari, ecc. Dietro alle carenze dei servizi che ho nominato c’è invece la esuberanza e la frammentazione delle reti ospedaliere pubbliche e private e quindi le scelte di politica sanitaria delle Regioni. Questo tema, il rapporto tra livelli di salute e scelte di politica sanitaria, dovrebbe essere uno dei campi di gioco della epidemiologia. Ieri, per caso ma non troppo, mi sono imbattuto sul nuovo Piano socio-sanitario della Regione Piemonte, preceduto da uno studio… (qui ci vogliono i puntini sospensivi) dalla School of Management della SDA Bocconi. Per andare al linguaggio del vecchio calcio, la Bocconi è stata usata dalla Regione Piemonte come “lo straniero di coppa”, e cioè lo straniero di talento da far giocare nelle competizioni internazionali di maggior prestigio. Il messaggio è a questo punto chiaro: ha ragione Cesare quando conclude che “è essenziale che nel SSN venga riconosciuto il ruolo dell'epidemiologo cui assegnare compiti essenziali nell'ambito della programmazione e della valutazione dei servizi”, ma perché questo ruolo venga riconosciuto la cultura e la pratica epidemiologica dovrebbero impregnarsi di “sanità pubblica”.
Ormai siamo diventati tutti iper realisti. I miliardi di detrazione dall'IRPEF sono una forma di spesa pubblica implicita poco razionale. La salute è tutelata dal SSN: perchè rinunciare a questi miliardi, data la pressione finanziaria a cui è sottoposto. Voglio anche aggiungere il tema del welfare aziendale, esteso diversi anni fa anche alla sanità. Ormai moltissime aziende offrono minimi benefici non tanto per sensibilità sociale o sanitaria. Ma perché i costi di questi servizi sanitari o mini polizze assicurative sono trattati come costi e non retribuzioni? In sintesi, un welfare aziendale del valore di 100 euro equivale a molto meno se fosse dato come retribuzione (qualcosa più di 50 euro date imposte e contributi previdenziali). In sintesi anche in questo caso lo Stato rinuncia a un reddito a fronte di spese sanitarie.
È difficile modificare i diritti acquisiti, ma l'iperealismo del dibattito di questi ultimi anni sta diventando immobilismo e retorica. Si dice che mancano risorse ma non si indica mai dove recuperarle. Si pronunciano in continuazione proclamazioni di principi ma non si fanno proposte concrete. E ora di essere più radicali se si vuole salvare il SSN.
Sono molto grato a Carlo Zocchetti per le sue riflessioni così importanti sui nuovi indirizzi della Corte costituzionale, che ci rimandano alla questione attualissima delle priorità. Mi vengono in mente i contributi dell' Oregon, dell' Olanda e della Svezia negli anni 90 sui criteri da adottare per la definizione dei problemi prioritari. Bisognerebbe ripartire da lì per ulteriori approfondimenti. E sono grato anche a Cesare Cislaghi che ci offre ulteriori spunti. Quanto è conveniente, ad esempio, oltre che legittimo , per la collettività, privilegiare la libertà di impresa, a proposito del gioco di azzardo trascurando il fatto che l' attività economica "non può svolgersi in contrasto con l' utilità sociale o in modo da recar danno alla salute..." (Art. 41 della Costituzione). E che dire degli effetti che si potrebbero ottenere sulla salute tramite imposte marginali su alcol, fumo e bibite zuccherate. Oppure sulle successioni multi-milionarie o sui patrimoni superiori a svariate decine di milioni? Non varrebbe la pena di essere più creativi e propositivi, come ci invitano a fare Zocchetti e Cislaghi?
È sicuramente bene che la Corte abbia ora dato priorità ai bisogni di salute, ma non lo ha sempre fatto come nella sentenza 104 del 2025 (gioco d'azzardo on line) in cui , alla faccia del fondamentale diritto alla salute, vien fatto ahimè prevalere la cosiddetta libertà di impresa senza tentare un benché minimo bilanciamento!
Affermare la preminenza della prevenzione sulla cura e la necessità di investire in prevenzione è scontato e certamente non si può dissentire da affermazioni così generali come quelle contenute nel decalogo ministeriale. E' evidente che per ottenere qualche risultato bisogna che sia le singole persone che chi offre occasioni di prevenzione cooperino secondo un quadro sinergico efficiente. Quindi la domanda che sorge è: chi dovrebbe fare cosa? Prendiamo ad esempio l'attività fisica: per ridurre la sedentarietà che affligge più di un terzo della popolazione adulta (vedi dati Passi https://www.epicentro.iss.it/passi/dati/attivita-oms ) con punte del 51% non credo basti raccomandare di fare una corsetta o le scale di casa. La sedentarietà è sostenuta da ambienti che non promuovono la riduzione dell'uso dell'auto, che non facilitano la camminata, insomma da un contesto sociale in entrano in gioco molti fattori al di fuori dell'ambito prettamente sanitario. Nel 2007 il Ministero della Salute, riconoscendo il ruolo di ambiti esterni al mondo sanitario lanciò l'iniziativa Guadagnare Salute per rendere facili le scelte salutari con accordi interministeriali (scuola, lavoro, industria, etc) . A che punto siamo? Chi fa cosa? E soprattutto, dato che l'Italia è bella perchè è varia, ogni ASL sa quello che serve alla propria popolazione di assistiti e ha le risorse per monitorare e rispondere? Il sistema di sorveglianza decentrato PASSI era nato per questo scopo: sorveglianza per l'azione locale. Il decalogo cosa promuove? azioni centrali? azioni regionali? Sarebe il caso e l'ora di disporre di una politica sanitaria concreta che vada oltre le affermazioni di principio.
Il decalogo spiega cos’è la prevenzione, ma non indica con chiarezza dove debbano intervenire le decisioni politiche per renderla efficace ed equa. È un manifesto che reclama un cambio di paradigma – dalla sanità curativa alla salute preventiva – e individua nell’approccio One Health, nella digitalizzazione e nella partecipazione civica le principali leve d’azione.
Per renderlo davvero completo, occorre anzitutto dare spazio alla salute mentale come filo conduttore di tutte le età, prevedendo interventi di promozione, diagnosi precoce e contrasto allo stigma. Serve poi un focus specifico su maternità, infanzia e adolescenza, in cui includere, per esempio, nutrizione, prevenzione dell’obesità e dipendenze digitali. È inoltre necessario riconoscere e contrastare i determinanti sociali strutturali – reddito, istruzione, condizioni abitative, trasporti – che plasmano il gradiente di salute prima ancora dei comportamenti individuali.
Andrebbe adottato un approccio life-course alla prevenzione che consente di potenziare l’efficacia degli interventi e di migliorare le traiettorie di salute a lungo termine, compresa la prevenzione della multimorbidità e della cronicità.
Un ulteriore elemento da rafforzare è la prevenzione secondaria, che ha un ruolo decisivo nel ridurre l’impatto delle malattie croniche attraverso l’individuazione precoce dei segnali di rischio e delle patologie in fase iniziale. È essenziale garantire un accesso equo, capillare e continuativo ai programmi di screening oncologici (mammella, cervice uterina, colon-retto), ampliandone la copertura e migliorandone l’adesione. La prevenzione secondaria deve essere integrata nella medicina di prossimità e nella sanità digitale per identificare tempestivamente i soggetti a rischio. È fondamentale ridurre le disuguaglianze territoriali e socioeconomiche nell’accesso agli screening, rafforzando l’informazione e il coinvolgimento attivo della popolazione.
