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SSN

Quali principi del SSN oggi non sono più rispettati?
Nel suo sito internet, il Ministero della Salute dichiara quali sono i principi su cui si fonda il Servizio Sanitario Nazionale, cioè Equità, Uguaglianza, Universalità, e ne dà delle brevi definizioni qui. Nel primo intervento Carlo Zocchetti parla di crisi dell'universalismo, seguono contributi di Giuseppe Costa e di Cesare Cislaghi.
Ci sono senza dubbio dei problemi di definizione dei significati dl Equità, Uguaglianza e Universalità, ma sicuramente oggi il SSN non rispetta questi principi sino in fondo ed è giusto chiedersi il perché, e anche se sia invece possibile rispettarli e come. Invitiamo tutti i lettori di questo nostro blog a inviare commenti, anche critici, finalizzati a capire cosa stia succedendo e cosa si dovrebbe fare per difendere il Servizio Sanitario Nazionale.

L'universalismo è ancora una virtù del SSN?
Carlo Zocchetti, ReSiSS Ricerche e Studi in Sanità e Salute
Parafrasando il famoso libretto del 1965 di don Lorenzo Milani “L’obbedienza non è più una virtù” sarei tentato di cominciare questo contributo dal fondo e cioè dalla conclusione che l’universalismo non è più una virtù del SSN, ma per non mettere il carro davanti ai buoi mi sembra più opportuno porre invece la domanda: possiamo dire che l’universalismo è ancora una virtù del nostro servizio sanitario nazionale?
Come noto ed anche ribadito in questo blog (Bene valutare il SSN, ma innanzitutto cosa?) tre sono i principi attorno ai quali è stato costruito e modellato il nostro SSN: universalismo, uguaglianza, equità. Al di là del fatto che questi principi siano o meno stati realizzati in questi 45 anni di vita del servizio sanitario, pensando al SSN del futuro possiamo ancora contare su questi principi come base della architettura istituzionale del sistema sanitario o dobbiamo introdurre qualche aggiustamento e qualche variazione?
Non vuole essere questo contributo il luogo per una analisi estesa e critica di quello che va bene e di quello che va male nel SSN che stiamo vivendo oggi, di quello che eventualmente si è perso per strada e di quello che invece si è guadagnato, perché è tutto il contenuto del blog che ragiona su questi temi, ma credo che una riflessione sui principi ci possa aiutare a cominciare a tracciare il perimetro entro il quale muoversi per non subire passivamente i cambiamenti che il passare del tempo inevitabilmente introduce e per indirizzare le trasformazioni verso dove riteniamo che debbano andare.
Equità: “a tutti i cittadini deve essere garantita parità di accesso in rapporto a uguali bisogni di salute”. Molti sono i segnali che dicono che oggi il nostro SSN soffre sul tema della equità, ma un conto è dire che l’equità non si è realizzata (o è disattesa) a causa di tante ragioni (che non dipendono solo dal SSN e da ciò che lo circonda) sulle quali si può (e si deve) intervenire, ed altro conto è pensare ad un SSN dove l’equità non sia più un principio guida. Anche l’ospedalità privata (AIOP), spesso chiamata in causa come all’origine di fenomeni di iniquità, nel suo ultimo volume preparato in collaborazione con il CENSIS (Ospedali&Salute Ventunesimo rapporto annuale 2023, Franco Angeli) ha dichiarato la propria contrarietà, ad esempio, ad un SSN caratterizzato dal censo. Tanti comportamenti e scelte, a tutti i livelli (di singoli, di gruppi, di governi, …), possono portare a soluzioni non eque, a risultati iniqui nei confronti dei cittadini più deboli, ma queste sofferenze pratiche non devono indurre a pensare che dell’equità si possa fare a meno e che abbia senso progettare un SSN dove l’equità non sia più un principio fondativo.
Nonostante alcune sirene (non ultimo l’appello di alcuni mesi fa di 14 scienziati) evochino la preoccupazione di una deriva del nostro SSN verso il sistema sanitario degli USA, considerato per principio non equo, ritengo da una parte assai poco probabile questa prospettiva e dall’altra che la insoddisfacente equità del SSN di oggi non deve indurre a rinunciare ad essa come principio, ma semmai a metterla maggiormente al centro delle scelte che caratterizzano il SSN.
Uniformità, uguaglianza: “i cittadini devono accedere alle prestazioni del SSN senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche”. Anche questo principio è spesso disatteso. Solo per venire ad uno degli ultimi documenti di alto livello amministrativo che ne hanno parlato, e cioè la relazione svolta dalla Corte dei Conti alla inaugurazione dell’anno giudiziario 2024 (Roma, 13.2.24), vi si dice: “La tendenza, ormai già da diversi anni, appare lenta ma costante: da un servizio sanitario nazionale incentrato sulla tutela del diritto costituzionalmente garantito, a tanti diversi sistemi sanitari regionali, sempre più basati sulle regole del libero mercato”. Sono notizia di tutti i giorni le tante difformità che caratterizzano “le” sanità dei nostri territori, e non solo per le differenze tra regioni ma anche per quelle intraregionali (soprattutto nelle regioni geograficamente più estese), così come non si può evitare di pensare alle tante ragioni che da tempo sono all’origine dei rilevanti fenomeni di mobilità sanitaria. Ma come per l’equità, la mancata realizzazione del principio di uniformità e di uguaglianza non implica la rinuncia all’uso di questo principio per fondare il SSN di domani.
E non considero adeguate anche le preoccupazioni di coloro che pensano che il principio di uniformità ed uguaglianza sarà disatteso dalle proposte di autonomia differenziata in discussione: ho già espresso in altra parte di questo blog come sia possibile pensare alla autonomia differenziata senza mettere in discussione equità ed uguaglianza.
Certo le attuali disuniformità vanno affrontate e superate ma non voterei per un SSN che rinunci all’uguaglianza come principio fondativo.
Universalismo: “estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione”. Siamo sicuri che si stia applicando questo principio? La distribuzione molto eterogenea della rete di offerta di servizi sanitari e socio-sanitari, ed in particolare il deficit (per non parlare della mancanza) soprattutto (ad esempio) di servizi socio-sanitari e di attività di prevenzione in molte regioni, la incapacità manifesta di alcune di esse di erogare le prestazioni considerate essenziali, la fuga (migrazione) da alcuni territori alla ricerca di prestazioni che non si ritiene di ricevere a ragionevole distanza da casa, e così via, sono tutti segnali indice della difficoltà ad erogare le prestazioni sanitarie a tutta la popolazione.
