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Malattie Trasmissibili - 21/07/2021 11:41
“El COVID el ghé pü” ... “ma de bon?”
«Errare humanum est, perseverare diabolicum»; e, se all’inizio dell’estate scorsa ci fu chi disse che il virus non c’era praticamente più, molti si chiesero: «Ma davvero?». E se lo dissero in molti modi, anche nel mio dialetto, che è quello della campagna milanese, che dei guai del virus ne aveva visti molti prima di altri.
Queste furono le dichiarazioni dell’“archiatra” Zangrillo riportate il 31 maggio 2020 da alcuni giornali: «Lo dico consapevole del dramma che hanno vissuto i pazienti che non ce l’hanno fatta: non si può continuare a portare l’attenzione in modo ridicolo, come sta facendo la Grecia, sulla base di un terreno di ridicolaggine, che è quello che abbiamo impostato a livello di comitato scientifico nazionale e non solo, dando la parola non ai clinici e non ai virologi veri. Il virus dal punto di vista clinico non esiste più. Ci metto la firma».
Al 31 maggio 2020, quando Zangrillo dichiarò finita la gravità dell’epidemia, erano stati registrati 165.155 contagi e 21.645 decessi. Un anno dopo, il 31 maggio 2021, si aggiunsero 4.052.666 contagi e 104.483 decessi... un bel numero per un virus che dal punto di vista clinico non esisteva più!
Ma sembra impossibile che a più di un anno di distanza si ripeta una situazione abbastanza simile: è pur vero che oggi metà della popolazione ha completato il ciclo vaccinale, esattamente 27.120.766, ma consideriamo anche che di questi, per esempio secondo l’Istituto Superiore di Sanità (si veda l’aggiornamento al 14 luglio 2021), più dell’11% può ricontagiarsi, il 5,5% può essere ricoverato, il 2,7% finire in terapia intensiva e il 4,2 % potrebbe essere a rischio di morire se nuovamente contagiato.
Queste sono percentuali molto basse e dimostrano l’elevata efficacia della vaccinazione, ma, se rapportate all’intera popolazione dei vaccinati, le frequenze diventano importanti, come si può vedere applicando le percentuali di efficacia al totale dei vaccinati a ciclo completo:
Vaccinati |
Numero |
Efficacia (%) |
al 18 luglio 2021 |
27.120.766 |
|
a rischio nuovo contagio |
3.113.464 |
88,52 |
a rischio ospedalizzazione |
1.491.642 |
94,57 |
a rischio terapia intensiva |
732.261 |
97,30 |
a rischio decesso per COVID-19 |
1.139.072 |
95,80 |
L’atteggiamento diffuso che porta a pensare e a dire «Intanto io sono vaccinato» rischia di creare un numero elevato di persone che abbandonano ogni tipo di precauzione pensando di aver assunto uno scudo di invincibilità scalfibile nemmeno al tallone, come per Achille!
È chiaro che se un soggetto positivo in una popolazione di totalmente suscettibili ha la probabilità di contagiare altre 3 persone, in una popolazione di vaccinati questa probabilità scende all’88,52% e, se il numero dei vaccinati aumenta, il numero delle persone che potrebbero venir contagiate diminuisce sempre più. Ma oggi non siamo ancora in una situazione dove possiamo ritenere che questo rischio sia minimale.
Queste sono le incidenze e l’indice di replicazione diagnostica a domenica 18 luglio 2021.
Se continuassero a crescere i contagi raddoppiandosi ogni settimana, come attualmente avviene, a ferragosto avremmo circa cinquantamila positivi in più al giorno, come sta capitando in Inghilterra.
Oggi gli esiti dei contagi non sembrano drammatici, poiché sia i nuovi ricoverati in terapia intensiva sia i deceduti si aggirano sull’ordine della decina ogni giorno e la percentuale rispetto ai nuovi contagiati sembra addirittura diminuire nonostante le fosche previsioni che erano state attribuite alla variante Delta.
Gli accessi in terapia intensiva negli ultimi mesi si aggiravano sull’1% dei positivi e la letalità sul 2%: in questi ultimi giorni, da quando i contagi hanno ripreso a salire, queste due percentuali si sono più o meno dimezzate. Si consideri, comunque, che se i contagi giornalieri divenissero 60.000, i ricoveri in terapia intensiva o i deceduti sarebbero ipoteticamente venti volte quelli di oggi, cioè dell’ordine di 200 al giorno!
A cosa è probabilmente dovuta la diminuzione di gravità della malattia dei positivi? Principalmente a due fattori: l’età media dei contagiati e le condizioni di immunità parziale dei vaccinati che si reinfettano. Si consideri, però, che l’inizio delle “ondate epidemiche” ha visto sempre come protagonisti i più giovani: le vacanze invernali di inizio 2020, i viaggi, le discoteche dell’estate successiva. Anche oggi i contagiati sono prevalentemente giovani, quindi ciò spiega la minor gravità degli esiti accanto alla protezione della quota numericamente inferiore dei contagiati già vaccinati. Ma cosa succederà se il contagio dovesse svilupparsi ulteriormente negli ambiti famigliari dove – ahimè – gli ultra sessantenni non vaccinati sono ancora una quota elevata?
E allora dobbiamo chiederci se sia una scelta appropriata utilizzare la misura dell’ospedalizzazione come indicatore per definire i “colori” delle Regioni. Se considerare la gravità degli esiti è corretto, non lo è pensare che per prevenire si debba dare minor importanza alla frequenza e all’accelerazione dei contagi.
Il Ministero ha sempre insistito nell’utilizzo di un indice come l’Rt basato sulle frequenze dei soli soggetti sintomatici, nella convinzione che queste frequenze fossero più esplicative dello sviluppo epidemico, in quanto meno soggette all’attività diagnostica e quindi alle percentuali di positivi asintomatici.
Oggi si ragiona pensando che i problemi non siano tanto i contagi, quanto la malattia nelle sue forme gravi, e questo, beninteso, è più che corretto! Se il COVID si limitasse a una sintomatologia minore, potrebbe, infatti, realmente essere gestito né più né meno che come una banale influenza. Ma ciò – ahimè – non è vero: i casi gravi diminuiscono percentualmente, ma continuano a esserci in misura significativa. Usare l’indice di ospedalizzazione significa accorgersi di una situazione non sostenibile quando ormai l’epidemia si è diffusa eccessivamente ed è ormai molto più difficile contenerla, e magari i contagi hanno raggiunto proprio quelle fasce di popolazione più fragili e meno protette.
Quindi che fare? Se non si vuole arrivare a situazioni dove, come all’estero, si deve di nuovo far ricorso al coprifuoco (vedi Catalunya) o ai lockdown, dobbiamo fare fondamentalmente due cose: la prima è un’attività informativa chiara e realmente efficace che, oltre che convincere della necessità del vaccino per tutta la popolazione, riesca a far capire che i vaccini – seppur indispensabili – non bastano e occorre che ciascuno aumenti in modo responsabile tutte le precauzioni necessarie. E siccome non si può sperare che tutti siano sufficientemente responsabili, occorre, come seconda cosa, reintrodurre misure di contenimento scegliendo tra quelle possibilmente meno “socialmente costose”.
Ieri la borsa di Milano ha perso più del 3% e si dice che la ragione sia la paura che il virus nuovamente confligga con l’economia: sembra ormai sempre più evidente che salute, socialità ed economia debbano viaggiare assieme e non si può pensare di ritornare a una normalità senza esser riusciti a mettere in sicurezza la salute della popolazione.