Impianti di produzione di elementi prefabbricati in cemento armato sono dislocati in tutto il territorio nazionale. Realizzano parti che, un po’ come i mattoncini Lego, vengono assemblati nei cantieri per costruire quei capannoni più o meno squadrati che accolgono centri commerciali, industrie e magazzini che costellano i nostri territori occupando via via i pochi terreni liberi tra un’area urbanizzata e l’altra. 

È un’attività apparentemente banale e “povera”, perché si tratta di riempire di cemento ancora liquido degli enormi stampi (casseforme) e poi aspettare che si asciughino (maturi il cemento). Ma la progettazione e la realizzazione implicano particolare attenzione e verifiche minuziose per garantire che i pezzi combacino tra loro, che resistano nel tempo e alle sollecitazioni (terremoti inclusi). Lo abbiamo visto nella tragedia del cantiere Esselunga di via dei Mariti a Firenze poco più di un anno fa, dove una trave di cemento armato in fase di posizionamento nel cantiere è collassata – probabilmente per difetti costruttivi e per modalità di movimentazione non corrette – uccidendo cinque lavoratori.

Qualche imprenditore pensa che, se si ha la ricetta giusta, chiunque può realizzare questi prodotti come in cucina, non ci sia più bisogno di un cuoco esperto e degli assistenti capaci e formati con l’esperienza. Il nostro imprenditore, dopo anni di produzione, ha deciso di affidare a un altro soggetto le attività di produzione diretta, mentre continua a occuparsi degli aspetti più “nobili”, la progettazione, la fornitura e la posa degli elementi nei cantieri.

Questa storia non parla di una tragedia come quella di via dei Mariti, ma della “banalità dell’errore”, dovuto a sottovalutazione, a una catena di carenze e all’assenza di criteri corretti nella valutazione e nella gestione dei rischi lavorativi da parte di più soggetti, in particolare il datore di lavoro appaltante (committente) e quello appaltatore. Una catena di errori che per poco non è costata la vita a un lavoratore.

La storia inizia quando la società A, nota per la produzione di elementi prefabbricati, decide di sottoscrivere con un appalto “endoaziendale” il lavoro “pesante” a un’impresa B che, poco dopo, diventa impresa C (poiché cambia ragione sociale, legale rappresentante ecc). 

Per realizzare gli elementi prefabbricati (in questo caso, un pilastro) occorre posizionare dei casseri, fino a costruire una cassaforma utilizzando elementi in metallo (sponde). Come se fossero mattoncini Lego, si mettono in fila le sponde, le si fissano tra loro con bulloni e si prosegue fino al completamento della forma. In quel momento, un operatore era tra le sponde, ovvero all’interno della forma che sarebbe diventata un pilastro, e procedeva al fissaggio delle stesse modificando il disegno di una trave già realizzata. Un altro lavoratore lo aiutava nella movimentazione di questi elementi di montaggio.

Per spostare le sponde, il secondo lavoratore utilizzava un carroponte (una gru che scorre orizzontalmente su un architrave dell’edificio, con un motore, delle funi e un gancio o altri sistemi per poter sollevare i carichi). Per poter sollevare il carico, occorre fissarlo bene al gancio, per questo si usano sistemi diversi (funi, catene, bilancieri, imbracature ecc).  

Nel nostro caso, si è verificata una sequenza di errori che poteva avere conseguenze più gravi della frattura di una gamba, che è ciò che è toccato a quel lavoratore.

Errori apparentemente umani, ma connessi a un’organizzazione lavorativa approssimativa che non può essere addebitata ai lavoratori.

Gli errori partono dal posizionare le sponde direttamente sul pavimento senza fissarle su telai, disponibili e come indicato dal fabbricante del sistema di produzione degli elementi prefabbricati. Una sponda pesa circa 500 kg, è alta 150 cm e larga 200 cm, ma la base di appoggio è di soli 16 centimetri. L’elevato peso tiene le sponde in posizione verticale letteralmente da sole, a meno che una forza sufficiente non le sbilanci e a quel punto nulla può arrestarne la caduta, fino a schiacciare una persona. Altro errore (impostazione sbagliata e in contrasto con le norme e le indicazioni dei fabbricanti delle macchine) è stato mantenere aperto il gancio bloccando la molletta di chiusura con del fil di ferro, come pure utilizzare uno spezzone di tondino di ferro a forma di S per collegare il gancio del carroponte alla sponda; ancora, il tondino a S non è stato agganciato a sua volta agli anelli di cui sono dotate le sponde, ma uno dei capi della S è stato inserito in un foro tra quelli presenti sulla superficie della sponda. Insomma, una movimentazione mal fatta, improvvisata, senza alcuna cura delle istruzioni dei fabbricanti (del carroponte e del sistema di casseforme), estremamente precaria. A questo si aggiunge la posizione dell’infortunato tra le due file di sponde in realizzazione, una posizione in cui non avrebbe potuto avere il tempo e lo spazio per allontanarsi. Situazione favorita dal fatto che nessun lavoratore (quasi tutti assunti da pochi mesi) aveva avuto un addestramento all’utilizzo del carroponte e alle diverse modalità di imbracatura e spostamento dei carichi. 