La Ragioneria Generale dello Stato (Rapporto n. 10 del 2023 sul monitoraggio della spesa sanitaria) ci avverte che in un anno i cittadini italiani hanno speso di tasca propria circa 40 miliardi per prestazioni sanitarie (25% della spesa sanitaria complessiva), quota molto rilevante (e probabilmente sottostimata) ed in notevole crescita negli ultimi 10-15 anni, per altro con notevoli variabilità regionali visto che si va dai 351 euro pro-capite della Basilicata e 382 della Calabria agli 852 dell’Emilia Romagna e 937 della Lombardia. Anche i confronti europei (per quanto da prendere sempre con le molle) confermano la maggiore propensione dei nostri cittadini (rispetto alle altre nazioni) a pagare di tasca propria prestazioni sanitarie acquistate sia dentro che fuori il SSN. Pure l’ultimo rapporto OASI (Università Bocconi) tratta l’argomento e raggiunge le stesse conclusioni. In altre parole: si superano le ristrettezze (e gli impedimenti) poste alla applicazione del principio universalista uscendo dal SSN.
Queste constatazioni non indicano il motivo per cui molti cittadini non riescono a (o sono costretti a non ) ricevere prestazioni essenziali ma rivelano un elemento importante: la disponibilità (più o meno forzata) di molti cittadini a mettere in secondo piano il principio universalista o comunque la necessità di rivalutare e ripensare il suo significato ed il suo ruolo come virtù e pilastro del SSN.
Qualcuno, sempre OASI, parla già di un universalismo selettivo, cioè di un universalismo indirizzato verso una parte dei LEA di oggi o verso gruppi identificati di popolazione, ed in questo contesto sarebbe importante che le soluzioni proposte siano conseguenza di scelte esplicite di priorità identificate, e non conseguano invece, come è la situazione attuale, a fenomeni di iniquità (chi ha i soldi) o siano frutto di un razionamento implicito o dettato dal caso (esempio: indisponibilità di servizi, lunghi tempi di attesa, …) o dalla capacità di taluni di destreggiarsi nel mare magnum della nostra burocrazia o facendo ricorso al proprio giro di conoscenze.
Sempre sul tema dell’universalismo mi è sembrata interessante la lettura del recentissimo volume curato da L. Pesenti e G. Rovati e pubblicato da Il Mulino (“Tra le crepe dell’universalismo. Disuguaglianze di salute, povertà sanitaria e Terzo settore in Italia”, 2024), che parla anche di equità e disuguaglianze ma che, evidenziando soprattutto il ruolo del Terzo settore, particolarmente presente in campo socio-sanitario ma con contributi rilevanti anche in campo sanitario ad esempio nella raccolta e distribuzione di farmaci a cittadini che per ragioni economiche non se li possono permettere, mostra alcune crepe che l’universalismo presenta e che necessitano di essere (almeno) aggiustate se non eliminate.
Per semplificare la discussione ed evidenziarne gli aspetti di maggiore rilevanza ho trattato i tre principi (universalismo, uguaglianza ed equità) come se fossero tre entità separate: in realtà il loro collegamento è del tutto evidente, così come non è sempre semplice distinguere, di fronte ad un determinato problema (esempio: liste di attesa, acquisto di farmaci e prestazioni essenziali socio-sanitarie, …), quale dei tre singoli principi stia (o non stia) agendo o se vi sia invece un concorso di azione.
Non solo, ma per una discussione completa occorrerebbe mettere sul tavolo anche la questione della essenzialità, perché da una parte non vi è dubbio che molte delle attività e delle prestazioni oggi considerate non essenziali (e quindi fuori dai LEA) non sono servizi superflui rispetto al diritto alla tutela della salute richiamato dalla Costituzione e per alcune categorie di soggetti (ad esempio quelli in povertà assoluta o relativa) potrebbero diventare essenziali, e dall’altra alcune condizioni poste alla erogazione di servizi e prestazioni essenziali (ticket farmaceutici, compartecipazione all’utilizzo di servizi socio-sanitari, …) rendono difficile l’esercizio dei tre principi.
In sintesi, e non entrando qui nel merito di una necessaria riflessione sul tema della essenzialità che è alla base di molti dei problemi di mancata attuazione dei tre principi in discussione. Equità? Sì. Uguaglianza? Sì. Universalismo? Ci si può lavorare con scelte di priorità esplicite e governate. Servono anche altri principi? Pensiamoci.

Il Servizio Sanitario Nazionale è malato?
Giuseppe Costa, Università di Torino
Da un po’ di anni autorevoli Cassandre annunciano l’arrivo della “tempesta perfetta”, fatta di invecchiamento della popolazione, innovazione tecnologica sempre più costosa e crescente attitudine al consumo. Passata la bolla pandemica che aveva sospeso ogni margine alla spesa sanitaria, il cappio del debito pubblico è tornato a stringersi intorno alla spesa pubblica, impedendo alla spesa sanitaria di crescere al suo ritmo “naturale” in proporzione al PIL.
La reazione del sistema è stato il razionamento dei livelli di assistenza più comprimibili, quelli della assistenza specialistica e strumentale, attraverso la leva del controllo dell’offerta e delle liste di attesa. La conseguenza principale consiste sia nell’aumento della spesa privata sia nella rinuncia alle cure per questi livelli di assistenza, effetti che si sommano a quelli già causati dal razionamento dei livelli di assistenza non essenziali, quelli appropriati come la salute orale o la non autosufficienza, e quelli meno appropriati. Si tratta di effetti che sono molto disuguali e potenzialmente iniqui, oltre che particolarmente invisi al pubblico.
Per queste ragioni da un lato si è mobilitata l’opposizione politica che ne ha fatto il principale obiettivo di mobilitazione politica insieme al salario minimo, in entrambi i casi senza un particolare successo; la CGIL poi propone un disegno di riforma del SSN; mentre scienziati e esperti di management sanitario tornano a riflettere sui principi fondativi del SSN per suggerirne un aggiornamento al contesto di oggi. Dall’altro lato la maggioranza governativa ha ritagliato piccoli investimenti per tamponare le principali lacune nelle liste di attesa; mentre allo stesso tempo la sanità privata e le assicurazioni stanno approfittando di questa congiuntura per accreditarsi come la soluzione più efficiente.
