Alla base di tutte le scelte di politica sanitaria c’è la rilevanza che si ritiene si debba assegnare alla salute, cioè se riguarda solo il singolo individuo o la collettività intera. Negli ultimi due secoli si è passati da un approccio liberista a un approccio collettivista, poi a un approccio solidarista.

In un tempo passato, quando le possibilità di cure erano scarse, e le poche cure disponibili non erano così costose come oggi, era normale ritenere che ciascuno dovesse pensare da solo a provvedere alla propria salute. Ma allora l’economia non aveva, come ha invece oggi, una dimensione così collettiva; nella società, prevalentemente agricola, i problemi di salute dei singoli non ricadevano granché sulla collettività, anche nei casi di epidemia.

Dalla fine dell’Ottocento, e ancor più a inizio del Novecento, si imposero visioni collettiviste della società, sia di stampo fascista sia social-comunista. La ricerca della potenza dello Stato e dei suoi eserciti dipendeva molto anche dalla salute dei cittadini, quindi lo Stato doveva farsene carico provvedendo con misure assistenziali, ma anche richiedendo comportamenti obbligatori.  Accanto al collettivismo si impose, però, anche un approccio solidarista di marca sia cattolica sia socialista: la persona non poteva più avere da sola tutti i mezzi per ricorrere alle cure, quindi occorreva una protezione pubblica. Nasceva il concetto di “welfare”.

Da allora e fino ad oggi, in questo quadro sono rimasti, seppur molto sfumati, i due approcci alla salute, l’approccio liberista e quello solidarista, mentre, fortunatamente, si è quasi ovunque abbandonato l’approccio collettivista. Abbandono che, però, ha contribuito a ridare forza, soprattutto nella cultura di una parte della destra, all’idea liberista che considera giusto che ciascuno debba sostenere da sé i costi per promuovere e conservare la propria salute e tutt’al più è concesso aiutare i più indigenti per salvaguardare così l’ordine sociale. 

L’articolo 32 della nostra Costituzione, scritto quasi ottant'anni fa, media tra le due posizioni, liberista e solidarista, recitando: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

La Costituzione definisce, infatti, l’interesse della collettività, ma garantisce la cure (solo) agli indigenti, fissando però chiaramente i limiti dell’obbligatorietà, sia nel rispetto della persona sia nella loro fonte legislativa. Evidentemente, non siamo in clima collettivista, ma neppure totalmente solidarista: la salute è un diritto di tutti, ma le cure gratuite sono garantite solo agli indigenti. Un forte passo in avanti lo compie, invece, la legge n. 833 del 1978, che stabilisce che tutti, secondo le loro disponibilità, devono contribuire, perché “tutta” la sanità possa essere per “tutti” e “tutti” in modo uguale.

Ma quando le cose non costano e sono gratuite è facile che ce ne si approfitti o che poi se ne voglia sempre di più. Ed è così che la sanità via via è diventata sempre più costosa, sia perché sono cresciuti i bisogni sia perché le prestazioni sono diventate sempre più complesse e care.

E allora, piano piano, senza dichiararlo esplicitamente, si è abbassata la generosità dello Stato, ovvero questa non è aumentata come la crescita dei costi dell’assistenza avrebbe richiesto.
E oggi infatti, più o meno, lo Stato copre solo i tre quarti della spesa sanitaria e assistenziale; ma allora a carico di chi è il rimanente quarto? A ciascun singolo cittadino; quindi – purtroppo – i meno benestanti non se la possono permettere. Con “meno benestanti” intendo, paradossalmente, non tanto i maggiori indigenti, che trovano la necessaria protezione, ma quella fascia di popolazione con disponibilità limitate, che non è non del tutto indigente.

E per coprire i rischi di dover pagare direttamente le prestazioni nascono le assicurazioni e i fondi complementari, a carico diretto dei più ricchi o a carico delle aziende o delle corporazioni. E conseguentemente si ritorna, progressivamente, alle disequità già sperimentate nei sistemi sanitari mutualistici: i meglio rimunerati hanno anche le protezioni sanitarie migliori, chi non è indigente ma non può avere un’assicurazione si trova nelle posizioni peggiori e spesso deve rinunciare alle cure, talvolta anche a quelle essenziali.

Se non ci sono più risorse pubbliche per incrementare il fondo sanitario pubblico senza distogliere da altri settori e non è credibile poter aumentare le imposte che sono già troppo elevate, allora si devono cercare altre forme per ottenere l'aumento delle risorse per la sanità. Sarebbe possibile, per esempio, aggiungere risorse economiche mediante un’assicurazione pubblica complementare obbligatoria con premi proporzionali ai redditi delle famiglie, magari dando facoltà alle aziende di inserire questo pagamento come parte dello stipendio, ma permettendo a tutti di goderne la protezione anche se il premio versato risultasse di pochi euro l'anno. Un'altra alternativa possibile sarebbe quella di inserire obbligatoriamente nel pagamento delle assicurazioni sanitarie private, ma anche di tutte le prestazioni private, una quota fissa proporzionale, aggiuntiva del prezzo, a favore del servizio sanitario pubblico.

Queste sono solo ipotesi, semmai da valutare e approfondire e forse anche troppo di fantasia, ma utili per sottolineare la necessità che la disponibilità di risorse per il SSN, versate da tutta la comunità in misura proporzionale alle proprie disponibilità economiche, aumenti rispetto a quel risicato 6,2% del PIL che non ha confronto rispetto alle quote di altri Paesi europei che superano il 10%, oltretutto in presenza di PIL anche maggiori.

Insomma, il problema urgente è quello di trovare le modalità migliori per salvare il SSN e l’equità degli accessi alla sanità, per rispettare il dettato costituzionale che definisce la salute non solo come un diritto del cittadino, ma anche come un interesse per la collettività, e gravi sarebbero le conseguenze sociali ed economiche se parte crescente della popolazione avesse sempre più difficoltà ad accedere ai servizi sanitari. Smettiamola quindi di pensare che sia meglio dare più risorse allo sviluppo economico che utilizzarle affinché la popolazione possa trovare protezione della salute in modo “uguale” e con il contributo di tutti “non uguale”, ma proporzionato alle proprie disponibilità. Insomma, le prestazioni sanitarie non sono consumi da trattare come tutti gli altri nostri usuali consumi!

Allegati

Si consiglia di visionare i grafici pubblicati da Quotidiano Sanità il 22 settembre 2024.

Si consiglia anche la lettura di una breve nota dell'OCSE del 2004, dal titolo Il Progetto dell’OCSE sulle politiche sanitarie, ma oggi forse ancor più di attualità.

 

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