Intervista a Cecilia Francini, Medico di famiglia presso la “Casa della Salute” delle Piagge, quartiere popolare di Firenze, sulla riva destra dell'Arno

 

Com’è iniziata l’esperienza delle Piagge?

Ci siamo inseriti nella Casa delle Piagge a gennaio 2020, appena prima della pandemia. Una scelta che deriva dall’impegno nella campagna “Primary Care Now or Never”, in un quartiere con forbice sociale alta. Questa esperienza, che ha un buon finanziamento ed è mantenuta con politiche comunali lungimiranti, nacque negli anni Novanta anche per rivitalizzare il territorio. È una struttura complessa che segue la normativa regionale e offre un buon numero di servizi con i quali ci siamo messi in relazione. Le interazioni hanno generato a cascata benefici su tutte le prestazioni: vaccinazioni, consultorio, fisioterapia, salute mentale. Abbiamo anche un centro diurno e una RSA. La Casa copre l’intera sfera sociale e sanitaria dei bisogni e, grazie alla caratteristica di militanza, ci sono anche associazioni che ci orientano in un quadro di problematiche molto ampio. È previsto uno sportello per il lavoro. Abbiamo una mediazione linguistica dell’ASL e sportelli che si occupano di rifugiati e richiedenti asilo. Abbiamo scelto questa Casa e questo quartiere con l’idea di sperimentare i principi della comprehensive primary care: radicamento al territorio, multidisciplinarietà, costruzione della salute dal basso.

Come ha influito il COVID-19 sulla vostra esperienza?

Come medici di famiglia, ci siamo subito resi conto che la Casa era un vantaggio: avevamo i DPI prima, perché eravamo all’interno di una ASL; non abbiamo dovuto risistemare gli spazi, perché se ne sono occupati gli infermieri; siamo stati fra i primi ad attuare le indicazioni dei DPCM. Si è lavorato di notte per essere agibili il giorno successivo, ma c’è stato un gran lavoro di tutte le figure professionali. Siamo stati sempre aperti, anche per situazioni gravi. Avevamo la fortuna di poter accogliere le persone in un ambiente bello, spazioso, a norma: questo ha generato sicurezza. È stato stressante, però il lavoro di gruppo, multidisciplinare ha funzionato. È iniziato con il COVID-19 per una migliore organizzazione della medicina generale, ma proseguiremo con questa modalità anche fuori dalla pandemia. Ogni paziente ha il suo medico di riferimento, però sa che nella Casa trova sempre qualcuno. Abbiamo deciso di fare turni quando abbiamo visto le persone cercarci per le urgenze: abbiamo avuto donne in gravidanza con infezioni che non riguardavano il COVID-19 e anziani con malori. Parliamo di urgenze relative, trattabili in medicina generale, ma che, se non trattate, finiscono in pronto soccorso: una colica, una piccola ferita, un paziente cronico o diabetico scompensato o da reidratare. Inoltre, abbiamo coordinato il lavoro con infermieri e psichiatri su situazioni di presa in carico cronica e sociale. Il COVID-19 ha imposto di ottimizzare ogni risorsa e abbiamo iniziato a lavorare in squadra: se andavo a fare una visita domiciliare, non c’era bisogno che ci andassero gli infermieri e magari davo anche un’occhiata a una ferita. Se, invece, ci andava un infermiere, poi riferiva se la persona aveva dolore, se assumeva e sosteneva i farmaci. Si ottimizzano risorse e tempi, con maggiore efficacia anche sui pazienti gestiti in gruppo.  
È rimasta anche l’abitudine di fare riunioni allargate: sono utili e risolutive non solo nell’emergenza. Abbiamo mantenuto tavoli multidisciplinari settimanali con gli infermieri domiciliari, mensili con gli infermieri e i servizi sociali e con infermieri, servizi sociali e psichiatria. Tutte le settimane abbiamo riunioni cadenzate con lo staff della Casa. Ci aiuta a elaborare progetti individualizzati ottimizzando le risorse. 
Come i tavoli di lavoro e la gestione delle urgenze, i progetti individuali sono un lascito del COVID-19. Grazie alla spinta della psichiatria e al contributo dei tirocinanti, abbiamo organizzato una mappatura dei pazienti fragili ai quali abbiamo assegnato categorie di rischio con criteri medici e sociali. Abbiamo definito codici e richiamato anche chi non aveva problemi sanitari gravi, ma magari viveva solo. Fin da quando siamo arrivati, abbiamo indagato carenze e risorse cercando il contatto con gli abitanti e le associazioni che sono di grande sostegno e con le quali abbiamo legami importanti, tanto che partecipano ai tavoli di lavoro. Chiedevamo se qualcuno volesse mobilitarsi per dare una mano al quartiere e alla Casa e in tanti si sono resi disponibili. I ragazzi del liceo andavano in bicicletta a portare le medicine agli anziani. Altri accompagnavano i pazienti a fare visite specialistiche. Qualcuno si è messo a cucinare. Abbiamo avuto risposte sorprendenti che ci hanno fatto sentire vicini alla comunità.