Nel contesto di queste riflessioni sulla sanità pubblica malata e sui rimedi l’intervento di Zocchetti sostiene che equità e uguaglianza non sarebbero in discussione, semmai migliorabili, ma che l’universalismo sarebbe invece il principio più minacciato a causa della selettività implicita e disuguale nell'offerta sanitaria. Se proprio l’offerta sanitaria dovesse essere razionata per ragioni di sostenibilità, questa selezione dovrebbe essere esplicita e ispirata a principi di equità e uguaglianza. Concordo con Zocchetti sul fatto che questa potrebbe essere una delle responsabilità di maggiore attualità per l’epidemiologia: informare i decisori e i portatori di interesse sulle implicazioni per la salute delle scelte di razionamento e dei possibili rimedi.
Il Servizio Sanitario Nazionale non dovrebbe lasciarsi dettare l’agenda della sostenibilità e degli eventuali razionamenti dei livelli di assistenza dalle circostanze delle ricorrenti crisi e meno che mai dai non disinteressati suggeritori del mercato. Per questo scopo il SSN dovrebbe saper tradurre i livelli (essenziali) di assistenza (LEA) in una metrica comune di impatto sulla salute che possa diventare la moneta corrente con cui governare l’offerta e l’eventuale razionamento di LEA. Solo disponendo di questa informazione i decisori e i portatori di interesse potrebbero fare scelte fondate su una comprensione condivisa del loro impatto sulla salute nella popolazione e nei vari gruppi e territori, in modo che ognuno possa valutare cosa perde o guadagna da una decisione.
Tra l’altro il tema è particolarmente attuale nel contesto della regolazione dell’autonomia differenziata, dove l’uguale accessibilità ai LEA e financo anche ai livelli (essenziali) di tutela (LEP) sarebbe precondizione per aprire spazio a forme di differenziazione sui livelli non essenziali. Il problema è se sia possibile stimare quanto vale in salute un LEA o un LEP. Bisogna risalire alla discussione sugli algoritmi di allocazione delle risorse per i livelli di assistenza nello stato dell’Oregon per trovare un interesse simile. Riaprire un laboratorio dedicato a questo compito sarebbe la migliore risposta epidemiologica ed economico-sanitaria al lavoro della Commissione del CNEL sui LEP e LEA. Gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES) dell’Istat sono stati appunto introdotti come base informativa della relazione di accompagnamento alla Legge di Bilancio, proprio sulla base del principio che le scelte allocative dello Stato (per finanziare LEP e LEA) dovessero misurarsi su una valutazione comparativa dell’andamento dei livelli di tutela del benessere misurati dal BES. Se si misura l’andamento temporale, geografico e sociale di questi indicatori si può già imparare molto sugli effetti sul benessere delle crisi e dei rimedi introdotti dalla programmazione.
Il dibattito sulla sanità malata trascura poi di considerare e dare valore alle importanti trasformazioni in corso nella assistenza territoriale, che più di ogni altra circostanza potrebbe cambiare le competenze con cui i vari attori partecipano a rendere sostenibile la sanità pubblica con le proprie scelte. La missione 6 del PNRR e il conseguente DM77 investono una quantità inedita di finanziamenti e di impegni di riforma nella trasformazione dell’offerta della sanità territoriale: COT, Case della Comunità, Ospedali di Comunità sono i luoghi chiamati a rendere la sanità territoriale visibile e innovativa nella promozione della salute e nella prevenzione, nella sanità di iniziativa, nella continuità assistenziale, nella domiciliarità.
Si tratta di investimenti strutturali, tecnologici, soprattutto nella digitalizzazione, organizzativi, di procedure, di formazione e di governance, di una entità e ambiziosità mai viste nel nostro SSN. Anche questo sforzo ha bisogno di essere accompagnato dall’epidemiologia per assicurare un’adeguata metrica di monitoraggio degli indicatori di salute che guidi gli attori della programmazione locale verso i rischi e bisogni a maggiore impatto applicando i rimedi più efficaci, costruendo così una comunità locale che sappia dare valore alle conseguenze delle scelte, eventualmente anche quelle di un razionamento che si rendesse necessario.
Una metrica buona per misurare impatto su salute di LEA e LEP con una particolare attenzione ai livelli di assistenza e tutela governabili a livello locale potrebbe essere il mandato per un nuovo laboratorio interdisciplinare che l’epidemiologia potrebbe proporre alle altre discipline, in particolare l’economia sanitaria, magari nella sede del lavoro istruttorio sui LEP del CNEL.

Non è certo solo questione di spesa
Cesare Cislaghi, epieconomista
Le difficoltà evidenti del SSN non derivano certo solo da questioni di carenza di finanziamento anche se le risorse pubbliche per la sanità sono certamente carenti e l'aumento in termini assoluti del fondo sanitario da parte del Governo Meloni nasconde una diminuzione della quota della ricchezza del paese (il PIL) destinata alla sanità pubblica.
Questi tagli in termini "reali" della spesa sanitaria non sono solo di oggi ma almeno durano da una quindicina di anni in cui si è ritenuta fosse la soluzione più semplice per recuperare dei fondi per altri settori. Ma non è tutto qui, vi è stata anche l'aggressività del mercato che ha ritenuto conveniente puntare sulla sanità privata ed ancora una crescente sfiducia della popolazione nel pubblico meno attento alle problematiche degli utenti.
Però, al di là del significato dei termini, se per universalità si intende l'allargamento della copertura dell'assistenza all'intera popolazione, si deve riconoscere che nessun italiano viene escluso dal SSN, mentre però lo sono i molti migranti irregolari.
Distinguerei però l'universalità di diritto dall'universalità di fatto in quanto i ritardi nelle erogazioni escludono da alcune prestazioni i soggetti meno abbienti e costringono gli altri a trovare altre forme di assistenza rivolgendosi alla sanità privata pagandone il prezzo o stipulando delle assicurazioni. Spesso anche i costi di alcune compartecipazioni, come quella dei ricoveri nelle RSA, di fatto escludono i meno abbienti.
Ma nella mia terminologia questa non è mancanza di universalità, bensì mancanza di equità. Le regole di accesso alle prestazioni sono uguali per tutti ma non è così per tutti l'uguale possibilità di curarsi. Il Ministero definisce l'equità come un pari accesso per uguali bisogni, ma aggiungerei anche a parità di possibilità economiche di accesso.
La questione allora ricade sulla definizione dei LEA e sulla garanzia delle possibilità di usufruirne nei tempi e nei modi opportuni. Dei LEA di fatto non esigibili da parte di molti non sono certo dei LEA garantiti, e se questo riguarda soprattutto i meno abbienti la questione diventa una grave iniquità.
