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Matteo Borri, Storia della malattia di Alzheimer, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 184, carta 16,00 euro, e-book 12,00.

«Il libro di Borri è uno di quelli che costringono a riflettere, a confrontarsi con idee nuove, a leggere altri libri, a cercare nuovi documenti; serve anche a tenerci lontani da quella che Galilei chiamava ‘la vana presunzione di intendere tutto’»

Paolo Rossi

Una prefazione, una garanzia

La Storia della malattia di Alzheimer di Matteo Borri, ricercatore dell’Università di Ginevra, rappresenta un capitolo decisivo della storia delle neuroscienze e delle patologie mentali. Il tutoraggio sul lavoro di Borri compiuto dal compianto grande filosofo e storico della scienza, Paolo Rossi, e l’autorevole e benevola presentazione al volume da parte di quest’ultimo (uno degli ultimi suoi scritti) rappresentano una garanzia inossidabile sulla qualità del lavoro che abbiamo davanti. E’ proprio Paolo Rossi che, caratterizzando il campo della storia della scienza, ci fa prendere le distanze dai falsi storici della scienza, quelli improvvisati che si sentono autorizzati a parlare in «senso cronologico» delle scoperte individuabili nella propria disciplina, magari praticata professionalmente dagli stessi per decenni. Sono questi autori che spesso ci rappresentano una concezione troppo lineare del progresso e ignorano invece teorie e posizioni superate considerandole, come osserva Kuhn, «un bagaglio eccedente, un peso inutile», ottenendo così il risultato aberrante della svalutazione della storia o, nel migliore dei casi, della creazione di un baratro invalicabile tra la storia (la semplice memoria) e la ‘filosofia’ della scienza, quella che secondo Cartesio consente di «portare un giudizio sicuro su un problema determinato». Non è certo il caso dell’opera di Borri, che convenientemente valorizza le dispute, le discussioni, le comunicazioni tra gli studiosi e gli equivoci che talora le hanno accompagnate. Nella presentazione del libro Paolo Rossi sintetizza in maniera mirabile la sua ricerca di decenni in questi campi della scienza e offre il giusto viatico alla lettura e poi alla comprensione degli argomenti, complessi ed articolati, che il lettore si troverà ad affrontare.

Il volume

Borri dichiara e assume la convinzione che, a oltre cento anni dal lavoro di Alzheimer, per questa multiforme condizione di demenza più o meno senile non c'è una etiologia ben definita, una cura efficace, e neppure dei dati epidemiologici esaurienti. Ma questa convinzione non rappresenta un ostacolo alla sua ricerca i cui risultati ci vengono presentati in quattro tempi.

Trovare

Il capitolo «Trovare» presenta la microstoria del lavoro di Aloysius 'Alois' Alzheimer (1864-1915), rispettoso dei malati mentali più di quanto si possa pensare, a partire dal famoso caso della signora Auguste D., moglie di un impiegato delle ferrovie, divenuta nel 1901 sua paziente nella clinica di Francoforte sul Meno; paziente che continuerà a seguire sino alla morte, avvenuta dopo cinque anni, eseguendone l'autopsia, anche quando si sposta a Monaco. Alzheimer, con grande abilità sia clinica sia patologica mette in relazione i “sintomi” della paziente con i “segni” descritti esaminando il suo cervello (osservando sostanzialmente la degenerazione delle neurofibrille e le già note placche senili) operando nella tradizione scientifica della autorevole scuola di “psichiatria biologica” tedesca dell’epoca che già tanti risultati aveva ottenuto correlando le strutture della corteccia cerebrale ad alcune facoltà psichiche. Immediatamente la sua comunicazione del 1906 sul caso “insolito” non desta clamore, anzi risulta contrastata in qualche modo dalle posizioni “psicologiche” sostenute da Jung e da altri precoci freudiani. Alzheimer stesso, ma anche un gruppo di suoi collaboratori tra i quali il friulano Gaetano Perusini (1879-1915) ed il siciliano di nascita Francesco Bonfiglio (1883-1966) lavorano alacremente e nel giro di pochi anni aumentano la casistica predisponendo risposte adeguate alle domande che meccanicamente, a cascata, vengono poste su quella forma di demenza.

