Riassunto

Fin dall’esordio della pandemia di COVID-19 è stato subito chiaro, come d’altro canto prevedibile, che gli operatori della sanità sarebbero stati la categoria lavorativa a pagarne i costi più alti, fisici e psicologici.

Fin dall’esordio della pandemia di COVID-19 è stato subito chiaro, come d’altro canto prevedibile, che gli operatori della sanità sarebbero stati la categoria lavorativa a pagarne i costi più alti, fisici e psicologici. L’Istituto superiore di sanità, nel suo ultimo rapporto del 12 settembre, ha stimato 31.395 operatori sanitari contagiati (11%) su un totale di 285.676.1 In aggiunta, l’Inail, nel suo ultimo rapporto del 12 giugno 2020, ha stimato che su 47.000 denunce di infortuni occupazionali da COVID-19 ben il 75,2% dei contagi sono avvenuti nel settore della sanità e assistenza sociale (ospedali, case di cura e di riposo, istituti, cliniche e policlinici universitari, residenze per anziani e disabili).2 L’analisi per professione metteva in evidenza la categoria dei tecnici della salute come quella più coinvolta da contagi, con il 41,3% delle denunce (più di tre quarti donne), circa l’84% delle quali relative a infermieri; seguivano gli operatori sociosanitari con il 21,5% (81,5% donne), i medici con l’11,0%, gli operatori socioassistenziali con l’8,3% e il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere) con il 4,8%. Gli infortuni con esito mortale erano 208, di cui il 29,5% nel settore della sanità e assistenza sociale. Rispetto alla professione, circa la metà dei decessi riguardava personale sanitario e socioassistenziale, nel quale le categorie più colpite erano quelle dei tecnici della salute (66% infermieri) con il 14,2%, dei medici con il 13,2% e degli operatori sociosanitari con il 9,4% dei decessi.
A questo proposito, bisogna ricordare che il rapporto Inail non considera gli operatori sanitari che svolgono attività non strettamente dipendente, come per esempio i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici competenti; questo avrebbe portato il numero e la percentuale dei decessi tra gli operatori sanitari a cifre ben superiori.
Senza sottovalutare altri settori e categorie lavorative a potenziale alto rischio, vogliamo qui riportare alcuni dati sulla diffusione dell’infezione negli operatori sanitari in Italia e, quindi, discutere alcuni punti di interesse ai fini della prevenzione e protezione della salute negli ambienti di lavoro.

Diffusione dell'infezione

Una nostra rapida ricerca non sistematica ha reperito 9 studi,3-11 5 dei quali inclusi in una metanalisi internazionale,12 che hanno valutato la frequenza di contagi nel personale sanitario, sia attraverso analisi RT-PCR su muco rino-orofaringeo sia attraverso dosaggio delle immunoglobuline (Ig) nel siero. La frequenza di lavoratori sanitari positivi è stata variabile: 0,4% a Bari (23 tamponi positivi su 5.750 testati),11 3,4% a Napoli (2 tamponi e 2 sierologici positivi su 115 testati),3 2,7% a Roma (58 tamponi positivi su 2.057 testati),5 5,3% a Padova (1 tampone e 6 sierologici positivi su 133 testati),10 9,6% a Torino (80 tamponi positivi su 830 testati).4 In Lombardia, la regione di gran lunga più colpita, la positività a Milano era pari all’8,8% (139 tamponi positivi su 1.573 testati) in un ospedale6 e 7,4% (185 tamponi positivi su 2.485 tamponi effettuati) in altri due ospedali,7 mentre era 8,6% a Brescia (5 positivi a tampone o sierologia su 58 testati in un’unità di otorinolaringoiatria).8
Ma il dato più impressionante viene da uno studio di sieroprevalenza effettuato in 7 ospedali del gruppo Humanitas: la positività delle IgG variava dal 3,0% al 3,9% nei due ospedali di Varese, dal 6,4% al 9,0% in tre sedi nell’area milanese, e arrivava a ben il 35,1% e 42,9% a Bergamo,9 la provincia maggiormente colpita in Lombardia (assieme a Brescia, Cremona e Lodi) di cui tutti ricordiamo le tragiche immagini dei primi mesi dell’epidemia. Tali dati sono coerenti con quanto riportato in un comunicato stampa dell’ATS Bergamo, che riportava un 30,6% di positivi al test sierologico in 3.185 operatori sanitari del territorio bergamasco.13
Se si eccettua l’area di Bergamo (e probabilmente poche altre aree), è evidente che anche in un settore considerato a elevato rischio nella regione di gran lunga più colpita (35,5% delle denunce di contagio sul lavoro e il 45,2% dei decessi),2 si era e si è ben lontani dall’immunità di gruppo tanto spesso evocata (e a volte invocata).