Trump pretenderebbe un aumento delle spese militari al 5% del PIL, cioè due volte e mezzo le attuali, non vorremmo che a perderci fosse ancora una volta la sanità. Purtroppo, chi decide sono per lo più una popolazione sana che vorrebbe che, come per altri settori del mercato, i consumi sanitari se li pagassero i malati. Ci sono due settori in cui la spesa non deve e non può essere a carico di chi ne usufruisce ma deve essere a carico dell'intera comunità: l'istruzione e la sanità.
Ma se la scarsità delle risorse del nostro paese dovessero invece in futuro realmente impedire sempre più la erogazione adeguata dei LEA, ovvero se i LEA stessi dovessero essere razionati, allora dovremmo pensare che si dovrebbe fare per garantire l'equità delle cure a tutta la popolazione. E credo che la via percorribile dovrebbe prevedere da una parte una reale revisione dell'appropriatezza delle cure e dall'altra una maggiore compartecipazione proporzionale alle capacità di ciascuno. o addirittura ad una forma di assicurazione sanitaria pubblica integrativa anch'essa proporzionale al reddito famigliare.
Ma ancor prima dovremmo rivedere dopo 46 anni di vita del SSN, se l'impostazione del sistema sanitario è ancora quella adeguata alla situazione attuale. La medicina generale, la sanità territoriale specialistica, i pronto soccorso, la prevenzione, ecc. devono essere ripensate e riorganizzate per aumentarne sia l'efficienza che l'efficacia.
E ancor prima si deve dotare gli operatori di una mentalità manageriale che non consideri solo le capacità tecnico professionali di ciascuno, ma anche le esigenze di funzionamento del sistema nel suo complesso. E questo a partire dalle facoltà di medicina che non affrontano purtroppo mai nei temi di insegnamento i problemi di gestione e di governo del sistema sanitario.
Commenti: 8
7.
Non è solo una questione di definanziamento
Non c’è dubbio che, a causa delle lunghe liste d’attesa, venga tradita la promessa di equità, uguaglianza e universalità delle prestazioni sanitarie del SSN.
Potremmo chiederci, come siamo stati invitati a fare, il perché del tradimento e come sia possibile cercare di mantenere questa promessa disattesa. A proposito del perché, non è tanto una questione di finanziamenti, così come ci suggerisce Cesare Cislaghi. I cambiamenti da invocare devono essere ben più radicali. Non ci si può limitare a correggere singoli difetti o ad aggiustare in modo incrementale i bilanci della sanità. E’ folle, infatti, così come sosteneva Einstein, voler risolvere un problema ricorrendo alla stessa mentalità e alle stesse logiche che hanno contribuito a crearlo. La logica di fondo che va cambiata, perché non consentirà mai di raggiungere un appropriato equilibrio tra domanda e offerta di prestazioni sanitare, ha a che fare con un modo sbagliato di pensare ai servizi sanitari. Essi non vanno più concepiti come un settore importante dell’economia di mercato: un settore caratterizzato da un’alta intensità tecnologica, trascinato da continui progressi scientifici e suscettibile di una domanda sconfinata. In una prospettiva di economia di mercato queste caratteristiche dei servizi, per chi vuole approfittarne, alimentano una fonte sicura e inesauribile di buoni ritorni economici, anche a scapito di potenziali guadagni di salute. La sanità è ormai entrata a far parte della sfera della produzione, del consumo e della pubblicità.
Ma il posto della sanità non è nel mercato perché deve rispondere a bisogni eminentemente sociali, non solo a bisogni individuali. E’ nell’interesse di tutta la società prevenire e curare le malattie. Se si ammala il componente di una famiglia stanno male, in qualche modo, anche i suoi familiari e ne risentono, per certi versi, tutte le persone appartenenti alla rete di relazioni cui il malato è legato. Ne viene, poi, colpito anche la produzione.
I servizi sanitari devono, perciò, essere concepiti come elementi essenziali di un sistema di sicurezza sociale, non più come un settore importante dell’economia di mercato. Questo cambiamento di prospettiva ha delle implicazioni profonde sugli scopi dei servizi che non sono più identificabili con la salute dei bilanci aziendali, ma con la salute dei cittadini e dei malati. Negli ospedali non devono essere più selezionate, ad arte, le patologie che rendono maggiormente, i casi meno problematici e i trattamenti a maggior margine di profitto, anche perché, così facendo, si finisce per snaturare il ruolo tipico delle professioni di aiuto. Va cambiata la logica di fondo, vale a dire l’etica e la politica che presiedono al funzionamento dei servizi sanitari.
Ci accorgiamo, così, che nell’ambito di un sistema di sicurezza sociale assumono una pregnanza diversa i significati di alcune parole che devono costituire le basi fondamentali su cui costruire un Servizio sanitario nazionale rinnovato nelle sue finalità e nelle sue funzioni. Le basi su cui far leva sono, soprattutto, tre: la prevenzione, la definizione delle priorità e l’appropriatezza.
Per quanto riguarda la prevenzione, bisogna adottare un nuovo modo di concepire la salute. E’ stato il nuovo millennio a chiarirci le idee sulle potenzialità della prevenzione, quando ha inaugurato i progressi della epigenetica. I vari fattori ambientali interagiscono coi geni di tutte le cellule del nostro corpo e ne regolano le funzioni. Il libro della vita non è, quindi, tutto scritto nel Dna. Molto è scritto nell'ambiente in cui viviamo, nel cibo che mangiamo, nell'aria che respiriamo, nell'acqua che beviamo, nella qualità dell'accudimento che ha improntato le prime fasi della nostra vita. Alla luce di queste scoperte, si è capito che esistono delle società sane e delle società malate, profondamente inquinate. Ma l'inaugurazione dell'epigenetica tra le nuove discipline scientifiche del terzo millennio deve avere anche delle implicazioni profonde nell'ambito dell'etica e della politica. Le nuove evidenze scientifiche possono contribuire a un miglioramento significativo della qualità della vita se vengono integrate nella gestione politica ed economica della società avviando delle bonifiche coraggiose delle nostre società, impoverite da un eccesso di sperequazioni e a lungo maltrattate dai dispositivi dell'ingiustizia sociale.
La seconda leva su cui puntare è la definizione delle priorità. Stabilire le priorità è una scelta etica e politica, ineludibile in presenza di risorse scarse. I bisogni sanitari, infatti, sono virtualmente senza fondo. Bisogna, allora, stabilire, come ci ha invitato a fare Giuseppe Costa, per quali di questi bisogni esistano dei rimedi efficaci e stilare una graduatoria di questi rimedi sia sulla base dei guadagni di salute apportati che dei costi sostenuti per ottenerli. Intese in questo modo le priorità non possono essere più confuse come un impegno di retroguardia perché “limitano la portata del rispetto di un diritto fondamentale”. Al contrario, definire le priorità garantisce la tutela del diritto alla salute perché mira a ridurre gli sprechi e ad assicurare le risorse per soddisfare i bisogni reali, suscettibili di beneficiare di guadagni di salute.