Il documento guadagnerebbe solidità fissando indicatori misurabili e un sistema di monitoraggio con obiettivi chiari, indicando al contempo le fonti di finanziamento (Fondo sanitario nazionale, PNRR, fondi europei) e la ripartizione delle responsabilità tra Stato, Regioni e Comuni.
Occorre valorizzare e formare in modo continuativo gli operatori della prevenzione, rafforzandone le competenze in scienza dei dati, sanità digitale e comunicazione del rischio, tenendo presente che la trasformazione digitale impone di colmare il divario digitale e di tutelare la privacy per evitare nuove disuguaglianze.
Andrebbe infine estesa la valutazione dell’impatto ambientale a suoli, acque, qualità dell’aria indoor e contaminanti emergenti, dedicando un capitolo alla capacità di risposta alle pandemie con piani di allerta precoce, scorte di dispositivi di protezione individuale e una rete di sorveglianza One Health, in continuità con l’esperienza della Covid-19.
Per la sanità solo spot senza strategia
Ho vissuto, come molti colleghi anziani, gli anni d’oro della sanità, quelli prima e dopo il ‘78 anno di fondazione del SSN con la 833 votata da TUTTO il parlamento tranne dai pochi del PLI.
Allora c’era in tutti la condivisione di una strategia: pubblico, equitá, prevenzione, ecc.ecc.
Oggi si è persa quella strategia e non se ne è creata veramente un’altra se non quella di permettere al privato di entrare sempre più.
E di quando in quando escono degli spot, come questo decalogo, che ripartano frasi di un tempo ma che hanno poca probabilità di diventare provvedimenti effettivi.
Occorrerebbe ridisegnare le strategie, ma forse sarebbero antitetiche con quelle della 833.
Per cui forse siamo destinati a leggere degli spot per far contenti quelli che ancor ci credono, ma poi si lascia che continui una deriva sino a quando, inevitabilmente, si dovrà ridisegnare il sistema sanitario e temo che sarà un sistema su base assicurativa più favorevole ai benestanti.
L’alternativa è ridisegnare una strategia che abbracci i valori della 833 ridisegnando le regole secondo i nuovi bisogni e il nuovo assetto della società.
Bisogna rallegrarsi perché tante affermazioni sono condivisibili. Ma occorre ricordare che prevenzione è soprattutto riduzione delle disuguaglianze e impegno per la giustizia sociale.
Auspico anch'io che si studi e si porti aventi la proposta di una laurea per operatore di sanità pubblica cui far seguire le lauree specialistiche in salute ambientale, epidemiologia di popolazione, management delle strutture sanitarie, economia sanitaria. Spero che questo auspicio venga raccolto da qualche istituzione in grado di sviluppare questa proposta! Oggi la didattica di medicina è tutta impostata sul singolo individuo mentre per la sanità pubblica serve una didattica differente che parta da una visione della società.
L'argomento è sempre di interesse, chi è Epidemiologo, se l'Epidemiologo è chi ne sa (e sa fare in ) Epidemiologia, e quale ruolo può avere nel SSN.
Dobbiamo dire che l' "ingessatura" del sistema di reclutamento nella Dirigenza Sistema Sanitario travalica la disciplina Epidemiologia e in qualche modo contraddice l'attuale situazione in cui già al secondo anno di una specializzazione, lo specialista in formazione può concorrere per la Dirigenza (seppure con alcune specifiche limitazioni).
Anche all'interno dei Medici di sanità pubblica, la possibilità di accesso all'Epidemiologia non è scontata. Sebbene molti Epidemiologi italiani di fama nazionale e internazionale siano specialisti in Medicina del Lavoro (specialità di Sanità Pubblica, così come Igiene e Medicina Preventiva, Medicina Legale, Statistica Sanitaria), la specializzazione in Medicina del Lavoro non è enumerata tra le specialità affini ai sensi del DM31.01.1998 per concorrere per il primo livello dirigenziale della disciplina "Epidemiologia", sebbene lo sia per la disciplina "Igiene, Epidemiologia e Sanità Pubblica". A mio avviso è una mancanza che andrebbe sanata.
Fatto questo inciso che riguarda "solo" i medici, ritengo che l'idea di Ennio su una laurea in Epidemiologia è interessante , perché magari fin da subito dopo la scuola superiore i futuri epidemiologi apprenderebbero nozioni mediche, biologiche, matematiche, statistiche, ambientali con cui in qualche modo gli epidemiologi devono in ogni caso confrontarsi. Il rovescio della medaglia è che a legislazione vigente i laureati in Epidemiologia si troverebbero a entrare nel SSN nel comparto e non nella dirigenza.
In ogni caso, l'argomento è complesso e interessante. Saluti a tutti
Caro Cesare,
Quanto sono importanti le cose che dici!
Ma come si può riuscire a far riconoscere l' importanza della epidemiologia ai politici che governano la sanità?
Basti ricordare che ormai si parla solo di economia aziendale. L'economia sanitaria è scomparsa, e' diventata un inutile retaggio del passato.
C'è bisogno di studio e riflessione.
Era tanto tempo fa e la professionalità dell’epidemiologo non esisteva.
C’era il neurologo, il cardiologo, il dermatologo, etc etc, ognuno con la sua disciplina e i suoi concorsi riservati.
L’AIE sotto la presidenza Biggeri riuscì a far approvare l’istituzione della disciplina di epidemiologia.
Il ministero chiese di riservarla tuttavia a lauree sanitarie.
Quindi Medico, Fisico Biologo Sociologo, Psicologo.
E poi ci fu il problema della specializzazione obbligatoria.
Da cui le due discipline di igiene e sanità pubblica e statistica sanitaria, equipollenti per la disciplina.
Chi aveva la laurea in matematica o statistica o ingegneria o altre protestó.
La disciplina era stata istituita, ma molti epidemiologi che già ci lavoravano non potevano partecipare ai concorsi pubblici.
Però c’erano epidemiologi bravissimi tra altre discipline e non si sapeva cosa fare.
Il Ministero era stato chiaro: doveva essere una disciplina sanitaria a cui potevano avere accesso solo lauree in ambito sanitario.
Se dal punto di vista concorsuale erano stati posti dei paletti invalicabili, dal punto di vista pratico c’erano troppi bravissimi epidemiologi in altri campi, in primis statistica, ma anche matematica e connessi (ingegneria ad esempio).
Dentro l’AIE non c’erano pregiudizi verso altre lauree, ma quando si arrivava ai concorsi le normative erano invalicabili.
Poi conoscevi all’estero persone bravissime nel campo con formazioni disparate e grandissimo successo. Colleghe andate negli USA con lauree in matematica o statistica o altre che erano diventate docenti di epidemiologia in università prestigiose o ricercatori famosissimi.
In Italia non avrebbero avuto possibilità. Probabilmente erano andati all’estero perché avevano capito i paletti della nostra normativa.
Persone poi che si laureavano in epidemiologia in 4 anni con stipendi favolosi una volta iniziato il lavoro, da far impallidire qualunque primario in epidemiologia in Italia.
Con appartamenti a New York o Londra e pubblicazioni di alto livello.
Cosa dire?
Mi sembra che la lezione, amara, sia una sola. L’epidemiologia dovrebbe essere un corso di laurea a sé stante, con accesso libero da ogni istruzione superiore. Equivalente a Fisica o Biologia etc.
Con accesso ai posti riservati ad epidemiologi nelle strutture di epidemiologia del SSN.