Prevenzione e diagnosi precoce

Il tampone rinofaringeo (se pur limitato, come ogni test, nella sua accuratezza diagnostica) risulta uno strumento fondamentale per il tracciamento e la gestione dei positivi a SARS-CoV-2 (sia sintomatici sia asintomatici),14 mentre lo stesso non si può dire dei test sierologici. Nel corso dell’epidemia, abbiamo assistito all’invocazione (anche tramite petizioni on-line) di test immunologici generalizzati,15 sull’onda dell’idea more is better (è sempre meglio un esame in più). È comprensibile questo atteggiamento (spesso in buona fede) da parte di molti, ma non è giustificato che a pensarla così fossero anche tecnici, esperti e politici che si occupano di sanità pubblica. A parte poche eccezioni,15 anche la grande stampa ha avuto il ruolo di favorire una certa confusione circa il ruolo e il senso dei vari test.
Si è addirittura arrivati a prefigurare il “patentino” di immunità basato sul test sierologico, un’idea di forte impatto mediatico, ma errata e fuorviante: in primo luogo perché, inducendo un falso senso di sicurezza, relegava in secondo piano la prevenzione; in secondo luogo, per il basso valore predittivo positivo in un contesto di bassa frequenza dell’infezione (vedi sopra), come ben argomentato nel position paper dell’AIE dello scorso aprile.16 In sostanza, fatte le dovute proporzioni, si è assistito alla riproposizione di un vecchio equivoco tra prevenzione primaria da un lato e prevenzione secondaria (sorveglianza sanitaria e diagnosi, precoce o meno) dall’altro. Ai lettori di questa rivista è ben chiara l’imprescindibilità della prima e il ruolo, sicuramente utile e fondamentale (soprattutto se tempestiva in questo contesto), ma integrativo e complementare della seconda. Questo vale per tutti i tipi di effetto, dai tumori alle malattie infettive.

Dispositivi di protezione individuali (dpi)

E veniamo al nodo dei DPI, che includono non solo le ormai famose mascherine, ma anche altri presidi quali occhiali, visiere, guanti, grembiuli. È chiaro i DPI che non sono e non devono essere l’unico presidio preventivo.17 In analogia con altre esposizioni ed effetti, c’è tutto un arco di azioni che possono e devono essere intraprese per limitare la diffusione del virus, che comprendono: interventi di formazione e informazione su come evitare il contagio, soprattutto in merito alle misure di igiene; variazioni a mansioni specifiche o procedure lavorative a maggior rischio (per esempio, impiego, ove applicabile, di una sola persona invece che due per una mansione); modifica delle vie di accesso/transito/stazionamento per lavoratori all’interno del luogo di lavoro per evitare il più possibile i contatti interpersonali; ventilazione e sanificazione degli ambienti di lavoro eccetera.
Mentre in un contesto industriale i DPI giocano un ruolo secondario rispetto all’impiantistica, nel caso del COVID-19 o altre malattie trasmissibili i DPI rappresentano un presidio preventivo con un ruolo importante. Purtroppo, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, in molti luoghi (ospedali, ambulatori, RSA) sono stati denunciati episodi di carenza di DPI idonei. I dati ufficiali al riguardo sono scarsi, ma molte sono le testimonianze di colleghi sulla penuria di questi dispositivi, almeno nelle prime fasi dell’epidemia. I piani pandemici (dove esistevano) sono in sostanza rimasti lettera morta.
Va anche rimarcato che la disponibilità dei DPI non è sufficiente: occorre che gli stessi vengano indossati e usati in maniera adeguata. Da qui, l’importanza della formazione continua sul corretto uso dei DPI da parte di personale preparato (per esempio riguardo alle manovre di vestizione e svestizione, non da tutti e non sempre effettuate in modo corretto).18
L’inadeguata protezione degli operatori sanitari è inammissibile per molteplici ragioni:

  1. come per le altre categorie di lavoratori, un’infezione tra gli operatori sanitari significa il rischio di infezione anche per tutti i loro contatti, familiari e non, ma soprattutto significa potenzialmente contagiare anche tutti i più fragili e vulnerabili che nella struttura sanitaria sono visitati o ricoverati;
  2. se si ammala chi ti deve curare, crolla il sistema sanitario;
  3. esporre a rischi per la salute un individuo per cui sussistono mezzi di protezione validi è eticamente inaccettabile. Tutto questo, purtroppo, si è verificato e gli operatori sanitari sono diventati, loro malgrado, eroi in prima linea. Questo sacrificio umano è ingiustificabile, e inaccettabile, e non dovrà più ripetersi.

