Il 15 settembre 1964, alla XXVII edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea-La Biennale, viene eseguita per la prima volta pubblicamente La fabbrica illuminata del compositore veneziano Luigi Nono. L’opera, della durata di circa 17 minuti, è dedicata agli operai della Italsider-Cornigliano, dove sono state registrate le voci, le locuzioni gergali, le conversazioni all’ora di pranzo degli operai e i rumori delle macchine colti seguendo il ciclo di produzione dell’acciaio. 

Nel comporre l’opera, Luigi Nono resterà particolarmente colpito dalla “violenza della realtà delle complesse condizioni dei lavoratori in quei luoghi”, che metterà in luce sottolineando i rischi a cui gli operai sottopongono la loro vita tutti i giorni in fabbrica, vista soprattutto come un luogo di morte e di perdita.

L’opera di Nono e, più in generale, la manifestazione veneziana ebbero grande successo di pubblico e anche di critica: se da un lato gli operai rimasero impressionati dalla potenza di quanto poterono ascoltare, percependo concretamente il rischio a cui andavano incontro ogni giorno nei loro ambienti di lavoro, dall’altra dimostrarono la loro vicinanza e sensibilità sul tema molti intellettuali della sinistra italiana, allora politicamente autorevole e impegnata. 

Luigi Nono considerava se stesso un “rivoluzionario professionale”, in grado di lasciare un segno col suo lavoro di musicista e di intellettuale. La sua attività non è estranea al clima di grande dibattito di allora, sorto a partire dagli anni Cinquanta, che ha visto protagonisti molti intellettuali, industriali e scrittori che provarono a raccontare il mondo degli operai, seppur talvolta più con simpatia nei loro confronti che non con un reale intento di denuncia.

Il lavoro di Luigi Nono si distinse per originalità e rappresentò un deciso avanzamento e rinnovamento nel modo in cui gli intellettuali si sono rapportati ai lavoratori e alle fabbriche. 

Anche se forse non più attuale, questa storia costituisce ancora una provocazione, invitandoci a ripensare al rapporto tra intellettuali e lavoratori come a un terreno di incontro fertile e non di scontro di due mondi per forza distinti.

 

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