È il sistema concorsuale italiano ad essere superato e indietro rispetto ai tempi e all’evoluzione della scienza.
Ci vorrebbe una riforma.
Che visto il governo conservatore attuale che non gradisce nessuna innovazione mi pare molto poco probabile in un prossimo futuro.
Per cui un consiglio a chi si è innamorato di questa disciplina ma non ha le lauree richieste del profilo concorsuale.
Se siete convinti e sapete di essere bravi imparate l’inglese e andate altrove. In Italia per voi non c’è futuro, o solo un futuro di precariato e tante, tantissime vessazioni e umiliazioni. Non ne vale la pena.
La lettura di questo intervento ha riacceso una domanda che mi pongo da anni: perché il ruolo dell’epidemiologo non è ancora formalmente riconosciuto nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e perché spesso sembra riservato esclusivamente ai medici?
L’epidemiologia è, per sua natura, una disciplina scientifica multidisciplinarecon competenze, metodologie e percorsi formativi propri. Ciò che la rende unica è che si può diventare epidemiologi sia attraverso una formazione accademica specifica sia attraverso l’esperienza pratica. La sua forza risiede proprio in questa flessibilità e nella sua ampia applicabilità.
Il campo dell’epidemiologia comprende numerosi rami: epidemiologia della sanità pubblica, clinica, nutrizionale, ambientale, delle malattie infettive, sociale, genetica, farmacologica, sul campo e perfino politica. Ciascuno di questi ambiti richiede metodi, culture professionali e conoscenze specifiche, spesso integrando competenze di statistica, demografia, economia sanitaria, informatica e scienze sociali.
Limitare l’identità dell’epidemiologo solo ai medici significa impoverire la disciplina e, più in generale, indebolire la sanità pubblica. In un’epoca in cui la capacità di leggere dati, pensare criticamente e collaborare tra discipline è fondamentale per affrontare sfide sanitarie complesse, è necessario ripensare come si definisce e riconosce questa professione nel nostro sistema sanitario.
Ciò che mi sorprende è che l’Associazione Italiana di Epidemiologia (AIE) non abbia difeso con maggiore forza il riconoscimento professionale degli epidemiologi. Non intendo dire che l’AIE non faccia advocacy, ma, a mio avviso, i suoi sforzi in questo ambito specifico sembrano sotto la soglia necessaria per garantire un riconoscimento formale della professione. Questo crea, o almeno permette, una situazione in cui gli epidemiologi sono confinati in uno spazio molto ristretto, con scarsa visibilità e supporto istituzionale.
Ringrazio l’autore per aver portato alla luce un tema tanto importante quanto spesso trascurato. È giunto il momento di allineare l’identità scientifica dell’epidemiologia con il modo in cui essa viene riconosciuta e integrata nella pianificazione delle risorse umane, nei profili professionali e nei percorsi di carriera — non solo in ambito accademico, ma soprattutto all’interno dei servizi di sanità pubblica.
Vorrei fare un breve commento "non epidemiologico" al Piano Pandemico, o meglio alla sua bozza. In particolare vorrei cercare di rispondere alla domanda se e quanto il SSN ha imparato dalla pandemia in termini complessivi e quindi di politiche per la salute. Purtroppo tutte le criticità che tutti hanno ripetutanente dichiarato dopo la pandemia di voler affrontare in termini ad esempio di incremento del finanziamento, di politiche del personale, di riequilibrio tra il macrolivello LEA della assistenza ospedaliera da contenere e gli altri due macrolivelli della assistenza distrettuale e della prevenzione da espandere, di maggiore attenzione alle fragilità a tutte le età e di crescita della sanità digitale sono ancora molto lontane dall'essere risolte, con la solità disomogeneità tra Regioni. Alcuni problemi si sono addirittura ingigantiti come la carenza non solo di personale, ma ancor prima la crisi delle vocazioni per figure chiave come gli infermieri, i medici di medicina generale e gli specialisti di area critica e dell'area della emergenza-urgenza. La bozza di Piano Pandemico, certamente migliorabile anche da altri punti di vista, come già sottolineato dagli interventi precedenti, di tutto questo non tiene alcun conto anche quando lo dovrebbe obbligatoriamente fare ad esempio prevedendo dei meccanismi per avere maggiore operatività nelle aree critiche (terapie intensive e semintensive) pur in carenza di personale specializzato. Forse alcuni di questi aspetti potranno essere recuperati a livello regionale, ma altri dovrebbero essere forzati dal livello centrale che ne ha facoltà e che ha gli strumenti per farlo come il riequilibrio ospedale-territorio.
Un pensiero probabilmente piuttosto scontato da semplice cittadino ma che condivido. Già i padri costituenti misero quelle poche parole, "interesse della comunità", nell'art. 32 a scanso di equivoci: la tutela della salute non è solo un diritto del singolo ma "conviene" a tutti. Questo concetto vale anche a livello internazionale e dovremmo averlo visto durante la pandemia. Il sovranismo sanitario, in antitesi a concertazione e coordinamento, fa danno a tutti, anche ai paesi che per un conteggio discutibile ritengono opportuno ritirarsi dall'OMS. L'OMS non è certo perfetto o esente da problemi e storture ma è al momento il meglio che abbiamo e sarebbe meglio che quegli stessi paesi facessero sentire il loro peso per cambiare in meglio piuttosto che lasciare
Io penso che il sovranismo sia fratello gemello e figlio primogenito del nazionalismo che ha imperato nella prima metà del ‘900 e ha portato a 2 guerre mondiali, con l’Europa al centro dei due conflitti.
Ritenere che il proprio paese sia migliore degli altri e che vada privilegiato a scapito di tutti gli altri, che sia importante solo proteggere i propri interessi anche se questo vuol dire creare difficoltà gravi ad altri paesi e ad altre popolazioni non può che portare ad un aumento delle rivalità e delle ostilità tra paesi diversi. E questa crescente ostilità ha portato a conflitti prima economici, poi armati.
L’Unione Europea era nata per superare i conflitti tra i paesi europei e avviare una rete di collaborazione aiuto e sostegno tra tutti, secondo il principio della proporzionalità secondo cui i più abbienti dovrebbero aiutare i paesi in maggiore difficoltà.
Oggi viene messa in discussione a causa della crescente popolarità del sovranismo e del nazionalismo, di cui gli eccessivi festeggiamenti per le feste nazionali sono lo specchio.
L’uscita dall’OMS degli USA, seguito dal rifiuto del governo italiano di seguire le indicazioni dell’OMS sui piani pandemici indicano una strada in cui ogni paese si occupa di se’ rifiutando la cooperazione internazionale. Peggio ancora, si sta arrivando al rifiuto di ospitare studenti di altri paesi e limitare la libertà e gli scambi culturali nella comunità scientifica in nome dell’autosuffcienza sovranista. Le politiche di rifiuto dell’immigrazione sono una seconda conseguenza di questo tipo di politica, che vede l’esempio più eclatante negli USA ma che ha trovato proseliti in molti paesi europei, tra cui Italia, Ungheria e da poco la Polonia.
Seguire questa strada in un contesto in cui nessun paese è autosufficiente e ognuno necessita di beni o servizi di altri paesi porta ad un impoverimento delle competenze nazionali, a ostacoli nella ricerca scientifica, compresa quella in campo biomedico e a tensioni nei rapporti politici ed economici.
