ll titolo è ovviamente provocatorio anche perché se avessi intitolato “l’utilità dell’epidemiologia” forse pochi l’avrebbero letto … e invece vorrei proprio parlare di come l’epidemiologia spesso si associa all’inutilità. 

Pensando a quasi tutte le discipline mediche si può dire che quasi sempre vi è una forte connessione tra conoscenza e decisione o, se si preferisce, tra diagnosi e terapia. Se le due attività non coincidono nella stessa figura, come ad esempio accade per il radiologo o per il laboratorista, di fatto vi è sempre una stretta connessione tra questi colleghi.

E ancora: chi fa della ricerca clinica quasi sempre è anche chi fa attività clinica di diagnosi e cura, mentre non è così per l’epidemiologo, tranne che per l’epidemiologo clinico la cui figura però spesso si identifica con il clinico stesso.

L’epidemiologo di popolazione o l’epidemiologo ambientale o l’epidemiologo dei servizi sanitari è infatti per lo più del tutto separato dai processi decisionali che riguardano le situazioni da lui analizzate. Non sono infatti loro, ma  l’amministratore pubblico, o addirittura il politico,  cui è assegnato il compito di trasformare in decisione le evidenze prodotte dall’epidemiologo se, ahimè, ritengono sia opportuno farlo.

Se raramente ad una evidenza diagnostica non corrisponde una convenienza terapeutica, spesso invece ad una evidenza epidemiologica non consegue sempre una azione conveniente. La corrispondenza tra evidenza ed utilità, che spesso è in netta connessione a livello di individuo, non si verifica necessariamente a livello di collettività. Ciò accade talvolta per lontananza tra ruoli tra chi osserva e chi decide, ma più volte per mancanza di consequenzialità tra i due momenti dato che una evidenza riguardante la salute della popolazione spesso entra in contrasto con altre evidenze di necessità sociali, economiche, politiche.

Se fosse per l’epidemiologo, ad esempio, il tabacco non dovrebbe più esser coltivato, ma si pensi a quanto c’è voluto invece per convincere il politico a fare una normativa che impedisse il fumo negli ambienti pubblici, e lo stesso per le difficoltà a contrastare le fonti inquinanti o i consumi inappropriati, come ad esempio il consumo di bevande gassate. 

Le attività dell’epidemiologo possono essere classificate in tre categorie: attività di ricerca per ampliamento della conoscenza, attività di osservazione per indirizzate l’attività sanitaria, attività varie che risultano ahimè fini a sé stesse. Dovremmo allora provare a riprendere le riviste epidemiologiche di qualche anno fa e a catalogare gli articoli dicendo se: 

  1. hanno realmente accresciuta la conoscenza scientifica, 
  2. hanno realmente indirizzato la politica della salute, 
  3. ovvero se siano serviti solo ad aumentare i curricula degli autori o magari neppure a questo.

Le necessità “curricolari” hanno fatto aumentare sia il numero di riviste sia la produzione di lavori di cui molti "al limite dell’inutilità". L’impact factor dovrebbe aiutare a valutare il contributo di una rivista allo sviluppo delle conoscenze epidemiologiche. Ma sarebbe molto più rilevante riuscire a misurare il contributo di una rivista epidemiologica al miglioramento delle attività di prevenzione e di salute pubblica.

Spesso sembra che alcuni lavori siano degli esercizi di “birdwatching”, fatti cioè solo per il piacere o la curiosità di osservare. La rivista E&P invece obbliga giustamente gli autori a dichiarare cosa di nuovo dice un articolo o a cosa può servire a fini di intervento; questi due aspetti dovrebbero essere molto più valorizzati dai referee che invece spesso si limitano a valutare le sole correttezze formali metodologiche.

Ma di tutto ciò ce ne sarebbe meno bisogno se all’epidemiologia fosse dato un po’ più di coinvolgimento nei processi decisionali, o per lo meno se chi detiene in sanità il potere di decidere avesse maggiori conoscenze e più rapporti con la comunità epidemiologica.

Un ultimo aspetto da considerare è appunto l’esclusività dell'assegnazione del ruolo di epidemiologo solo a chi ha una laurea di tipo sanitario o addirittura solo in medicina. Ma in politica sanitaria il decisore effettivo non è quasi mai un laureato in medicina, ed allora sarebbe importante che si aprissero ai ruoli di epidemiologo anche altre figure, naturalmente valutandone le competenze e la preparazione.

La difesa esclusiva per i medici del ruolo pubblico di epidemiologo, assente in parecchi paesi esteri, è solo una difesa corporativa e non aiuta né l'epidemiologia né la sanità pubblica. Le nostre facoltà mediche preparano ad una visione del particolare, dell'individuale, e non, come serve ad un epidemiologo, del sociale e del generale. 

In questo senso credo si dovrebbe considerare l’opportunità di arricchire le figure che si occupano di salute pubblica con figure che chiamerei di episociologo, epieconomista, epingegnere o altro. Al di là di questi appellativi credo sia sempre più necessario lo sviluppo di competenze multidisciplinari che non devono creare figure inutili di tuttologi bensì figure di competenti multidisciplinari specifici per settori particolari di attività. 

E per arrivare a questo sarebbe importante che nei concorsi pubblici per le dirigenze politico sanitarie non si limitasse l’accesso a specifiche lauree ma magari si esigesse la frequenza a dei corsi di master post-laurea cui potessero partecipare anche laureati di talune differenti discipline. 

E i referee delle riviste di epidemiologia ancor prima di domandarsi se un articolo è metodologicamente corretto ed anche se dice qualcosa di nuovo dovrebbero dire sempre se serve allo sviluppo delle attività di sanità pubblica contrastando così la formazione di curricula pieni di racconti ben fatti ma solo di birdwatching!  

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