Negli ultimi due decenni il tema delle differenze di genere nel mondo del lavoro è diventato sempre più attuale grazie a una rivisitazione culturale di ampio respiro che ha interessato ambiti scientifici, istanze sociali e politiche comunitarie. In Italia, dove il progressivo aumento della forza lavoro femminile non si è accompagnato a un meccanismo di integrazione in grado di ridurre le disuguaglianze e di favorire un più equo accesso per tutti/e alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro,1 le donne hanno ancora stipendi più bassi, tassi di disoccupazione più alti, hanno più frequentemente contratti part-time, ricoprono posizioni precarie e al di sotto dei loro livelli di istruzione e rischiano la perdita del posto di lavoro nel momento in cui con la nascita dei figli si acuiscono le difficoltà di conciliare la vita privata con quella lavorativa.2 Discriminazioni dirette e indirette sono ben documentate non solo nei Paesi dell’area mediterranea, ma anche nei Paesi del Nord Europa, negli Stati Uniti d’America, oltre che nei Paesi in via di sviluppo. Tali disparità derivano sia da fenomeni sociali segregativi, sia dalla differente suscettibilità biologica (per esempio funzionalità di organo, attività metabolica, fisiologia, resilienza psichica), per cui uomini e donne si ammalano diversamente quand’anche esposti alle stesse categorie di rischio, come risulta dall’analisi dei dati INAIL per casi denunciati e riconosciuti di malattie professionali. L'organizzazione del lavoro, nata e pensata da sempre al maschile, segue modelli non adeguati alle differenti esigenze del ciclo di vita femminile e le misure di prevenzione e protezione disegnate a partire dal lavoratore maschio non riescono a tutelare un principio di equità in tema di salute e sicurezza.3 Con la pubblicazione del D.Lgs... Accedi per continuare la lettura

 

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