Quanto è ripetibile un’esperienza come le Piagge su dimensioni maggiori?

Non siamo una struttura piccola: abbiamo un’utenza di 6.000 persone dirette dalla Casa, ma di oltre 30.000 nel territorio. Ci aiuta un front office per il pre-triage di medicina, al quale deleghiamo il lavoro di segreteria, che non è solo burocratico, ma anche di accoglienza, fatto da una professionista che ci permette di chiarire i bisogni dei pazienti che arrivano da noi dopo aver risolto i problemi extra-sanitari. Abbiamo un 30% di stranieri con difficoltà linguistiche. Arrivano in segreteria dove la nostra collaboratrice percepisce i bisogni, li rielabora e li indirizza sui percorsi della Casa. È un triage basato sull’esigenza percepita, non sanitaria, però evita decine di chiamate solo per informazioni: un paio d’ore di lavoro in meno al giorno che guadagniamo per i tavoli e la programmazione. 
Questo modello funzionerebbe ovunque. Lavoriamo con una persona in segreteria e tre medici in servizio. Si riesce a operare su grossi numeri se c’è un buon front office. In segreteria arrivano chiamate di tutti i generi: come si attiva la DAD, come si fa la dichiarazione dei redditi, ma l’80% viene filtrato prima di arrivare al medico. Io ho quasi 1.400 pazienti. Lavoro tanto, però con funzionalità e soddisfazione. Il carico di lavoro è accettabile.
Non è questione di numeri, che abbiamo e affrontiamo. Dipende da come li si affronta allocando le risorse. Svincolare l’utenza di sanità mentale dai servizi sociali, per esempio, non aiuta. Noi, che lì dentro abbiamo una continuità naturale, dobbiamo fare i conti con una frammentazione preesistente. L’infermiere di famiglia che va per le strade, per esempio, ha dato una svolta al nostro lavoro ed è in linea con i principi della primary care, ha però utenze non sovrapponibili a quelle del medico della stessa struttura. Perché la scelta del medico di famiglia dipende da una libera scelta, l’infermiere invece è assegnato e questo complica le cose. 
Anche i servizi sociali sono frammentati e non tutti sono disponibili dentro la Casa. Ci sono pazienti assegnati a strutture dall’’altra parte di Firenze ed è difficile fare riunioni e organizzarsi, mentre funziona bene se si condividono gli utenti.

Il COVID-19 ha spinto le strutture sanitarie a incardinarsi gerarchicamente con episodi di censura: al contrario di quanto fate voi, le informazioni, anziché condivise, venivano nascoste.

Con il COVID-19, le complicazioni ci sono state per tutti, però – potrà sembrare strano – è stato un momento di grande creatività. La dirigenza è scomparsa, ci siamo trovati in condizioni di gravi difficoltà, ma anche di grande parità. Eravamo soli, senza pressione manageriale: avevano tutt’altro a cui pensare, avevano dimenticato il territorio. Dal basso, con l’infermiere che stava all’ingresso con l’OS, accanto al portiere, ci siamo rimboccati le maniche per trovare soluzioni che poi abbiamo sviluppato e condiviso. È stato tutto frutto di un processo di confronto obbligato, ma nato dal basso, e con un effetto benefico a catena; non ultimo, il fatto che la Casa delle Piagge abbia sentito la forza del proprio ruolo.

Questa esperienza dà l’idea di professionisti con grandi competenze o estremamente motivati.

Ha prevalso la componente motivazionale: siamo qui perché l’abbiamo voluto. Trovarsi a condividere un’esperienza di sanità territoriale fa una differenza abissale. Lavoriamo insieme anche perché sappiamo che in questo luogo ci sono persone dalle quali si acquisiscono competenze tutti i giorni. Abbiamo una visione collettiva e ci fidiamo l’una dell’altro. Rispetto a un anno fa, ora si fanno cento cose di più dal punto di vista della risolutività, perché lavoriamo in un luogo con tante risorse. Per esempio, durante il COVID-19, avere i dirigenti tecnici vicino ci permetteva di avere informazioni aggiornate sui DPCM. Se telefonava un paziente, bastava bussare alla loro porta e si aveva subito risposta. Quando non troviamo risorse dentro la Casa, ci rivolgiamo all’ASL, che ci ascolta, perché i nostri sono problemi di tutti. Abbiamo chiesto con forza, per esempio, di avere mezzi per risolvere alcune urgenze di base, dato che sappiamo che non è sempre necessario andare in pronto soccorso, ma occorre avere gli strumenti. Alla fine ce li hanno mandati, poiché costituiamo una grossa forza e qui abbiamo risolto molte situazioni. Non mi sarei mai immaginata così il mio lavoro, lo intuivo. Non si finisce mai, ma è bello. Anche gli utenti sono contenti e ci ringraziano. C’è un rapporto stretto con il quartiere. Non voglio dare un’immagine rosea: abbiamo avuto difficoltà enormi, ma erano condivise.

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