Il risultato? Subito dopo che il secondo lavoratore ha sollevato la sponda di 20/30 centimetri, mentre l’altro era a pochissima distanza, il tondino a S si deforma per lo sforzo, la sponda torna a terra, ma rimbalza sul pavimento e, data la larghezza ridotta della base, si inclina verso il primo lavoratore che non ha vie di fuga, finendo per essere investito dalla sponda che si ribalta schiacciandogli una gamba. Peraltro, l’infortunato verrà liberato a mano dai lavoratori accorsi che faranno leva per sollevare a sufficienza la sponda caduta, perché, nel susseguirsi caotico degli eventi, i comandi a pulsantiera del carroponte si sono danneggiati e non si poteva utilizzare il mezzo per reimbracare e risollevare la sponda.

Ci sono lezioni o indicazioni da ricavare da questa storia? Molti potrebbero rilevare la mancanza di formazione e l’assenza di un’adeguata cultura della sicurezza. Certamente, ma invocare questi fattori non solo è generico, ma tende anche a spostare sui lavoratori le responsabilità.

Qui eravamo in presenza di lavoratori letteralmente mandati allo sbaraglio che si arrangiavano a eseguire le attività che venivano loro richieste e non disponevano neppure di un preposto che effettuasse dei controlli e li guidasse.

Il tutto, condito da un’organizzazione lavorativa inesistente per quanto riguarda il datore di lavoro dell’infortunato e approssimativa – o solo formale – da parte del committente (proprietario dei luoghi di lavoro e delle attrezzature), con uno scambio di informazioni e di coordinamento tra loro del tutto inadeguato per dei lavoratori italiani, figuriamoci per stranieri con differenze culturali e gap linguistico e assunti da poco tempo. 

Se vi è stata una catena di errori che ha portato all’evento infortunistico, al termine dell’indagine è emersa una catena di responsabilità e di violazioni distribuite tra committente e appaltatore. 

Il committente ha pensato di poter appaltare i lavori senza ulteriori obblighi di sicurezza, come se anche questi venissero integralmente appaltati (scaricati) sull’altro datore di lavoro. Quest’ultimo era convinto che i lavori assegnati fossero semplici, che anche un extracomunitario da poco assunto e senza esperienza nel campo potesse fare, bastava seguire l’istinto e darsi da fare. Fare la fatica di addestrare i lavoratori all’uso dei mezzi di movimentazione e delle macchine mettendo anche a disposizione i manuali d’uso o almeno qualcuno che, leggendoli, potesse poi illustrare le modalità di utilizzo era considerato tempo perso, dato anche il frequente turn over dei lavoratori stessi. 

Per il resto, sperare che non succedesse nulla o, al più, essere pronti a pagare qualche indennizzo, oltre alle coperture Inail, per tacitare ogni eventuale causa grazie ai guadagni aggiuntivi dovuti alla mancata scrupolosa di attuazione degli obblighi di sicurezza dovuti da entrami, committente e appaltatore.

Un ultimo appunto, non secondario. L’infortunio è avvenuto nel tardo pomeriggio, oltre l’orario canonico dell’ente pubblico; l’intervento in “pronta disponibilità” ha permesso di effettuare accertamenti poco dopo l’infortunio quando la situazione era quasi identica al momento dell’evento. Viceversa, la difficoltà di ricostruire correttamente la dinamica dell’infortunio come anche ottenere delle testimonianze fresche in caso di intervento a giorni o settimane dall’evento determina spesso tempi più lunghi e un’alea di dubbio nei risultati. La prontezza dell’organo di vigilanza a intervenire nei casi di infortuni è il risultato delle scelte politiche e organizzative degli enti pubblici: un numero idoneo di personale di vigilanza, opportunamente formato, un numero adeguato di sedi territoriali dislocate in modo appropriato, sistemi di comunicazione e di recupero veloce dei dati necessari, all’interno dell’ente e dagli altri enti (polizia locale, carabinieri, Procura, ospedali) sono indispensabili per poter intervenire tempestivamente. 

Altrimenti, alla difficoltà di ricostruire compiutamente un evento e le relative responsabilità, si aggiungerà la difficoltà di ottenere giustizia per le vittime di infortuni: ogni dubbio sulla correlazione tra azioni (od omissioni) dei responsabili e l’evento infortunistico sarà utilizzato per negare o ridurre le responsabilità.

In molte Regioni, l’insieme delle condizioni che permettono interventi tempestivi in caso di infortunio si sta gradualmente indebolendo negli anni in nome della riduzione dei costi, con il conseguente effetto negativo anche nelle azioni di prevenzione in capo agli organi di vigilanza, aumentando la distanza e riducendo la capacità di rapporto con le rappresentanze dei lavoratori, impostazione originaria dei servizi di medicina del lavoro nella riforma sanitaria del 1978.

 

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