Passato il filtro delle priorità, le prestazioni devono passare anche attraverso quello dell’appropriatezza: è questa la terza leva su cui puntare per un buon funzionamento dei servizi sanitari. La cultura dell’appropriatezza si combina bene con la definizione delle priorità perché ci invita, a sua volta, a tener conto dei costi e dell’efficacia delle prestazioni nel procurare guadagni di salute. Lo fa nei confronti dei singoli malati, con il corredo delle loro specifiche peculiarità. Perseguire l’appropriatezza significa, infatti, fare le cose giuste alla persona giusta, al momento giusto e nei giusti contesti. Significa anche investire in modo convinto nello studio e nella ricerca finalizzata all’affinamento delle indicazioni di farmaci, esami diagnostici e strumentali, dispositivi medico-chirurgici e interventi. Si tratta di una ricerca molto osteggiata dall’industria della salute, che ha tutto l’interesse nel dilatare le indicazioni (anziché affinarle), vale a dire ad allargare il più possibile la platea dei soggetti da trattare, indipendentemente dal fatto che ne traggano o meno beneficio. Così come succede per la definizione delle priorità anche l’appropriatezza è a rischio di essere trascurata nel caso in cui i servizi sanitari siano concepiti come un settore dell’economia di mercato. I criteri della selezione dei bisogni e della scelta delle prestazioni vengono, infatti, completamente stravolti da una visione mercantilistica della sanità.
C'è qualcosa di radicalmente sbagliato in quello che accade. La politica deve dar prova di riconoscerlo. Si tratta di non tradire un principio molto semplice: la sanità deve giovare prima di tutto ai cittadini e ai malati. In conseguenza dei benefici che arreca, essa è perfettamente in grado di giovare a numerosi altri attori del sistema sanitario. Non è uno scandalo, infatti, che, grazie alle utilità che procura, possano riversarsi sostanziali vantaggi anche su industrie, istituti, società, ospedali e professionisti. Non deve, invece, più accadere che, per saziare l’avidità di qualcuno, medicina e servizi non solo perdano di vista il bene del malato, ma talvolta finiscano, addirittura, per fare consapevolmente il suo male.
Poichè la “Tempesta perfetta” citata da Costa è già tra noi (invecchiamento della popolazione, aumento del costo dei processi diagnostici e di alcune tipologie di farmaci, consumismo sanitario – e medicina difensiva- con conseguente aumento di prestazioni inappropriate), sì: la riorganizzazione del SSN è indispensabile, e non serve solo un aumento del finanziamento.
E’ una situazione estremamente complessa quella che i tre interventi tratteggiano in cui i vari temi si interconnettono e si fatica a districarsi per individuare da dove partire. Soldi in più sì, ma per metterli prioritariamente dove? In relazione all’invecchiamnto della popolazione e al conseguente carico di cronicità, spesso multiple, a me pare che uno dei punti cruciali sia la figura del MMG, ora prevalentemente prescrittore di interventi proposti da vari specialisti, mentre dovrebbe essere la figura che fa sintesi, indirizza, ha una relazione privilegiata con il paziente. Come fare per fargli cambiare sostanzialmente ruolo? Dipendente invece che convenzionato (FIMMG dissenziente), lavoro nelle Case di comunità (per fare che cosa?), robusto intervento formativo, già in Università? Forse tutto ciò insieme. E forse l’attenzione dell’epidemiologia sul suo lavoro (esiti, appropriatezza) potrebbe dare una mano al cambiamento.
6.
Le mutazioni storiche del SSN e l'attualità dei suoi principi fondanti.
Non sono onestamente in grado di distinguere quale tra i principi fondanti del SSN, dalla sua nascita ad oggi, si sia affievolito maggiormente. Credo che tutti, complessivamente, si siano ridimensionati nella loro essenza e siano, pertanto, destinati a sfumarsi progressivamente nel tempo. Faccio riferimento, più puntualmente, a due questioni:
- al senso politico che quei principi hanno rappresentato nel contesto storico in cui sono stati definiti;
- alla possibilità che quella visione sia, se non rilanciabile, quanto meno difendibile nell'attuale contesto.
Mi sono laureato un anno prima della riforma e quei principi sono stati una sorta di imprinting ideologico e deontologico, per me così come per gran parte delle generazioni di medici che quel processo hanno favorito con un impegno politico diretto, o di cui hanno condiviso il valore o nel quale, più semplicemente, si sono formati. Il SSN ha rappresentato, alla sua nascita, un'ipotesi nella quale si sono riconosciuti non solo i nuovi medici ma anche un vasto schieramento di forze politiche e sociali dei lavoratori, di associazioni culturali e scientifiche. Medicina democratica, la Società di Verifica e Revisione della Qualità, il Tribunale per i diritti del malato, la Società per la Analisi Partecipata della Qualità, Donna e Salute sono solo alcuni esempi di quella galassia (oramai in estinzione). Il cemento che univa tutti era una visione "ideologica" (in senso epistemologico) orientata verso i principi, appunto, di equità, universalità e uguaglianza per il diritto alla salute.
In ambito medico ci fu una vera e propria rivoluzione di ruolo: da antica professione liberale privatistica a moderna professione sociale. Gli stessi Ordini dei medici, in quegli anni, furono investiti da quella mutazione generazionale.
La riforma Mariotti degli ospedali, il riordino della Medicina di Base (con l'abolizione delle mutue e l'individuazione degli ambiti territoriali per i MMG) e l'istituzione del SSN con la 833 sono state, in un decennio dal 1968 al 1978, le tappe di quella rivoluzione. È bene ricordare che in ognuna di quelle fasi si sono verificate infornate massive di operatori sanitari, favorite anche dall'accesso di massa alle facoltà mediche e scientifiche. Generazioni di medici e professionisti sanitari ormai quasi tutti in pensione o quasi, con il loro bagaglio culturale oltre che professionale.
Il contesto storico attuale, purtroppo, è profondamente mutato e la tensione politica e sociale per la tutela dei principi fondanti del SSN si è, già da molti anni, allentata. E così è cambiato anche il modo di intendere il proprio ruolo professionale da parte dei nuovi operatori sanitari, con un reflusso sempre più riconoscibile verso una concezione e interessi di tipo privatistico. In assenza di memoria storica e di tradizione dell'essenza del SSN, di una formazione adeguata sui principi, ordinamento e organizzazione dei servizi nei quali si viene inseriti, è inevitabile lo smarrimento di senso della missione del SSN.
