Nella recensione del libro dell’economista William Nordhaus, uno dei maggiori esperti di cambiamento climatico, il premio Nobel Paul Krugman si interroga sui motivi per cui il cambiamento climatico, nella sua drammaticità, non venga preso abbastanza sul serio dai politici.1 Benché Krugman si riferisca agli Stati Uniti, la sua analisi ha certamente un valore universale e invita a profonde riflessioni politiche. «Perché potenti individui e organizzazioni si oppongono così strenuamente a un pericolo così chiaro e attuale?» Krugman si sofferma su tre spiegazioni.

La prima è il puro e semplice interesse economico. Questo ha a che fare almeno in parte con i meccanismi della politica americana, dove le attività di lobbying sono la norma e, anzi, istituzionalizzate – il che ovviamente favorisce le grandi industrie rispetto a qualunque gruppo ecologista o di scienziati illuminati.

La seconda ragione, secondo Krugman, è il mito del libero mercato. Come dice Nordhaus, è del tutto impensabile che il mercato da solo possa risolvere l’ingravescente problema del cambiamento climatico. Come mostra la figura, non si tratta solamente del cambiamento del clima, ma di quello che McMichael ha chiamato il Planetary overload, il sovraccarico del pianeta: la figura mostra che per sostenere il carico di attività produttive attuale avremmo bisogno di «un pianeta e mezzo». Che in questo caso il mercato non sia sufficiente rientra nei principi di base dell’economia insegnata al primo anno di Università, ma sostenerlo in altri ambienti è oggi molto spesso considerato un’eresia.

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Il terzo motivo per cui, secondo Krugman, negli Stati Uniti domina il “negazionismo” è forse il più preoccupante, cioè la diffusa diffidenza nei confronti del metodo scientifico; diffidenza che Krugman identifica principalmente con la destra, il Partito Repubblicano e i Tea Party, ma che da noi sembra coprire quasi l’intero arco politico. Pare che da alcuni sondaggi la grande maggioranza degli elettori repubblicani non creda nella teoria dell’evoluzione. Sulla base degli stessi assiomi (la sfiducia nel metodo scientifico) viene liquidata l’opinione relativa al cambiamento climatico (che viene attribuita a lobby di intellettuali radicali).

La “cultura della prova”, parte integrante del metodo scientifico, ma anche di una certa razionalità politica, sembra scarseggiare ben al di là dei repubblicani americani. Si pensi alla disastrosa idea per cui i vaccini fanno male alla salute (in Inghilterra la teoria di Wakefield – falsa e affetta da conflitti di interesse – secondo cui il vaccino trivalente fa venire l’autismo ha drasticamente abbassato la copertura vaccinale nella periferia di Londra).

Anche da noi le sorprendenti (e reiterate) dichiarazioni di un illustre matematico secondo cui l’esistenza dei campi di concentramento è solo un’opinione diffusa dagli alleati dimostra come padroneggiare il concetto di prova logica (matematica) non si accompagni necessariamente alla comprensione del concetto di prova empirica. Questo terzo motivo alla base del negazionismo del cambiamento climatico, cioè la diffidenza verso la prova scientifica, è forse il più dannoso e difficile da sradicare, dato che si manifesta, seppure in forme diverse, sia a destra sia a sinistra (o almeno in alcuni dei movimenti di dissidenza che stanno nascendo in tutta Europa, difficili da classificare secondo le abituali categorie). Il fatto di non poter ancorare almeno in parte la discussione politica a qualcosa che assomigli a un “fatto”, categoria a cui il cambiamento climatico indubbiamente appartiene, rende il dibattito politico sterile, persino con l’aiuto della deleteria idea di par condicio.

Una risposta per gli epidemiologi

In un recente articolo, anche Tony McMichael2 si chiede quali siano gli impedimenti a una ricerca sufficientemente comprensiva sui rapporti tra cambiamento climatico e salute. La sua diagnosi riguarda soprattutto la metodologia e, marginalmente, la politica, e si incentra sulla prospettiva a suo avviso piuttosto limitata dell’epidemiologia attuale, che cerca di frazionare il campo di ricerca in alcuni temi semplici e conosciuti (la malattie trasmesse da vettori, le ondate di calore eccetera), secondo lo schema dell’ubriaco che cerca le chiavi di casa sotto il lampione perché lì c’è luce. Secondo McMichael, gli epidemiologi dovrebbero imparare dagli storici e avere una visione molto più ampia e complessa dei fenomeni sanitari.

Per lo storico Geoffrey Parker, molti degli eventi storici europei della seconda metà del Seicento, guerra dei trent’anni (1618-1648) compresa, sarebbero riconducibili almeno in parte a un raffreddamento del pianeta verificatosi tra il 1570 e il 1650. Benché la prova a me paia piuttosto tenue (ovviamente viene naturale pensare a confondimenti o anche solo a coincidenze), McMichael porta diversi altri esempi di come il clima abbia influito su macroeventi storici e anche di come lo studio di queste relazioni debba necessariamente uscire dalle semplificazioni degli studi epidemiologici incentrati su singoli agenti e singole esposizioni.

Bibliografia

  1. Krugman P. Gambling with civilation. The New York Review of Books, 07.11.2013. Disponibile all’indirizzo: http://www.nybooks.com/articles/archives/2013/nov/07/climate-change-gambling-civilization/
  2. McMichael AJ. Impediments to comprehensive research on climate change and health. Int J Environ Res Public Health 2013;10(11):6096-105.

 

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