Non manca molto a quando qualcuno inizierà anche nel nostro paese a dire “prima l’Italia”, dopo che era stato detto che la Padania doveva rendersi indipendente dal resto dell’Italia per ragioni di convenienza economica.
In un contesto internazionale come quello attuale si auspicherebbe la massima cooperazione e collaborazione tra tutti i paesi, con scambi paritari in tutti i campi, e invece assistiamo alla progressiva chiusura dei confini.
Se un osservatore proveniente da un altro pianeta venisse sulla terra e dovesse esprimere un giudizio sul modo in cui l’umanità si sta governando oggi temo che non sarebbe un giudizio positivo.
Mi auguro solo che cresca nel mondo una maggioranza con idee meno conservatrici e che questo non sia invece il preludio ad un nuovo conflitto mondiale.
Un piano pandemico vero e basato sulla mobilitazione societaria non può più essere un documento solo sanitario o logistico e quindi dovrebbe:
Una popolazione che sa leggere un grafico epidemiologico, che distingue una misura precauzionale da un’imposizione arbitraria, che sa riconoscere le fonti attendibili, è una popolazione più libera anche in emergenza.
Dovrebbe poi:
La trasparenza, in emergenza, salva più della rassicurazione falsa.
Prima di ogni altra cosa, infine, chi governa dovrebbe ricordarsi di preparare una società intera, non solo i reparti di terapia intensiva, e quindi:
Il 7 ottobre 2016, alla conferenza dell’International Journal of Epidemiology, uno degli oratori invitati affermò di prevedere da almeno dieci anni il verificarsi di una pandemia nel decennio successivo. L’affermazione, apparsa un po’ paradossale, non aveva modificato il grado (basso) di preoccupazione dei presenti. Meno di quattro anni dopo, iniziava la pandemia di COVID-19, ricordandoci che i virus non consultano le nostre agende e non rispettano i confini nazionali.
Oggi, nell’apparente quiete di un periodo interpandemico, la comunità internazionale ha varato un Accordo Pandemico Globale. È un’occasione preziosa in cui ci si può permettere, senza troppi rischi, di rafforzare i piani pandemici e le competenze epidemiologiche a tutti i livelli. Tuttavia, si potrebbe essere tentati di spostare l’attenzione altrove, di dimenticare quanto appreso negli ultimi anni e di concedersi il lusso di illudersi che le future malattie possano rispettare i confini nazionali.
Lo ha spiegato bene Stefania Salmaso nella sua presentazione “L’epidemiologia per la risposta alle pandemie”, tenuta a Napoli per l’Evento in memoria di G.A. Maccacaro che apriva il congresso annuale dell’AIE (il video è liberamente disponibile su Epidemiologia & Prevenzione: https://www.youtube.com/watch?v=SqTwl735tgQ). La preparazione della risposta alle epidemie future richiede una cooperazione “a cerchi concentrici”: globale, continentale e regionale, per garantire sorveglianza integrata e accesso rapido a dati, campioni biologici, vaccini e terapie.
Per questi motivi la scelta dell’Italia di astenersi comporta almeno quattro contraddizioni:
Questo è dunque il momento giusto per prendere sul serio la prevenzione: aggiornare e finanziare i piani pandemici, potenziare le reti di sorveglianza, formare epidemiologi, e firmare un accordo che, lungi dall’imporre obblighi gravosi, crea le condizioni minime perché la prossima emergenza non ci trovi di nuovo impreparati. Procrastinare equivale a chiedere alla prossima malattia di rispettare i nostri confini: un lusso che la storia, recente e passata, ci ha già mostrato di non potersi permettere.
Gent.ma Dott.ssa Susanna Cantoni,
La ringrazio per il Suo intervento, articolato e testimone di un lungo percorso professionale all’interno delle istituzioni, che ho personalmente controllato e per cui, per quanto può contare il mio parere da ignorante, testimonia che, nel suo tempo passato, è stata professionista integerrima, preparata e scrupolosa. Le riconosco senza esitazione il valore personale e l’impegno dedicato al servizio pubblico, nei Suoi anni passati di attività e ruolo.
In merito a quanto Lei afferma, tuttavia, mi consenta di osservare, con il massimo rispetto, che la storia non si giudica solo dalle intenzioni, ma anche dai risultati. E se dopo oltre trentatré anni dalla messa al bando dell’amianto, l’Italia si ritrova ancora con 30 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto disseminati sul territorio nazionale, e più di 100 miliardi di euro di risorse sanitarie impiegate per accompagnare alla morte circa 100.000 nostri concittadini vittime di patologie asbesto correlate, oltre che un’ipoteca da oltre 5.000 decessi l’anno ancora iscritta sulle generazioni future, allora, per onestà morale e senso civico, penso Lei condivida che sia inevitabile e doveroso chiedersi se il sistema, e gli attori protagonisti nel suo complesso, dalla politica ai funzionari ai professionisti impegnati nel passato, abbia davvero performato al meglio.
Non metto in discussione la dedizione di singoli professionisti, molti dei quali hanno dato certamente come Lei, quando fu il Suo momento, il meglio di sé. Ma è nell’architettura sistemica che si è prodotta una cristallizzazione dell’inerzia, una resistenza al cambiamento e talvolta probabilmente un’autoreferenzialità che magari non ha permesso di performare al meglio.
Il tema non è la colpa. Il tema è la evidente responsabilità collettiva della intera governance del passato. Se oggi, di fronte a fatti che, mi auguro, non possano essere confutati, proponiamo di rilanciare sulla vecchia linea, riconducendo ancora di più, del tutto conferito sin d'ora, sotto il solo ombrello del SSN, ignorando il ruolo altrettanto primario di interlocutori di Stato quali il Ministero dell’Ambiente, del Lavoro, dell’Istruzione, della Cultura, delle Finanze, e tutti i loro bracci operativi,.da ISPRA alle ARPA, dalle stazioni appaltanti agli organi tecnici di controllo, allora rischiamo di perpetuare una visione miope e incompleta, incapace di affrontare questa sfida nella sua reale complessità. E non lo dico io: lo dice l’Europa, con la Direttiva UE 2023/2668, patrimonio di tutti i Ministeri del Lavoro degli Stati membri, e con le nuove Asbestos Survey Guide, che hanno coinvolto tutti i Ministeri competenti, di tutti gli stati membri e oltre 100 stakeholders privati, a chiamata diretta e nominativa, giudicati complementari alla battaglia sull’amianto, tra cui anche lo Sportello Amianto Nazionale che ho l’onore di dirigere, ha partecipato convocato dalla stessa Presidenza del Parlamento Europeo.
Siamo entrati, volenti o nolenti, in una nuova fase: una fase culturale, tecnica e strategica, in cui il concetto di prevenzione primaria si salda alla bonifica e alla gestione del rischio, e in cui l’intero Stato nazionale ed europeo deve operare come organismo integrato al passo con i tempi e con la nuova Politica comunitaria e non come somma di singole articolazioni statiche sul loro vecchio pensiero ideologico.
Perché è doveroso sottolineare, cara Dottoressa, che i giovani lavoratori, dirigenti, tecnici e padri di famiglia di oggi, quelli che ora hanno la vita e il futuro tra le mani e dovranno gestire questa eredità che qualcuno di noi gli sta lasciando , sono nati dopo il 1992, in un’epoca in cui l’amianto era già vietato, e qualcuno doveva lavorare in maniera efficace per loro, per toglierli dall’imbarazzo e dalla morte. Continuare a proporre un pensiero collettivo probabilmente anacronistico, modelli e approcci che escludono nuove competenze, nuove generazioni, come se l’unico sapere utile fosse quello sedimentato nelle vecchie infrastrutture e visioni statalistiche pubbliche, significa tradire la missione di rigenerazione che lo Stato, che è di tutti noi, deve a sé stesso.