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Cercare

Questo capitolo, il più ricco ed innovativo per le finalità epistemiologiche espressamente perseguite dall’autore, prende in esame aspetti della macrostoria del pensiero psichiatrico e delle metodologie di indagine messe in atto dalla rigogliosa comunità scientifica neuro psichiatrica, positivista nelle fondamenta, della quale il medico tedesco fa parte. In un tale contesto si colloca la decisione, in un certo senso audace e comunque gravida di conseguenze, del leader indiscusso del gruppo, Emil Kraepelin (1856-1926), di coniare ed inserire nel secondo volume dell'ottava edizione del suo fortunato manuale (Psyichiatrie. Eine lehrbuch fur studierende und aerzte, Barth, Leipzig 1910) l'espressione «Alzheimerische Krankheit». A pagina 624 si legge: «Alzheimer ha descritto un singolare gruppo di casi con gravissime alterazione delle cellule»; si tratta della descrizione dei casi di Auguste D. pubblicato nel 1907 e di nuovo da Perusini nel 1909, di altri tre casi di Perusini ed inoltre di altri singoli casi di Bonfiglio e Sartechi. Sono i dati clinici, compreso il criterio temporale della sua insorgenza nel periodo presenile che, associati a quelli patologici, secondo Kraepelin, non possono non generare un netto e discriminante effetto nosologico.

Comunicare

Il capitolo «Comunicare» presenta alcuni tra i più importanti percorsi di quel processo di “giustificazione” che ha contribuito ad una sempre più precisa visione della malattia di Alzheimer. Un primo percorso, veramente originale e, per alcuni aspetti inatteso, riguarda il contributo degli studiosi che in Italia si occupano con particolare attenzione , precocemente e di più dagli anni Venti, di questa malattia, anzi della malattia di Alzheimer-Perusini. Si tratta di contributi costituiti da studi analitici, casi clinici, e di sintesi teoriche presentare nei manuali di psichiatria e quindi dall’interpretazione dei dati e dalla caratterizzazione nosografica. Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ugo Cerletti (1877-1963), che ha realizzato oltre che l’elettroshock anche tanti importanti studi neuropsichiatrici con un grande numero di allievi e collaboratori. Un percorso decisivo nella “giustificazione” della malattia di Alzheimer è ciò che, sempre più dopo gli anni ’50, diviene il punto di riferimento “obbligatorio” per la psichiatria internazionale, e cioè il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). La demenza “tipo Alzheimer” viene descritta attraverso il concetto base delle età di insorgenza (precoce-tardiva) e tramite le evidenze dei deficit cognitivi. Fra questi un significato particolare hanno avuto i disturbi linguistici, perpetuando, nella sostanza, l'idea di fondo assunta nell'Ottocento che una malattia della mente è sempre una malattia del cervello.

Casi clinici      

Il capitolo «Casi clinici ricerche in laboratorio e domande ancora aperte: bastava leggere?» sintetizza la storia della malattia di Alzheimer come un insieme di storie intrecciate con i primi risultati ottenuti da Alzheimer. L’ipotesi che viene sostanziata è quella che la natura della malattia mentale possa essere compresa correlando i sintomi della demenza con le caratteristiche del tessuto cerebrale. Un'ottica centrata quindi sulla malattia che, come giustamente discute Borri, non fa superare il rischio di dimenticare il malato. E’ con il passare degli anni e con l’invecchiamento della popolazione che l'attenzione viene attratta necessariamente dalla sofferenza dell'individuo in situazione di demenza e dalle strategie per accompagnare un suo percorso di vita che abbia caratteristiche di “serena saggezza” che, come ricorda Borri, Cicerone raccomandava di mettere in atto nel periodo dell’invecchiamento. Ma gli intoppi che si incontrano su questa strada, come è noto, sono tanti e molto differenziati da individuo ad individuo e da realtà a realtà e fanno spostare attenzione ed interessi sulla “gestione” dell’Alzheimer. E’ giusto ciò che dice alla fine della sua presentazione Paolo Rossi:

«il libro di Borri è uno di quelli che costringono a riflettere, a confrontarsi con idee nuove, a leggere altri libri, a cercare nuovi documenti; serve anche a tenerci lontani da quella che Galilei chiamava “la vana presunzione di intendere tutto».

 E’ da dire tuttavia che le domande di fondo che sorgono immediatamente dalla lettura del volume, «cosa aveva realmente osservato Alzheimer?», «Si trattava davvero di una malattia insolita?», ricevono nel libro risposte articolate, discorsive, abbastanza soddisfacenti. Impariamo a non considerare la malattia di Alzheimer come un sistema chiuso, un sapere maturo e concluso, ma un processo conoscitivo aperto, «oscillando sempre fra numerosi fattori, funzionali, anatomici e biochimici, e intersecandoli in forme molteplici, come ogni singolo caso ha dimostrato». Borri per sua convinzione ma anche per soddisfare con parole e concetti più semplici i suoi lettori cita due contributi di ricercatori contemporanei che vale la pena riproporre:

«Il costante incremento di conoscenze sulla malattia, sulle diverse manifestazioni sia cliniche che anatomopatologiche sui meccanismi patogenetici e sul ruolo dei fattori genetici fa emergere con sempre maggior chiarezza l'esistenza di un'eterogeneità che può contemplare la presenza di varianti della malattia di Alzheimer e di forme a sé stanti».
Laura Bracco e Carolina Piccini, La malattia di Alzheimer, in: Marco Trabucchi, a cura di, Le demenze, UTET, Torino 2005, pp. 221-24.