Si può stare a discutere su quali livelli della assistenza soffrano di più in questo processo di sgretolamento, ma è evidente che:
- di prevenzione del rischio ambientale e professionale, fortemente enfatizzati nella 833/78, non vi sia più cenno alcuno nelle nuove norme ordinamentali del SSN (per rischio si intende, ormai, solo quello clinico);
- il ruolo di governo delle comunità locali e la partecipazione civica per il controllo della qualità dei servizi sono un'ipotesi dell'irrealtà;
- piuttosto che una promozione della salute in tutte le politiche, si è verificata una diffusa promozione politica per i quadri dirigenti;
- la medicina di base e primaria sta abdicando dal suo ruolo essenziale di regolazione dell'accesso ai LEA e, soprattutto, di gestione e presa in carico della cronicità, ormai orfana in quanto espulsa anche dall'assistenza ospedaliera, perché "rea" di inappropriatezza organizzativa;
- le prestazioni chirurgiche LEA, trasferite obbligatoriamente al regime ambulatoriale ordinario o di day service, sono sostanzialmente inesigibili sia in ambito ospedaliero che territoriale e, a causa di lunghe e oscure liste d'attesa e di oggettive carenze organizzative, rappresentano il terreno di caccia privilegiato per le prestazioni a pagamento.
Probabilmente, il settore che reggono ancora sono quelli dell'assistenza alle gravi acuzie e dell'emergenza ospedaliera. Ma sino a quando, visto lo stato di grave sofferenza (e di crisi vocazionale) di questi servizi e il definanziamento progressivo a cui è destinata la sanità pubblica?
Eppure, continuo a sperare che, se insieme alla difesa di ciò che regge ancora della sanità pubblica, almeno si potesse sviluppare il Chronic Care Model per la presa in carico e la gestione appropriata dei pazienti cronici e fragili nei nuovi presidi previsti dal PNNR, potremmo ancora testimoniare l'esistenza dei principi di universalità, uguaglianza e equità nell'assistenza sanitaria e sperimentare una via per la sostenibilità di una sanità pubblica.
5.
Che cosa percepisco come cittadino/utente
Mi preoccupano le aggressioni al personale sanitario; le liste d'attesa che rimandano a ospedali a 250 km di distanza; l'atteggiamento di molti medici che, depressi dallo statu q quo, lavorano come in catena di montaggio.
E' la Medicina che mi preoccupa: sempre più connessa alla farmaceutica. Vedo vecchietti in farmacia che escono con un sacchetto della spesa pieno zeppo di farmaci, molti dei quali servono a contrastare l'interazione dei farmaci precedenti...
Mi preoccupa che non sia più una Medicina della Cura, una Medicina dell'attenzione e della valutazione.
Mi preoccupa che oggi l'AI possa fare diagnosi più precise di un Medico esperto che non ha tempo per ragionare sui dati.
Mi preoccupa quanto è sfruttato il personale sanitario...(turni, responsabilità, stipendio)
...e siamo considerati il miglior Sistema Sanitario d'Europa...
Cominciare con "concordo pienamente" non è di moda ma, stavolta, è dovuto.
Non è solo una questione di "coperta corta", problema reale in peggioramento, è un problema di prospettiva: qualcuno (non credo nei "poteri forti", i "colpevoli" sono persone) non da oggi sta spingendo per un disamoramento verso il pubblico a tutti i livelli. Il primo e rivoluzionario passo dovrebbe essere far sentire medici ed operatori quello che sono: una risorsa vitale per la salute della società. Utopia? Forse si ma se non si comincia con un sogno è difficile trovare energie per un'opera lunga e per nulla facile
4.
Non è solo una questione di definanziamento
Non c’è dubbio che, a causa delle lunghe liste d’attesa, venga tradita la promessa di equità, uguaglianza e universalità delle prestazioni sanitarie del SSN.
Potremmo chiederci, come siamo stati invitati a fare, il perché del tradimento e come sia possibile cercare di mantenere questa promessa disattesa. A proposito del perché, non è tanto una questione di finanziamenti, così come ci suggerisce Cesare Cislaghi. I cambiamenti da invocare devono essere ben più radicali. Non ci si può limitare a correggere singoli difetti o ad aggiustare in modo incrementale i bilanci della sanità. E’ folle, infatti, così come sosteneva Einstein, voler risolvere un problema ricorrendo alla stessa mentalità e alle stesse logiche che hanno contribuito a crearlo. La logica di fondo che va cambiata, perché non consentirà mai di raggiungere un appropriato equilibrio tra domanda e offerta di prestazioni sanitare, ha a che fare con un modo sbagliato di pensare ai servizi sanitari. Essi non vanno più concepiti come un settore importante dell’economia di mercato: un settore caratterizzato da un’alta intensità tecnologica, trascinato da continui progressi scientifici e suscettibile di una domanda sconfinata. In una prospettiva di economia di mercato queste caratteristiche dei servizi, per chi vuole approfittarne, alimentano una fonte sicura e inesauribile di buoni ritorni economici, anche a scapito di potenziali guadagni di salute. La sanità è ormai entrata a far parte della sfera della produzione, del consumo e della pubblicità.
Ma il posto della sanità non è nel mercato perché deve rispondere a bisogni eminentemente sociali, non solo a bisogni individuali. E’ nell’interesse di tutta la società prevenire e curare le malattie. Se si ammala il componente di una famiglia stanno male, in qualche modo, anche i suoi familiari e ne risentono, per certi versi, tutte le persone appartenenti alla rete di relazioni cui il malato è legato. Ne viene, poi, colpito anche la produzione.
I servizi sanitari devono, perciò, essere concepiti come elementi essenziali di un sistema di sicurezza sociale, non più come un settore importante dell’economia di mercato. Questo cambiamento di prospettiva ha delle implicazioni profonde sugli scopi dei servizi che non sono più identificabili con la salute dei bilanci aziendali, ma con la salute dei cittadini e dei malati. Negli ospedali non devono essere più selezionate, ad arte, le patologie che rendono maggiormente, i casi meno problematici e i trattamenti a maggior margine di profitto, anche perché, così facendo, si finisce per snaturare il ruolo tipico delle professioni di aiuto. Va cambiata la logica di fondo, vale a dire l’etica e la politica che presiedono al funzionamento dei servizi sanitari.