Ogni ciclo istituzionale sano prevede un ringiovanimento , un passaggio di testimone, un trasferimento di competenze, una valorizzazione delle nuove energie, anzitutto negli uomini dello Stato con idee al passo con i tempi. E proprio per questo non possiamo più permetterci di chiudere le porte a collaborazioni e futuro, fatto anche di visioni e punti di performance esterni, di interazioni con enti riconosciuti del Terzo Settore, università, imprese etiche, cittadini attivi e reti pubbliche parallele. Lo dice la Costituzione (art. 118, sussidiarietà orizzontale), lo richiedono la realtà dei numeri, lo impone il senso del tempo storico.
Mi permetta di osservarLe che trovo inoltre profondamente ingeneroso da parte Sua l’attribuire allo scarso senso civico dei cittadini la responsabilità della mancata bonifica, come se fossero loro, vittime lasciate prive di mezzi, informazioni e accompagnamento, i colpevoli del ritardo. Perché non porsi, piuttosto, nella condizione di valutare che non sia stato il sistema pubblico nel suo insieme, che doveva metterli in condizione di agire, accogliere le loro istanze, costruire strumenti di supporto diffuso, ad avere probabilmente non performato? E quindi valutare come azzardato pensare di relegare tutto alle sole strutture sanitarie? (Per cui il mio primo commento alla petizione )
Per dovere, e per senso civico, ignoro certamente tutto ciò che si chiude intollerante contro visioni che potrebbero performare meglio, in un concetto di Stato e di polis realmente aperto, moderno, formato da tutti e al servizio di tutti.
Nessuno pretende di riscrivere la storia. Ma è nostro dovere, oggi, guardarla in faccia, riconoscerne i limiti e costruire, fuori da concetti elitari, ognuno per il tempo che gli rimane, un nuovo paradigma operativo e culturale, in scienza e coscienza, senza condurre battaglie personali o personalistiche, esortando ogni azione alla condivisione e alla cultura del cambiamento, nell’esclusivo interesse del futuro, consapevoli del fatto che, anche solo per ragioni anagrafiche, potremo o non potremo farne parte. Ma è proprio questa consapevolezza che deve renderci più lucidi, più onesti e più generosi nel passaggio di testimone, abbracciando la collaborazione senza egoismo, ognuno per il proprio ruolo, guardando in faccia al proprio tempo e ossequiando con rispetto un futuro altrui che non ci appartiene e di cui non siamo certo anche semplicemente per età anagrafica attori protagonisti.
Il tempo sarà giudice. Mi auguro solo che potremo vederlo insieme il più a lungo possibile. E dirci, serenamente senza competizione alcuna e in nome dell'accoglienza reciproca: “te lo avevo detto”.
Con rispetto, stima e tanta ammirazione la saluto cordialmente
Comm. Fabrizio Protti
Presidente – Sportello Amianto Nazionale
Egregio Comm. Fabrizio Protti,
Spett.le Rivista,
sono rimasta francamente stupita da alcune sue affermazioni riguardanti le strutture del SSN che non avrebbero “know-how, esperienza, strumenti competenze” per gestire:
- Informazione sui rischi e gestione dei materiali contenenti amianto
- Formazione sulla gestione dell'amianto e sicurezza
- Salubrità e igiene dell’ambiente di vita e di lavoro
- Gestione dei rifiuti di amianto abbandonati.
Non è cosa che mi aspettavo da chi, con devozione alla Repubblica italiana, presiede un’organizzazione che si occupa di amianto per tutelare la collettività e che, quindi, dovrebbe ben conoscere l’organizzazione e le attività svolte dalle strutture pubbliche.
Sono un medico del lavoro che ha diretto per decenni il Servizio di Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro e per diversi anni anche il Dipartimento di Prevenzione dell’ASL di Milano.
Ho lavorato nei Servizi Pubblici per 42 anni e mi sono occupata, tra i vari argomenti anche specificamente di amianto. Ho, inoltre collaborato con la struttura dedicata alla prevenzione della Regione Lombardia nonché del Coordinamento interregionale.
Le leggi italiane affidano alle Regioni, alle ASL, quindi alle strutture del SSN, e alle ARPA, i compiti che lei ha enunciato, compiti che vengono svolti sin dai primi anni ’90, conseguentemente all’entrata in vigore della L. 257/92 e del DPR 8/8/94.
Nella mia esperienza, non dissimile da quella di molti altri colleghi sia della Lombardia che delle altre regioni, ho partecipato alla stesura dei Piani regionali, alla mappatura dei siti contaminati, al controllo delle bonifiche, alla diffusione delle informazioni, alla formazione degli operatori addetti alle bonifiche, alla incentivazione di iniziative di microraccolta dei materiali di risulta contaminati, alla informazione agli ex esposti ad amianto e alla tutela degli stessi.
Sin dagli anni ’90, non senza fatica, sono stati “stimolati” e “indotti” al censimento dei MCA tutti i siti aperti al pubblico, prima ancora che venissero indicati specificamente dal DM 101/2003, e anche molti siti privati, quali ad esempio gli edifici dei quartieri popolari costruiti negli anni ‘60.
Nella sola Milano ogni anno venivano presentati ed esaminati circa 1000 piani di bonifica, e i cantieri venivano controllati nella totalità quelli con bonifiche di MCA friabile e per un terzo quelli con bonifiche di MCA compatto. Ogni anno venivano quindi rimosse più di 3,500 t di MCA sotto stretto controllo del Dipartimento di Prevenzione.
Abbiamo fatto censire e controllato l’intera bonifica dei mezzi pubblici di trasporto (MM, Tram, Autobus) e le stazioni della MM.
Quanto alla formazione le ricordo che le ASL, oltre, a partecipare a numerosissimi corsi di formazione, in particolare per l’ottenimento del “patentino” amianto, sono deputate all’esame dei candidati, preliminare per il rilascio, da parte dell’ASL, del patentino.
Molto si deve ai Servizi delle ASL se sono stati censiti, monitorati, bonificati siti industriali dismessi, ambienti portuali e mezzi di navigazione, mezzi di trasporto (basti pensare alla bonifica delle carrozze ferroviarie), ecc.
E ancora oggi l’amianto è all’attenzione dei Servizi delle ASL, basta sfogliare i Piani nazionali e regionali per la Prevenzione.
Davvero lei ignora tutto questo? (ignorare = non conoscere, disconoscere, secondo il dizionario latino-italiano Calonghi, a sua volta derivato dalla radice greca di γ ι γ ν ω σ κ ω); e ne fa sostegno del suo argomentare?
Diceva un importante filosofo: “ignorantia non est argumentum”. Spero con questa mia di avere potuto colmare alcune lacune della sua nota, che immagino potrà profondamente rivedere.
Aggiungo che se ancora oggi l’amianto è presente in molti siti lo si deve principalmente allo scarso senso civico di molti, cui si aggiungono gli elevati costi delle bonifiche, iniziative economicamente incentivanti e soprattutto la carenza di siti per lo smaltimento.
