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A cura di Enzo Ferrara
E&P 2023, 47 (3) maggio-giugno, p. 212-213
DOI: https://doi.org/10.19191/EP23.3.048
Comunicazione
L'arcipelago delle normalità
The archipelago of normality
Intervista a Gloriana Leone, insegnante di lettere nella scuola secondaria di I grado dell’Istituto comprensivo di Volpiano (Torino), ex docente sul sostegno nelle scuole secondarie di II grado, fa parte dell’associazione Vittime italiane del talidomide (V.I.Ta), canta nel coro amatoriale “Imagovocis” di Volpiano da molti anni.
Lo scorso 19 novembre, durante la presentazione presso la Biblioteca civica multimediale “Archimede” di Settimo Torinese (Torino) del libro La tragedia della Talidomide (Florence Art Edizioni, 2021), Antonio Ciuffreda, uno dei curatori del volume insieme a Francesco Picucci, ha offerto una prospettiva molto acuta sul concetto di normalità: «Le diversità – ha detto – restano tali fin quando le si osserva da lontano e si mantiene una distanza che permette la separazione: se ci si avvicina, non solo si scopre che c’è molto in comune fra presunti diversi, ma anche ci si contamina rendendo le differenze sempre meno evidenti e la normalità sempre più relativa».
Mi capita, da qualche tempo, di interrogarmi sul concetto di normalità e sul mio avere cercato e cercare di essere e apparire normale, ammesso che abbia capito che cosa voglia dire questa parola.
Nascere con una disabilità ti mette, inevitabilmente, in condizione di scontrarti con la normalità degli altri e con il cercare di adeguarti, con le tue mancanze (nonostante le tue mancanze, grazie alle tue mancanze), alla tipologia di vita che la maggior parte della gente conduce.
Cercare di essere normale significa forse, soprattutto, questo: provare a vivere come vivono gli altri. Perché le cose da fare per essere autonomi in una società che non è pensata per i disabili significa che o impari a fare quello che c’è da fare oppure devi avere qualcuno che lo faccia per te, quindi rinunci a fette più o meno grandi della tua autonomia.
L’altro aspetto importante è fare in modo che gli altri non si sentano troppo imbarazzati in tua presenza: la mia spontaneità, la naturalezza nei gesti, negli sguardi è, spesso, un modo di mettere l’altro a proprio agio, non tanto per generosità, quanto piuttosto per non fargli vivere quell’imbarazzo che, di riflesso, mi farebbe (mi ha fatto) probabilmente soffrire molto.
Ho riflettuto spesso (grazie anche ai dieci anni di lavoro come docente sul sostegno) in relazione al fatto che la disabilità crea grande disagio nella gente: c’è il problema del come comportarsi, di come reagire (faccio finta di nulla finché posso? Oppure evito di guardare, di interagire per non trovarmi in difficolta – o perché quello che vedo mi fa ribrezzo o mi fa star male?)
Antonio (Ciuffreda) dice che nascere come è nato lui significa «essere buttati in mare con il mare mosso e dovere necessariamente imparare a nuotare», quindi essere destinati a una vita di sopravvivenza, ma anche, forse, essere più preparati di altri, più forti.
Francesco (Picucci) dice che spesso è questione di relativizzare, di modificare il contesto: come l’albatro di Baudelaire, fuori dalla piscina il disabile è lui, in acqua i disabili sono gli altri… e i ruoli si invertono, gli occhi con cui gli altri ti guardano diventano, improvvisamente, occhi e sguardi diversi.
Gianna (Maschiti) dice che a 20 anni ha rifiutato l’arto artificiale, perché «non le sarebbe servito»: quell’arto non era lei, non avrebbe aggiunto nulla a ciò che lei già sapeva fare con una sola mano; e quel fare non è il volere a tutti i costi essere come gli altri, quanto, piuttosto, dovere fare ciò che la vita ti richiede («se non mi porto le borse della spesa, non mangio»).
Dobbiamo, quindi, riflettere sul concetto di “sguardo”, su come gli altri ci vedono e su tutto ciò che facciamo e abbiamo fatto per permettere al mondo di vederci normali (noi sappiamo già di esserlo; quantomeno, sappiamo di non essere meno normali di quanto lo sia chiunque: sono gli altri a doverlo capire).
In base alla tua esperienza personale e professionale, come giudichi il modo in cui i servizi sanitari trattano e curano le disabilità?
Per quanto riguarda la mia esperienza di disabile, non ho molto da dire: non ho mai utilizzato protesi e non ho mai avuto necessità di cure specifiche.
Ricordo però – e la mia mamma porta scolpito nella mente, più di me, questo fatto – che durante nessuna delle visite a cui fui sottoposta da bambina e poi da adolescente – i miei mi portarono alcune volte a visita nella speranza che «si potesse in qualche modo attenuare la mia menomazione» – venne menzionata la parola talidomide: le ipotesi per spiegare la causa della malformazione furono le più disparate, dalla placenta arrotolata attorno alla mano fino agli esperimenti nucleari, ma nessuno – e dico proprio nessun medico interpellato – parlò mai del farmaco.
Per quanto riguarda, invece, la mia esperienza professionale (sono stata anche insegnante specializzata sul sostegno per dieci anni), posso dire che le leggi ci sono e sono anche ben fatte (la Legge 104 è stata certamente un caposaldo); tuttavia, si scontrano con la carenza di personale. Le ASL sono oberate, ogni specialista segue molti bambini/ragazzi e difficilmente riesce a dedicare a ognuno il tempo necessario (soprattutto se parliamo di supporto psicologico e psichiatrico) e, soprattutto, non riesce a interfacciarsi adeguatamente con la scuola e questo è un vero peccato.
In base alla tua esperienza personale e nelle scuole, quante sofferenze inutili si eviterebbero riconoscendo apertamente che la normalità è un inganno?
Se penso ai momenti di maggiore sofferenza nella mia vita, so che non devo guardare a ciò che non ho potuto fare, perché io sono nata senza una mano e, per me, la normalità è essere senza una mano; non credo di avere rinunciato a essere qualcosa o qualcuno di diverso da ciò che sono a causa della mia menomazione: semplicemente ho fatto i conti con ciò che avevo (come una persona di altezza non significativa non avrà probabilmente mai preso in considerazione di fare il corazziere, senza tuttavia soffrirne).
Quindi la sofferenza da cosa è stata prodotta? Direi dalle situazioni di imbarazzo degli altri: da chi ha fatto un salto indietro stringendomi la mano durante una presentazione, da chi mi ha guardato smarrito e ha cercato di girarmi al largo, da chi non sapeva dove posare lo sguardo e, inevitabilmente, finiva col guardare proprio dove non avrebbe voluto.
E, ovviamente, dai rapporti con l’altro sesso. Soprattutto da ragazzi, da adolescenti sono certa che si vivano le sofferenze più grandi, i rifiuti, le inadeguatezze, il non sentirsi “visti”, il non poter neanche pensare di essere presi in considerazione (chi si metterebbe con una/uno come me?)... Accedi per continuare la lettura
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