Una pestilenza inventata nell’impero ottomano in un’isola che non c’è; un intellettuale alla catena di montaggio nell’industria agroalimentare francese; una grande disponibilità di armi e la deflagrazione di una bomba atomica in una cittadina degli Stati Uniti.

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Orhan Pamuk
Le notti della peste

Torino, Einaudi, 2022
(edizione originale: 2021)
714 pagine; 25,00 euro
Traduzione di Barbara La Rosa Salim

In questo tempo di pandemia , con il suo nuovo romanzo, Orhan Pamuk, il più famoso scrittore turco, premio Nobel per la letteratura del 2006,  ci riporta al tema delle pestilenze.
Questo filo conduttore del suo racconto è la costante per la quale, quando intervengono situazioni drammatiche, si scatenano l’ostilità, l’odio fra le classi sociali e i diversi gruppi religiosi o linguistici, quindi una frattura nella vita sociale con l’emersione o l’acuirsi di dicerie, egoismo, accuse, rabbia e collera, teorie cospirative e gruppi in lotta l’uno contro l’altro, soluzioni autoritarie.
A dominare il campo è il “pericolo” e le reazioni che i singoli e i gruppi hanno verso di esso.
Nella prefazione, l’autore ci informa che le vicende di cui tratta, collegate con un’epidemia inventata, ingravescente di peste bubbonica e forse anche polmonare, si sono svolte a Mingher, un’isola che non c’è, pensata sulla rotta tra Istanbul e Alessandria. 
La narrazione riconosce una trama semplice: nell’aprile del 1901, un piroscafo approda all’isola di Mingher e scendono – inviate dal sultano Abdul Hamid per indagare e prevenire gli effetti della peste – due persone, il dottor Stanislav Bonkowski, il maggior specialista di malattie infettive dell’Impero ottomano, e il suo assistente. Quasi subito dopo aver imposto la quarantena, il corpo del famoso chimico igienista (realmente esistito) viene trovato senza vita. Il sultano allora invia sull’isola Nuri Bey, medico affermato e consorte di Pakize, figlia del deposto sultano Murad V. La missione del principe consorte è di indagare e trovare il colpevole della misteriosa uccisione di Bonkowsky, ma non solo, stante le sue conoscenze sulle malattie infettive. Nel corso della narrazione, compaiono molti personaggi che si muovono in un contesto sociale zeppo di contraddizioni.
Le notti della peste è sostanzialmente un romanzo storico, ma anche ricco di allegorie che, possono essere proiettate al presente, specie per quanto riguarda la deriva verso il nazionalismo e l’autocrazia.

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Joseph Ponthus
Alla linea
Fogli di fabbrica

Torino, Einaudi, 2022
(edizione originale: 2021)
714 pagine; 25,00 euro
Traduzione di Barbara La Rosa Salim

In questo “romanzo-poesia” in versi liberi senza punteggiatura, il protagonista è l'autore stesso che racconta la storia in prima persona, in quanto è informato dei fatti ed è colui che ha svolto l’indagine a Lorient, in Bretagna, perché attivo per alcuni anni in uno stabilimento dove si lavorano pesci e crostacei e poi in un mattatoio.
Sono tanti i riferimenti letterari, dai poeti della Pléiade ad Apollinaire, da Beckett a Baudelaie, fino al poeta-lavoratore francese Thierry Metz, anch’egli per un periodo impiegato in un macello.
Ponthus viene licenziato dal suo posto di lavoro quando porta alla direzione una copia del libro del quale si parla; è morto nel 2021, a 42 anni, a causa di un tumore, lasciando incompiuta una nuova composizione letteraria.
Quando si parla del lavoro di linea o “alla catena”, compaiono subito davanti agli occhi alcuni fotogrammi di Tempi moderni, il memorabile film del 1936 scritto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin; inoltre sono numerose le testimonianze degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso che registrano atroci testimonianze, specie a proposito dell’industria meccanica, dell’auto e di quella elettrica scritte da letterati-critici sociali-operai o da intellettuali-operai.
Occorre tuttavia ricordare che l’industria alimentare, in particolare i macelli di Chicago, ha rappresentato lo scenario spettacolare e terrificante delle condizioni di lavoro alle quali erano costretti, in speciali “catene di smontaggio”, migliaia di lavoratori di recente immigrazione.
L’opera di Ponthus è un capolavoro difficile da recensire. Non c’è una trama da riportare: ogni pagina esprime precisi significati e stimola sentimenti differenti che rimandano volta per volta alla vita materiale oppure a condizioni universali della vita e dell’umanità. In molte pagine si ha la sensazione che i pensieri messi in versi liberi ricalchino il rumore, gli odori, l’illuminazione e la temperatura dell’ambiente e dei materiali manipolati, la postura, i gesti ripetuti ossessivamente nelle lunghe ore di lavoro, la fatica generale non legata agli sforzi fisici o quella muscolare e scheletrica di singoli apparati dell’organismo; allora, a emergere sono annichilamento, sofferenze di vario genere, rancore, rivendicazioni e voglia di lotta.
Alle volte l’autore “va a capo” (appunto, à la ligne), dunque la prosa poetica elabora pensieri non allineati, anzi di contrasto all’ambiente di lavoro, distopici, edificanti e anche gioiosi; allora compaiono situazioni fantastiche, nonsense, cose belle della vita, affetti e anche godimenti.

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Kurt Vonnegut
Il grande tiratore

Traduzione di Pier Francesco Paolini
Milano, Feltrinelli, 2019
(prima edizione italiana: Bompiani 1984;
edizione originale: 1982)
222 pagine; 17,00 euro

Nel fantastico romanzo Il grande tiratore, il rampollo di una ricca famiglia di Midland City (Ohio), Otto Waltz, viene mandato a Vienna per iscriversi alla celebre Accademia di Belle Arti. Otto è fermamente convinto di avere un grande talento artistico, ma non la pensano così i professori dell’Accademia che non lo ammettono nemmeno ai corsi. Identica bocciatura per uno sbandato austriaco di nome Adolf Hitler, che Otto prende subito in simpatia. Tornato a Midland City, Otto costruisce una grande e bizzarra casa con un’enorme soffitta dove custodisce una collezione di armi da fuoco di ogni tipo, una collezione che segnerà il destino di suo figlio Rudolph qualche tempo più tardi. È lui, Rudy, Il grande tiratore, che racconta le alterne fortune della sua strampalata famiglia, tra bandiere naziste che garriscono al vento, proiettili sparati da un ragazzo ai palazzi vicini, bombe ai neutroni che spazzano via ogni forma di vita, opere d’arte immaginifiche e hotel di lusso ad Haiti. Tra gli altri personaggi della famiglia, c’è la madre Emma, perennemente bambina e lontana dalle proprie responsabilità, nei confronti della quale Rudy si comporta da servo; c’è, infine, apparentemente più fortunato, il primogenito Felix, ma anche lui ha delle cose che non vanno, dei segreti.
La narrazione risulta molto articolata e movimentata con flashback, ricette culinarie, dialoghi teatrali; si affacciano momenti di giocosità in genere delicati e altrettanto tra le righe, ma chiaramente comprensibili risultano le considerazioni pessimistiche e le critiche sociali. Con la libertà del narratore che Vonnegutt sa prendersi e che vanta nella presentazione, esercita opera sottile di convincimento nella mente del lettore sull’assurdità della diffusione delle armi e sul terrore rappresentato dalla guerra, in particolare da quella atomica, concezione universale e anche attuale che vale la pena di diffondere anche con una narrazione condita di esagerazioni, di situazioni alle volte poco scientifiche e caricaturali. 

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