Da ultimo, mi unisco a lei nell’augurarmi “fortemente che una gestione pubblica efficace e coordinata possa essere implementata”. I Servizi di prevenzione delle ASL, ad esempio, sono da tempo in grande sofferenza di risorse (il personale dei Servizi PSAL sì è dimezzato nel corso degli anni ( 5.080 operatori nel 2008, 2.410 mel 2022). Spero quindi che anche lei faccia sentire la sua voce perché nei i Servizi delle ASL le risorse di personale siano adeguatamene rimpinguate.
Cordialità
Susanna Cantoni
Gent.mo Giuseppe Prestigiacomo,
Le confermo che tra i dati raccolti nella banca dati AMINAVI ci sono le informazioni sulla flotta di Caronte & Tourist S.p.A e Liberty Lines-Trapani.
Le preciso che molte delle informazioni contenute nella banca dati, sono state acquisite da diversi archivi; alcuni consultabili on line, per altri abbiamo avuto specifiche autorizzazioni. Il nostro lavoro è stato quello di raccogliere e omogeneizzare le informazioni di ciascuna unità navale. Di seguito le riporto un elenco di unità da lei richieste (aggiornate al 2024), che da una verifica può trovare anche on line.
CARONTE & TOURIST S.p.A.: Archimede, Giano, Giuseppe Franza, Stretto Messina, Telepass, Tremestieri, Villa S.G, Zancle, Elio.
LIBERTY LINES - Trapani: Mantegna, Fiammetta M, Alijumbo Zibibbo, Alijumbo Messina, Adriana M, Natalie, Ettore M, Antioco, Calypso, Eraclide, Eschilo, Mirella Morace, Platone Aliscafo, Snav Aquarius, Federica M, Garagonay, Ale M, Vittoria M , Gianluca M, Sofia M ,Carlotta M , Marco M, Emma M, Carlo Morace, Ammarì, Gianni M, Carmen M, Carmine.
siamo un sindacato dei trasporti desideriamo richiedervi elenco delle navi e aliscafi delle societa ex siremar oggi i mezzi sono in uso dalla Caronte&Tourist e Liberty lInes
grazie
E' stato un evento molto interessante. Aspetto la pubblicazione degli interventi che, promessi da Maria Luisa Clementi, ho trovato originali e, addirittura integrativi e approfonditi (in particolare quello di Saracci), rispetto al pur notevole programma svolto a novembre 2024 all'Accademia dei Lincei, o del video integrale per poterlo riascoltare con calma. Complimenti per il video del premio Maccacaro, una sintesi ben riuscita e appassionata di un pensiero complesso che, attraverso la voce dei giovani epidemiologi, è sembrato ancora più attuale di quello che è. Saluti
Sicuramente, come dice Carlo nel post, il problema più urgente dei MMG è un problema di numeri, pochi medici e troppi pazienti, ma credo sia anche un problema di funzioni oltre che di inquadramento del loro ruolo. Se si pensa a cosa diventerebbero gli ospedali se tra il personale ci fossero solo medici, ci si potrebbe poi chiedersi se sia proprio opportuno che nel territorio ci siano praticamente solo medici e quanto lavoro dei MMG sia realmente vera attività « da medici ».
Ma oggi i MMG sono in grado di fare compiutamente da medici, cioè fare prevenzione, fare diagnosi, fare terapie? Ovvero, per lo più, i MMG si occupano prevalentemente solo di malesseri e smistano ai colleghi specialisti i pazienti malati? Quante delle attività che oggi fa un MMG potrebbero invece essere svolte tranquillamente da un infermiere professionale?
Il MMG è oggi un medico isolato nel suo studio, che svolge compiti certamente non di alta clinica, che a fatica riesce a mantenersi aggiornato ed a crescere professionalmente.
che senza disporre di tecnologie diagnostiche a fatica può realmente svolgere compiti clinici?
Forse meglio sarebbe se i pazienti avessero come riferimento un "assistente sanitario", con la preparazione del livello di quella di un infermiere professionale, e che sia in grado di dare dei consigli di base e di essere l’interfaccia di una equipe medica che lavora congiuntamente in un poliambulatorio.
L’assistente sanitario potrebbe occuparsi anche di promozione, prevenzione e educazione sanitaria. Potrebbe svolgere per meta tempo il compito di ascolto dei pazienti e per metà essere di supporto ai medici nel poliambulatorio. Il poliambulatorio dovrebbe poter svolgere compiutamente le attività cliniche, diagnostiche e terapeutiche, e potrebbe avere anche compiti di primo pronto soccorso ma in via generale vi si dovrebbe accedere solo su indicazione dell’assistente sanitario.
Non so se queste “fantasie” abbiano senso e possano fornire spunti per un nuovo sviluppo della sanità territoriale. Ma certamente la medicina del territorio, è un settore da ripensare e forse non basterebbe oggi solo aggiustarne i numeri.
E' palese che vi siano molti Enti pubblici e privati che operano per la gestione del problema amianto con funzioni , compiti, competenze, professionalità diverse. Nessuno è così ingenuo da pensare di esaurire nel SSN questa complessità . Detto questo però è necessario affermare che per quanto attiene la salute delle popolazioni attuale e futura il referente istituzionale che ha questa responsabilità di governance e l'autorità sanitaria pubblica che deve svolgere un ruolo di supervisione dei progetti di bonifica e di governance nella gestione del tema.Nessuna preclusione se qualche Onlus vuole partecipare , ma questo deve avvenire sotto la supervisione dell'autorità sanitaria pubblica.
Spett.Le.Rivista
Egregi firmatari,
ho letto con attenzione la vostra petizione sull’attribuzione esclusiva della gestione di una serie di problematiche legate all’amianto agli enti e istituti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) senza nessuna deroga.
Condivido senza esitazione il "principio" che la centralità pubblica nella gestione del rischio amianto sia determinante, e mi auguro che questa iniziativa possa rappresentare uno stimolo concreto affinché le istituzioni competenti siano finalmente motivate a formare giovani professionisti e applicare in maniera efficace le normative vigenti, che da oltre 35 anni definiscono percorsi, ruoli e responsabilità precise che vi evidenzio non tutte in capo all'SSN come da Voi ipotizzato
Tuttavia, pur comprendendo l’intento, ritengo questa proposta non solo ideologica e probabilmente antitetica alle leggi dello Stato, ma di fatto inapplicabile nella realtà operativa, perché talmente esclusiva da poter passare inapplicabile giuridicamente e fattivamente. L’idea di concentrare tutte le attività nel SSN, escludendo enti specializzati che da anni svolgono queste funzioni, appare una semplificazione che rischia di compromettere l’efficienza e la qualità dell’intero sistema di gestione del rischio amianto, che tutti possiamo condividere ha necessità di una profonda e importante revisione. Etimologicamente Il termine "revisione" deriva dal latino revisĭo, -ōnis, a sua volta derivato dal verbo revidēre, composto da re- (di nuovo, indietro) e vidēre (vedere, guardare). Quindi, etimologicamente, "revisione" significa "guardare di nuovo", "rivedere con attenzione".Accostando 35 anni di percorso che molti di Voi hanno vissuto appieno al significato immediato perciò , credo che un controllo, un esame attento per correggere, migliorare o aggiornare qualcosa, sia ben più profondo di questa petizione. Perché "revisione" porta con sé un senso più profondo legato al concetto di consapevolezza e miglioramento guardando al nuovo.
Entrando nel merito della proposta che ho sottoscritto con profonda vicinanza allo Stato che siamo tutti noi :
Punti critici della petizione e distoglimento di competenze
1. Informazione sui rischi e gestione dei materiali contenenti amianto
Attualmente svolta da ARPA, ISPRA, Sportello Amianto Nazionale su delega di 4000 comuni italiani, e da ordini professionali riconosciuti dallo Stato e dalla Cstituzione
Il SSN non ha attualmente né il know-how né la struttura operativa per svolgere queste funzioni in autonomia.