Ci accorgiamo, così, che nell’ambito di un sistema di sicurezza sociale assumono una pregnanza diversa i significati di alcune parole che devono costituire le basi fondamentali su cui costruire un Servizio sanitario nazionale rinnovato nelle sue finalità e nelle sue funzioni. Le basi su cui far leva sono, soprattutto, tre: la prevenzione, la definizione delle priorità e l’appropriatezza.
Per quanto riguarda la prevenzione, bisogna adottare un nuovo modo di concepire la salute. E’ stato il nuovo millennio a chiarirci le idee sulle potenzialità della prevenzione, quando ha inaugurato i progressi della epigenetica. I vari fattori ambientali interagiscono coi geni di tutte le cellule del nostro corpo e ne regolano le funzioni. Il libro della vita non è, quindi, tutto scritto nel Dna. Molto è scritto nell'ambiente in cui viviamo, nel cibo che mangiamo, nell'aria che respiriamo, nell'acqua che beviamo, nella qualità dell'accudimento che ha improntato le prime fasi della nostra vita. Alla luce di queste scoperte, si è capito che esistono delle società sane e delle società malate, profondamente inquinate. Ma l'inaugurazione dell'epigenetica tra le nuove discipline scientifiche del terzo millennio deve avere anche delle implicazioni profonde nell'ambito dell'etica e della politica. Le nuove evidenze scientifiche possono contribuire a un miglioramento significativo della qualità della vita se vengono integrate nella gestione politica ed economica della società avviando delle bonifiche coraggiose delle nostre società, impoverite da un eccesso di sperequazioni e a lungo maltrattate dai dispositivi dell'ingiustizia sociale.
La seconda leva su cui puntare è la definizione delle priorità. Stabilire le priorità è una scelta etica e politica, ineludibile in presenza di risorse scarse. I bisogni sanitari, infatti, sono virtualmente senza fondo. Bisogna, allora, stabilire, come ci ha invitato a fare Giuseppe Costa, per quali di questi bisogni esistano dei rimedi efficaci e stilare una graduatoria di questi rimedi sia sulla base dei guadagni di salute apportati che dei costi sostenuti per ottenerli. Intese in questo modo le priorità non possono essere più confuse come un impegno di retroguardia perché “limitano la portata del rispetto di un diritto fondamentale”. Al contrario, definire le priorità garantisce la tutela del diritto alla salute perché mira a ridurre gli sprechi e ad assicurare le risorse per soddisfare i bisogni reali, suscettibili di beneficiare di guadagni di salute.
Passato il filtro delle priorità, le prestazioni devono passare anche attraverso quello dell’appropriatezza: è questa la terza leva su cui puntare per un buon funzionamento dei servizi sanitari. La cultura dell’appropriatezza si combina bene con la definizione delle priorità perché ci invita, a sua volta, a tener conto dei costi e dell’efficacia delle prestazioni nel procurare guadagni di salute. Lo fa nei confronti dei singoli malati, con il corredo delle loro specifiche peculiarità. Perseguire l’appropriatezza significa, infatti, fare le cose giuste alla persona giusta, al momento giusto e nei giusti contesti. Significa anche investire in modo convinto nello studio e nella ricerca finalizzata all’affinamento delle indicazioni di farmaci, esami diagnostici e strumentali, dispositivi medico-chirurgici e interventi. Si tratta di una ricerca molto osteggiata dall’industria della salute, che ha tutto l’interesse nel dilatare le indicazioni (anziché affinarle), vale a dire ad allargare il più possibile la platea dei soggetti da trattare, indipendentemente dal fatto che ne traggano o meno beneficio. Così come succede per la definizione delle priorità anche l’appropriatezza è a rischio di essere trascurata nel caso in cui i servizi sanitari siano concepiti come un settore dell’economia di mercato. I criteri della selezione dei bisogni e della scelta delle prestazioni vengono, infatti, completamente stravolti da una visione mercantilistica della sanità.
C'è qualcosa di radicalmente sbagliato in quello che accade. La politica deve dar prova di riconoscerlo. Si tratta di non tradire un principio molto semplice: la sanità deve giovare prima di tutto ai cittadini e ai malati. In conseguenza dei benefici che arreca, essa è perfettamente in grado di giovare a numerosi altri attori del sistema sanitario. Non è uno scandalo, infatti, che, grazie alle utilità che procura, possano riversarsi sostanziali vantaggi anche su industrie, istituti, società, ospedali e professionisti. Non deve, invece, più accadere che, per saziare l’avidità di qualcuno, medicina e servizi non solo perdano di vista il bene del malato, ma talvolta finiscano, addirittura, per fare consapevolmente il suo male.
3.
Che cosa percepisco come cittadino/utente
Mi preoccupano le aggressioni al personale sanitario; le liste d'attesa che rimandano a ospedali a 250 km di distanza; l'atteggiamento di molti medici che, depressi dallo statu q quo, lavorano come in catena di montaggio.
E' la Medicina che mi preoccupa: sempre più connessa alla farmaceutica. Vedo vecchietti in farmacia che escono con un sacchetto della spesa pieno zeppo di farmaci, molti dei quali servono a contrastare l'interazione dei farmaci precedenti...
Mi preoccupa che non sia più una Medicina della Cura, una Medicina dell'attenzione e della valutazione.
Mi preoccupa che oggi l'AI possa fare diagnosi più precise di un Medico esperto che non ha tempo per ragionare sui dati.
Mi preoccupa quanto è sfruttato il personale sanitario...(turni, responsabilità, stipendio)
...e siamo considerati il miglior Sistema Sanitario d'Europa...
2.
Non è certo solo questione di spesa
Talmente d'accordo con quanto scritto che porrei come prima questione quella del recupero del significato nel nostro Paese del SERVIZIO PUBBLICO e all'interno di esso della SANITÀ e del SSN.
Per questo l'aggiornamento del SSN, a fronte del preponderante consumismo di utenti e affarismo di operatori (corporativamente tutelato), richiede la disciplina dei conflitti di interesse, il pieno riconoscimento statutario di chi sceglie di operare in esclusiva per il SERVIZIO PUBBLICO e le regole di ingaggio dei professionisti a prestazione, la radicale riforma della medicina generale (insegnare e curare richiedono operatori pubblici dedicati), un'autority articolata a livello regionale con funzioni di vigilanza oltre che di indirizzo.
1.
Equità, Uguaglianza, Universalità,
Equità, Uguaglianza, Universalità, Non pervenute, forse un tempo ma oggi traspare la volontà di rendere il SSN un servizio di serie C al fine di favorire il privato. Credo che sia una volontà politica mossa da interessi economici personali.
8.
Il servizio sanitario è davvero diventato insostenibile ?