La seconda citazione, illuminante, pragmatica almeno, come vuole essere l’autore, utile per contrastare o ridimensionare un mito creato dalla nostra cultura nel tentativo di ignorare un processo naturale, l’invecchiamento cerebrale è la seguente, recita:

«... pochi credono che l'Alzheimer sia una malattia, un processo o una condizione precisa, e molti credono, come lo credo io, che l'Alzheimer sia un'etichetta generica che comprende molti dei processi del normale invecchiamento cerebrale. L'invecchiamento cerebrale è causato dall'interazione di fattori genetici, ambientali e comportamentali. Quindi la traiettoria delle diverse persone lungo il continuum dell'invecchiamento cerebrale varia enormemente». Peter Whitehouse, “Il mito dell’Alzheimer”, Quello che non sai sulla malattia più temuta del nostro tempo, Cairoeditore, Milano 2011, pag.113.

Parole e concetti, questi, che a ben vedere rimandano all’origine di tutta la storia quando (lo sottolinea la monografia su Alzeimer uomo e scienziato più completa, ma tradizionale, secondo i criteri di Paolo Rossi) all’epoca della sua scoperta, è lo stesso Alzheimer, in un eccezionale lavoro del 1911, a sentire l’obbligo morale e scientifico di scrivere:

«Allora si impone la domanda, se questi casi da me considerati singolari mostrino ancora segni caratteristici sotto l'aspetto clinico e istologico che li distinguano dalla demenza senile, oppure se li si debba attribuire a essa»

Konrad Maurer e Ulrike Maurer, Alzheimer, La vita di un medico, la carriera di una malattia, Manifestolibri, Roma 1999, ristampato nel 2012, pag. 252).

Cosa dice questo libro agli epidemiologi di oggi?

Forse, questo è però solo un dubbio personale, di queste considerazioni nuove e vecchie non riesce a tener conto, almeno in pieno, l’epidemiologia descrittiva ufficiale e tanto meno, almeno quando esprimono conoscenze epidemiologiche, le molte associazioni internazionali e locali che a vario titolo, alle volte proficuamente in carenze di altre iniziative pubbliche, organizzano la “cura” delle quale necessitano i “malati di Alzheimer”.

Epicentro, il portale dell'epidemiologia per la sanità pubblica, fornisce, tra le altre, le seguenti informazioni, sicuramente utili ma anche meritevoli di chiarimenti e interpretazioni adeguate se si vuole che effettivamente possano essere in qualche modo utilizzate per la “prevenzione” e per la “terapia”:

«La demenza di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500 mila ammalati». «La campagna di sensibilizzazione ‘I volti della demenza’ è l’iniziativa condivisa da tutti i Paesi che partecipano alla XVIII Giornata mondiale Alzheimer, celebrata il 21 settembre. Tre quarti dei 36 milioni di persone nel mondo che si stimano vittime di questa malattia degenerativa non ricevono una diagnosi, spesso come risultato del falso convincimento che la demenza faccia parte del normale invecchiamento e che non ci sia nulla da fare. Lo afferma il rapporto mondiale Alzheimer 2011, intitolato ‘I benefici di diagnosi e interventi tempestivi’, diffuso dall’Alzheimer’s Disease International, l’Alzheimer’s Association Usa e la Federazione Alzheimer Italia. Il rapporto raccomanda ai governi di tutto il mondo di realizzare una propria strategia nazionale sulla demenza che promuova diagnosi e interventi tempestivi. Anche presso l’Istituto Superiore della Sanità sono in corso numerose attività che vanno dalla valutazione critica degli studi epidemiologici finora condotti all’identificazione delle migliori pratiche assistenziali rivolte ai pazienti con demenza che vivono a casa e nelle strutture per lungodegenti, passando per gli strumenti di diagnosi precoce. Epicentro continuerà a seguire questi temi per contribuire a mettere a fuoco le evidenze già acquisite e le problematiche ancora aperte.» (aggiornamento del 22 settembre 2011, “Più tempestivi contro l’Alzheimer”, consultato in rete il 17 aprile 2012)    

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