2. Formazione sulla gestione dell'amianto e sicurezza
Attualmente realizzata da migliaia di enti di formazione accreditati, INAIL, università, associazioni professionali.
Il SSN non ha esperienza specifica e di fatto risulterebbe allo stato attuale anche probabilmente giuridicamente incompetente nell'oscurame la legittimità di enti di diritto pubblico e privato che già fanno questo sia per i privati che per la funzione pubblica.
3. Salubrità e igiene dell’ambiente di vita e di lavoro
Monitorata da ISPRA, ARPA, ASL, enti locali.
Il SSN non ha strumenti per un monitoraggio ambientale sistematico. Non ha squadre preparate a questo allo stato dell'arte e costruire una linea operativa esclusiva in merito costituirebbe una profonda ristrutturazione per altro neppure di competenza dello stato centrale ma per molti aspetti delle autonomie regionali.
4. Vigilanza sul territorio per dispersione di fibre
Svolta da ARPA, ISPRA, laboratori specializzati, forze dell’ordine.
Il SSN non ha la capacità investigativa e operativa per queste attività allo stato dell'arte.
5. Informazione ai cittadini e raccolta di segnalazioni
Oggi gestita da Sportello Amianto Nazionale per delega di 4000, Amministrazioni Comunali Italiane, Regioni, ARPA, ASL.
Il SSN non può sostituire e oscurare canali informativi specialistici già esistenti se non con una legislazione puntuale che per altro porterebbe forse anche aspetti anticostituzionali e comunque il cambio radicale implicherebbe non solo i rami del parlamento ma le autonomie di primo e secondo grado.
6. Gestione dei rifiuti di amianto abbandonati
Competenza di Comuni, aziende municipalizzate, ARPA, forze dell’ordine.
Il SSN non ha competenze logistiche o amministrative per la gestione dei rifiuti. Che per altro si osserva con questo punto della petizione parrebbe che i firmatari vorrebbero anche un SSN che so sostituisce a 15.000 imprese che orbitano nel settore della bonifica e della consulenza amianto in piena osservanza delle leggi dello Stato
Conclusione
Mi auguro fortemente che una gestione pubblica efficace e coordinata possa essere implementata e, come Sportello Amianto Nazionale, restiamo sempre a disposizione del pubblico per supportare cittadini e istituzioni in questa sfida cruciale. Ricordo che la nostra organizzazione è legittimata ad agire per nome e conto di oltre 4.000 amministrazioni pubbliche Italiane e per quanto io stesso nutro la speranza ci possa essere la possibilità di migliorare, oggi è inconfutabile che siamo un servizio di utilità pubblica che collabora legittimamente con Comuni, ed è partner dell’informazione per organi centrali dello Stato, come ente del terzo settore regolarmente riconosciuto ed inquadrato nella legge e nella costituzione.
Inoltre, per quanto mi riguarda personalmente, la mia battaglia per la comunicazione e la sensibilizzazione sul rischio amianto è da sempre al servizio dello Stato e delle sue istituzioni che proteggono il futuro dei nostri giovani e mi auguro di poterle aiutare a farlo meglio di come un sistema amministrativo, burocratico e non politico ha fatto in questi 35 anni. La mia devozione alla repubblica Italiana e il mio umile contributo in tema amianto è per altro riconosciuto ufficialmente per tramite dell'onorificenza conferitami dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di Commendatore della Repubblica Italiana, per altro comprocedura speciale proprio per alti meriti civili, sociali e lavorativi nell’ambito della tutela dalla fibra killer con grande risalto per la collettività.
Detto ciò, ritengo che questa petizione, pur avendo un fondamento condivisibile, sia totalmente inapplicabile e incompetente nella sua formulazione e forse rappresenti una ideologia di rivendicazione.
Escludere enti come ARPA, ISPRA, INAIL, università, enti di formazione accreditati e laboratori privati significa privarsi di professionalità e competenze che il Servizio Sanitario Nazionale non può sostituire, né per missione istituzionale né per capacità tecnico-operativa, ne per rielaborazione forse dell'intero quadro legislativo.
Questa proposta appare quindi una visione statica e inefficace, che non tiene conto della realtà operativa e dell’interdisciplinarità necessaria per affrontare un problema così complesso che deve passare da un percorso più ampio della visione proposta e forzatamente che piaccia ai firmatari o no, dalla parola COLLABORAZIONE e lo dobbiamo alle famiglie , ai lutti e alle risorse che lo stato ha investito in più di 30'anni. Non partire da qui sarebbe credo troppo egoista ma è un mio umilissimo parere.
Resto comunque disponibile per un confronto anche pubblico per tramite della rivista a cui esprimo grande stima e complimenti per il grande servizio.
Auguro buona e serena vita a tutti
Comm. Fabrizio Protti
Presidente – Sportello Amianto Nazionale
Più di trenta anni di rapporto di lavoro e di amicizia. Compilammo insieme nell'autunno 1994 il questionario per lo studio Biomed in via Santena a Torino. Da quella volta in poi i contatti sono stati frequentissimi, soprattutto telefonici dovuti alla distanza quando ancora non potevamo collegarci online. Ore ed ore a discutere di mesoteliomi e di come classificarli in termini di esposizione, terminavamo con le orecchie rosse. Ultimamente abbiamo lavorato per il Brasile dove colleghi ci hanno chiesto collaborazione intrecciando le nostre professionalità. Mi mancherà molto aumentando la solitudine che accompagna chi sopravvive con l'avanzare dell'età.
Mi rifiuto ancora di credere che non sentirò più la sua voce clama, gentile piena di competenza scientifica e pratica di igiene e medicina del lavoro.
Un dolorosissimo addio!
Ormai da diversi anni suona sempre più prepotentemente e fragorosamente l’allarme di una presunta “insostenibilità” del Servizio Sanitario.
Cosa intendiamo per sostenibilità? Non è un concetto univoco, dipende dalle priorità del paese che intende perseguire, tenendo conto dalle garanzie che s’intende offrire alla popolazione. Per citare Roy Romanow (politico canadese, membro della commissione d’inchiesta sul futuro della sanità canadese ): “non vi è alcuno standard di spesa per la salute, la scelta riflette la storia, i valori e le priorità. Il sistema è tanto sostenibile quanto vogliamo che lo sia, in sostanza è una scelta politica.” Questo basterebbe a chiudere la questione.
Ma volendo scendere nell’agone delle motivazioni che fanno risuonare l’allarme della insostenibilità mi limito ad affrontare tre questioni: il finanziamento del SSN, l’accessibilità, l’equità.
Il finanziamento
Il nostro SSN viene finanziato attraverso la tassazione generale, la “proiezione” dei costi del SSN prodotta dalla Ragioneria Generale dello Stato nella sua ultima relazione, secondo lo scenario base ( parità di consumi per classe di età, costi che crescono in relazione al PIL, tenendo conto delle dinamiche demografiche) prevede di arrivare massimo al 7,2% del PIL nei prossimi 40 anni (+1% rispetto ad oggi). Si tratta di meno della metà di quanto Trump ci chiede di aumentare in termini di spesa per gli armamenti, e comunque di una quantità di risorse (circa 23 miliardi) che certo non fa paventare la bancarotta dei conti pubblici.