Ormai da diversi anni suona sempre più prepotentemente e fragorosamente l’allarme di una presunta “insostenibilità” del Servizio Sanitario.
Cosa intendiamo per sostenibilità? Non è un concetto univoco, dipende dalle priorità del paese che intende perseguire, tenendo conto dalle garanzie che s’intende offrire alla popolazione. Per citare Roy Romanow (politico canadese, membro della commissione d’inchiesta sul futuro della sanità canadese ): “non vi è alcuno standard di spesa per la salute, la scelta riflette la storia, i valori e le priorità. Il sistema è tanto sostenibile quanto vogliamo che lo sia, in sostanza è una scelta politica.” Questo basterebbe a chiudere la questione.
Ma volendo scendere nell’agone delle motivazioni che fanno risuonare l’allarme della insostenibilità mi limito ad affrontare tre questioni: il finanziamento del SSN, l’accessibilità, l’equità.
Il finanziamento
Il nostro SSN viene finanziato attraverso la tassazione generale, la “proiezione” dei costi del SSN prodotta dalla Ragioneria Generale dello Stato nella sua ultima relazione, secondo lo scenario base ( parità di consumi per classe di età, costi che crescono in relazione al PIL, tenendo conto delle dinamiche demografiche) prevede di arrivare massimo al 7,2% del PIL nei prossimi 40 anni (+1% rispetto ad oggi). Si tratta di meno della metà di quanto Trump ci chiede di aumentare in termini di spesa per gli armamenti, e comunque di una quantità di risorse (circa 23 miliardi) che certo non fa paventare la bancarotta dei conti pubblici.
Accessibilità delle cure
Le cure primarie e a quelle ospedaliere si possono ritenere ancora oggi accessibili ed eque. Il problema riguarda soprattutto l’accesso alle visite specialistiche e agli accertamenti diagnostici. Qui ci sono diversi problemi, scarsità di offerta rispetto alla domanda (non in tutte le regioni per fortuna), e appropriatezza prescrittiva. È evidente comunque come ci sia stato una progressiva riduzione dell’impegno della sanità pubblica nella specialistica ambulatoriale. Il nuovo decreto sulle liste di attesa sembra introdurre degli elementi che fanno ben sperare come le nuove linee guida per l’appropriatezza delle prescrizioni e un sistema di monitoraggio delle attese centralizzato, cui anche i cittadini potranno accedere.
Il tema centrale in tutti i livelli di cura è quello dell’appropriatezza, che si basa su tre aspetti chiave: efficacia, accessibilità (nel setting adeguato), tempestività /continuità. Molte prestazioni erogate non sono appropriate (parto cesareo, uso eccessivo di antibiotici – siamo i primi in Europa; RMN al ginocchio, test genetici e allergologici senza prescrizione, MOC ogni due anni, inibitori pompa protonica ad alti dosaggi). L’informazione di pazienti su questo aspetto è cruciale. È necessario investire in promozione della salute e in particolare nella l’alfabetizzazione sanitaria, ruolo che la sanità pubblica ha tutto l’interesse ad enfatizzare , al contrario di quella privata che invoglia i consumi.
La rinuncia alle cure e l’incremento della spesa out of pocket sono segnali di una tendenza del sistema a garantire sempre meno le cure necessarie. Ma i dati che vengono diffusi e strumentalmente commentati (4,5 milioni di Italiani che non si curano e 40 miliardi di spesa out of pocket, elementi in netta crescita nel 2023 rispetto all’anno precedente) vanno correttamente interpretati. I 4,5 milioni di Italiani “che non si curano”, la metà per motivi economici e l’altra metà per le file d’attesa, in realtà hanno rinunciato ad una prestazione nell’anno di cui avevano bisogno (di questo si tratta), e non certo a curarsi. Spesso si tratta di una tra le decine di prestazioni richieste. Comunque per questo indicatore siamo al di sotto della media Europea. Il dato che deve preoccupare semmai è il numero di famiglie che deve affrontare spese per la salute catastrofiche (oltre il 40% dei livelli di spesa), si tratta di il 2,8% delle famiglie residenti, corrispondenti a 731mila nuclei. Per quel che riguarda la spesa out of pocket, sicuramente una fetta dell’incremento è dovuto al crescente ricorso alle polizze sanitarie, tema che meriterebbe un blog dedicato. A proposito di appropriatezza, una vecchia indagine Agenas rilevava che una buona metà della spesa out of pocket delle famiglie è dedicata a prodotti e servizi di dubbia o nessuna efficacia. Anche questo aspetto va quindi considerato “cum grano salis”.
L’equità
I LEA costituiscono il principale strumento attraverso il quale sono equamente garantite le cure. Si tratta di un’ampia lista di prestazioni considerate efficaci, che di recente è stata ampliata con, ad esempio, alcuni screening genetici, quello visivo neonatale, dispositivi per la telemedicina, la consulenza genetica, nuovi vaccini (come: anti-Papillomavirus, anti- Pneumococco, anti-Meningococco).
I LEA costituiscono un’assunzione di responsabilità dello Stato. Se ci sono poche risorse per ridurre il gap di salute bisogna investire sull’accesso alle cure dei più poveri, che hanno rischi più elevati di incidenza e minore capacità di scelta fra le diverse opzioni di cura disponibili. A dirlo è l’organizzazione mondiale della Sanità. A dire il vero nel nostro paese possiamo affermare di avere livelli di equità nell’accesso alle cure elevato, se confrontato con altri paesi europei: ad esempio a la differenza nella prevalenza di malattie croniche tra ricchi e poveri è tra le più basse d’Europa. Inoltre, attraverso I programmi che comportano una reale presa in carico dei pazienti di fatto si azzerano la disuguaglianze di salute tra persone con alto e basso status socioeconomico. Tuttavia, preoccupano le profonde differenze tra le regioni del Nord e quelle del Sud sia in termini di morbosità (prevalenza di malattie croniche, disabilità) sia di accesso ai servizi, in particolare quelli di prevenzione, che sono cruciali. Su questo aspetto è necessario intervenire, possibilmente in direzione uguale e contraria ai principi dell’autonomia differenziata.
Il servizio sanitario è malato e necessità di interventi, Costa, Cislaghi e Zocchetti hanno ben illustrato problemi e possibili rimedi, Ma il SSN non è un malato terminale. Titoli allarmistici sulla tenuta del sistema sanitario da parte di chi si erge a paladino del SSN temo non facciano altro che portare per mano i cittadini verso la disaffezione del SSN e, chi può, a rifugiarsi nel sistema delle assicurazioni sanitarie, strumenti di provata inefficienza e inequità