Il futuro (non solo in sanità)

Dopo questa pandemia, il mondo e il mondo del lavoro non saranno più come prima, e anche la medicina del lavoro dovrà adeguarsi a mutate condizioni, come sempre nella storia ha fatto. Purtroppo, il ruolo fondamentale della medicina del lavoro nel prevenire epidemie non solo sul posto di lavoro, ma anche nella comunità, è scarsamente riconosciuto dalla sanità pubblica, come dimostrato dall’assenza di piani emergenziali specifici a livello legislativo. Eppure, dovrebbe essere lapalissiano: il posto di lavoro è il primo e più importante luogo di aggregazione sociale nella comunità; un lavoratore che si infetta è anche un cittadino che infetterà la comunità. Prevenire le infezioni occupazionali richiede un approccio coordinato e complesso, basato sulla collaborazione del medico del lavoro con il datore di lavoro e il servizio di prevenzione e protezione non solo nella scelta dei DPI più idonei, ma anche nell’implementazione di tutte le misure preventive (dalla sanificazione ambientale all’informazione e formazione dei dipendenti fino alla sorveglianza sanitaria) per il controllo delle infezioni. Inoltre, bisogna ricordare il ruolo fondamentale della sorveglianza sanitaria nella gestione delle ”idoneità complesse” in relazione alla presenza di lavoratori più fragili (per esempio, immunodepressi, pazienti oncologici), inclusi coloro con esiti di COVID-19.
La speranza è che questa emergenza collettiva mondiale stimoli una riflessione politica sulla necessità:

  1. di investire su un sistema sanitario pubblico a livello globale più forte e coordinato, dotato del personale necessario e dei mezzi di prevenzione adeguati, che possa far fronte a future potenziali sfide con elevati standard di qualità ed efficienza; gli indispensabili maggiori investimenti in sanità pubblica dovrebbero riguardare sia l'ambito ospedaliero sia, forse soprattutto, quello territoriale, che in alcune Regioni si è rivelato l’anello debole della rete socioassistenziale;
  2. di riconoscere il ruolo fondamentale della medicina del lavoro per la gestione di possibili nuove epidemie nella comunità;
  3. di predisporre piani e fondi per emergenze globali di questo tipo che supportino tempestivamente i Paesi colpiti per primi, al fine di evitare cosi la diffusione pandemica.

Dopo ogni crisi o si peggiora o si migliora; la pandemia di COVID-19 può essere l’occasione per tornare al ruolo fondamentale della sanità pubblica, in particolare sul territorio e in una prospettiva globale e non più solo locale.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Data di sottomissione: 16.09.2020
Data di accettazione: 15.10.2020

Bibliografia

  1. Istituto Superiore di Sanità. Dati della Sorveglianza integrata COVID-19 in Italia. Disponibile all’indirizzo: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-dashboard
  2. Inail. Covid-19, i contagi sul lavoro denunciati all’Inail sono 47mila. Online le schede regionali. Disponibile all’indirizzo: https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/news-ed-eventi/news/news-denunce-contagi-covid-31-maggio-2020.html
  3. Fusco FM, Pisaturo M, Iodice V et al. COVID-19 infections among healthcare workers in an infectious diseases specialized setting in Naples, Southern Italy: results of a cross-sectional surveillance study. J Hosp Infect 2020;105(4):596-600.
  4. Garzaro G, Clari M, Ciocan C et al. Covid-19 infection and diffusion among the healthcare workforce in a large university-hospital in northwest Italy. Med Lav 2020;111(3)184-94.
  5. Lahner E, Dilaghi E, Prestigiacomo C et al. Prevalence of SARS-Cov-2 infection in health workers (HWs) and diagnostic test performance: the experience of a teaching hospital in Central Italy. Int J Env Res Public Health Online 2020;17(12):4417.
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  9. Sandri MT, Azzolini E, Torri V et al. IgG serology in health care and administrative staff populations from 7 hospitals representative of different exposures to SARS-CoV-2 in Lombardy, Italy. medRxiv 2020. doi: https://doi.org/10.1101/2020.05.24.20111245
  10. Tosato F, Pellos M, Gallo N et al. Severe acute respiratory syndrome Coronavirus 2 serology in asymptomatic healthcare professionals: preliminary experience of a tertiary Italian academic center. medRxiv 2020. doi: https://doi.org/10.1101/2020.04.27.20073858
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  13. ATS Bergamo. Coronavirus: i dati dei test sierologici effettuati nella Bergamasca dal 23 aprile al 3 giugno. Disponibile all’indirizzo: http://www.ats-bg.it/upload/asl_bergamo/gestionedocumentale/CSATSBG2020-06-08coronavirusesitisierologici_784_31055.pdf
  14. Rivett L, Sridhar S, Sparkes D et al. Screening of healthcare workers for SARS-CoV-2 highlights the role of asymptomatic carriage in COVID-19 transmission. Elife 2020;9:e58728.
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  16. Associazione Italiana di Epidemiologia. Position paper: uso di test immunologici e indagine di sieroprevalenza. Disponibile all’indirizzo: https://www.epiprev.it/sites/default/file...
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