Accessibilità delle cure
Le cure primarie e a quelle ospedaliere si possono ritenere ancora oggi accessibili ed eque. Il problema riguarda soprattutto l’accesso alle visite specialistiche e agli accertamenti diagnostici. Qui ci sono diversi problemi, scarsità di offerta rispetto alla domanda (non in tutte le regioni per fortuna), e appropriatezza prescrittiva. È evidente comunque come ci sia stato una progressiva riduzione dell’impegno della sanità pubblica nella specialistica ambulatoriale. Il nuovo decreto sulle liste di attesa sembra introdurre degli elementi che fanno ben sperare come le nuove linee guida per l’appropriatezza delle prescrizioni e un sistema di monitoraggio delle attese centralizzato, cui anche i cittadini potranno accedere.
Il tema centrale in tutti i livelli di cura è quello dell’appropriatezza, che si basa su tre aspetti chiave: efficacia, accessibilità (nel setting adeguato), tempestività /continuità. Molte prestazioni erogate non sono appropriate (parto cesareo, uso eccessivo di antibiotici – siamo i primi in Europa; RMN al ginocchio, test genetici e allergologici senza prescrizione, MOC ogni due anni, inibitori pompa protonica ad alti dosaggi). L’informazione di pazienti su questo aspetto è cruciale. È necessario investire in promozione della salute e in particolare nella l’alfabetizzazione sanitaria, ruolo che la sanità pubblica ha tutto l’interesse ad enfatizzare , al contrario di quella privata che invoglia i consumi.
La rinuncia alle cure e l’incremento della spesa out of pocket sono segnali di una tendenza del sistema a garantire sempre meno le cure necessarie. Ma i dati che vengono diffusi e strumentalmente commentati (4,5 milioni di Italiani che non si curano e 40 miliardi di spesa out of pocket, elementi in netta crescita nel 2023 rispetto all’anno precedente) vanno correttamente interpretati. I 4,5 milioni di Italiani “che non si curano”, la metà per motivi economici e l’altra metà per le file d’attesa, in realtà hanno rinunciato ad una prestazione nell’anno di cui avevano bisogno (di questo si tratta), e non certo a curarsi. Spesso si tratta di una tra le decine di prestazioni richieste. Comunque per questo indicatore siamo al di sotto della media Europea. Il dato che deve preoccupare semmai è il numero di famiglie che deve affrontare spese per la salute catastrofiche (oltre il 40% dei livelli di spesa), si tratta di il 2,8% delle famiglie residenti, corrispondenti a 731mila nuclei. Per quel che riguarda la spesa out of pocket, sicuramente una fetta dell’incremento è dovuto al crescente ricorso alle polizze sanitarie, tema che meriterebbe un blog dedicato. A proposito di appropriatezza, una vecchia indagine Agenas rilevava che una buona metà della spesa out of pocket delle famiglie è dedicata a prodotti e servizi di dubbia o nessuna efficacia. Anche questo aspetto va quindi considerato “cum grano salis”.
L’equità
I LEA costituiscono il principale strumento attraverso il quale sono equamente garantite le cure. Si tratta di un’ampia lista di prestazioni considerate efficaci, che di recente è stata ampliata con, ad esempio, alcuni screening genetici, quello visivo neonatale, dispositivi per la telemedicina, la consulenza genetica, nuovi vaccini (come: anti-Papillomavirus, anti- Pneumococco, anti-Meningococco).
I LEA costituiscono un’assunzione di responsabilità dello Stato. Se ci sono poche risorse per ridurre il gap di salute bisogna investire sull’accesso alle cure dei più poveri, che hanno rischi più elevati di incidenza e minore capacità di scelta fra le diverse opzioni di cura disponibili. A dirlo è l’organizzazione mondiale della Sanità. A dire il vero nel nostro paese possiamo affermare di avere livelli di equità nell’accesso alle cure elevato, se confrontato con altri paesi europei: ad esempio a la differenza nella prevalenza di malattie croniche tra ricchi e poveri è tra le più basse d’Europa. Inoltre, attraverso I programmi che comportano una reale presa in carico dei pazienti di fatto si azzerano la disuguaglianze di salute tra persone con alto e basso status socioeconomico. Tuttavia, preoccupano le profonde differenze tra le regioni del Nord e quelle del Sud sia in termini di morbosità (prevalenza di malattie croniche, disabilità) sia di accesso ai servizi, in particolare quelli di prevenzione, che sono cruciali. Su questo aspetto è necessario intervenire, possibilmente in direzione uguale e contraria ai principi dell’autonomia differenziata.
Il servizio sanitario è malato e necessità di interventi, Costa, Cislaghi e Zocchetti hanno ben illustrato problemi e possibili rimedi, Ma il SSN non è un malato terminale. Titoli allarmistici sulla tenuta del sistema sanitario da parte di chi si erge a paladino del SSN temo non facciano altro che portare per mano i cittadini verso la disaffezione del SSN e, chi può, a rifugiarsi nel sistema delle assicurazioni sanitarie, strumenti di provata inefficienza e inequità
Dario, tanto cortese quanto rigoroso e severo...
Abbiamo tutti perso una persona straordinaria, un grandissimo ricercatore, sempre disponibile al confronto.
Un amico per tutti noi dell'igiene industriale di Arpa Piemonte.
Con affetto e tristezza
Roberto Riggio
Il tema del rapporto tra scienza e politica ha talmente tante sfaccettature da essere difficile anche da discutere. Ho molto apprezzato la sistematizzazione che ne ha dato Geppo Costa che ha almeno identificato tre direttrici (o tre pesi) principali da utilizzare per le valutazioni.
Io penso che bisognerebbe anche discutere più a fondo cosa si intenda per "conflitto di interessi" che viene utilizzato secondo me spesso a sproposito, soprattutto dalla ipersemplificazione dei media.
Affermare che un ricercatore (in genere accademico) sia in conflitto di interessi perchè ha partecipato, almeno una volta nella sua vita, ad una ricerca o a un progetto sponsorizzato da un produttore di vaccini è fuorviante. La ricerca pubblica, non sponsorizzata da interessi privati, nell'ambito dei vaccini e delle vaccinazioni in Italia è quasi assente. Come dovrebbero sviluppare competenze i ricercatori dell'accademia? e chi dovrebbe condurre gli studi richiesti dalle autorità regolatorie ai produttori?
E' in conflitto di interesse chi chiede ad uno sponsor privato di finanziare una sessione di un convegno scientifico? di pagare la partecipazione ad un congresso?
Io non credo che si possa generalizzare e liquidare rapidamente qualsiasi rapporto di collaborazione scientifica come un'occasione che rappresenta un conflitto di interessi.
Inoltre non ci sono solo interessi commerciali. In un'istitutizione pubblica, che dipende da finanziamenti governativi, è in conflitto di interesse chi segue l'indirizzo politico dominante? Abbiamo l'esempio lampante degli USA in cui molte università e centri di ricerca si sono dovuti "allineare" in un evidente e clamoroso conflitto di interesse. E in Italia probabilmente chi si allinea a temi cavalcati dalla politica, per ottenerne un vantaggio personale (carriera?) credo sia in conflitto di interesse.
Insomma, tra le regole del gioco bisogna definire non solo i pesi da considerare (beneficialità, libertà, giustizia distributiva) ma anche definire cosa rappresenti un potenziale conflitto di interessi e dichiararlo in modo che tutti possano farsi un'idea della effettiva indipendenza posizione.