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Sanità Pubblica - 28/05/2021 17:41
SSN: sistema salute o sistema malattia?
È nel 1943 che è stato costituito l’Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie (INAM) che fungeva da ente per l’assicurazione obbligatoria della maggior parte dei lavoratori privati, poi soppresso nel 1977 alla soglia dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale con la legge 833 del 23 dicembre 1978. All’art.1 della legge istitutiva si afferma che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»: si parla, insomma, innanzitutto di salute e non di malattie o subito di sanità.
Alla base delle differenze di impostazione c’è anche una differenza tra ideologia liberista e ideologia solidarista. Per il liberismo classico, la tutela della salute è un fatto che riguarda solamente l’individuo, mentre le istituzioni pubbliche devono semplicemente difenderlo da eventuali offese e possibilmente favorire dei sistemi assicurativi per rendere meno drammatici il peso dalle malattie.
La logica della 833 nata in un momento storico che aveva visto le lotte del ‘68 e il prevalere della cultura solidarista è, invece, del tutto diversa: le istituzioni devono considerare la salute come un diritto degli individui e non solo difenderla, ma anche promuoverla. Ed è per questo che all’articolo 2 si afferma innanzitutto che «il conseguimento delle finalità […] è assicurato mediante: 1. la formazione di una moderna coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione sanitaria del cittadino e delle comunità; 2. la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro», seguono poi le altre finalità.
Sono passati più di quarant’anni e talvolta sembra che il SSN in larga parte sia tornato a essere un sistema sanitario assicurativo più disegnato per assicurare le cure che per promuovere e prevenire la salute. Credo che sia esperienza di quasi tutti noi il fatto che il proprio medico di base sa poco della nostra storia di salute: poco dell’anamnesi famigliare, poco o nulla degli stili di vita, quasi niente dell’ambiente di vita e di lavoro. Non è così per tutti i MMG, ma credo lo sia per la loro maggioranza. La mia esperienza mi fa dire che spesso non riescono neppure a ricordarsi degli eventi che loro stessi hanno controllato.
Ma perché sta succedendo questo? Non è certo solo “colpa” dei singoli MMG, bensì soprattutto di un clima culturale sanitario che ha portato tutta l’attenzione sui soli eventi patologici: dal medico si va solo quando si è malati, e il medico considerato bravo è solo lo specialista che sa fare brillantemente diagnosi.
Sino a metà del secolo scorso, il medico poteva quasi sapere “tutto” sia a riguardo della patologia e della clinica medica e in buona parte anche della chirurgia, per lo meno quella minore. Ma da allora la medicina ha avuto un tale sviluppo per cui il singolo medico forse non riesce ad avere nel proprio bagaglio più del 10% delle conoscenze sanitarie.
E non c’è, purtroppo, una scuola di specialità per essere medico di medicina generale e non è neppure condiviso da tutti quale debbano essere i suoi compiti, che sicuramente non possono più essere quelli del medico condotto come individuati dalla legge di riforma Crispi del 1888. Allora praticamente il medico condotto faceva tutto e non c’erano in realtà gli “specialisti”, tranne alcuni chirurghi nei pochi ospedali dove peraltro si finiva o per essere isolati se infettivi o per essere assistiti per carenze degli ambienti domestici; il benestante difficilmente finiva in ospedale!
Un compito associato a molti medici condotti, tranne che nelle maggiori città, e che sarebbe stato forse bene conservare – mentre è stato tolto – è quello di ufficiale sanitario che doveva occuparsi della salute della comunità e dei possibili fattori di rischio presenti nell’ambito del suo territorio.
Cosa vorremmo da un operatore della salute di base (che qui chiamerò per comodità OSB) e che in futuro potrebbe essersi laureato in un corso di laurea specifico della facoltà di medicina comprendente anche una formazione nei settori del sociale, dell’ambientale, dell’economico? Vorremmo che l’OSB sappia e debba occuparsi dei problemi di salute pubblica della comunità in cui opera; debba poi conoscere bene i propri assistiti e mantenere memoria delle loro storie in modo da poter intervenire per consigliare le correzioni agli stili di vita o per monitorare con precocità l’insorgere di qualsiasi problema di salute.
Naturalmente deve essere in grado di riconoscere e di curare i malesseri dei suoi pazienti, anche quando il loro ricorso è improvviso, e di capire invece quando la sintomatologia consiglia il ricorso a strutture specialistiche o direttamente ospedaliere. L’integrazione con le strutture ospedaliere e specialistiche deve consentire all’OSB di lavorare assieme ai colleghi per svolgere le terapie consigliate o per comunicare loro eventuali nuovi episodi creatisi nel decorso delle malattie da loro curate.
Un altro aspetto oggi negletto ai MMG è la visita domiciliare: i clinici di una volta dicevano che vedere la casa diceva di più che ascoltare un’anamnesi; oltretutto, nelle case si incontrano tutti i membri della famiglia e si può parlare con loro, ascoltare, consigliare, anche talvolta svolgere azioni di prevenzione.
In Italia ci sono oggi circa 25 milioni di famiglie e se un OSB dovesse quasi “obbligatoriamente” visitarle almeno una volta all’anno nei 250 giorni annui di sua attività, ogni giorno dovrebbero esserci 100.000 visite domiciliari e se si potesse prevederne non più di due al giorno significherebbe che ci dovrebbero essere 50.000 OSB, cioè uno ogni 500 famiglie od ogni 1.200 abitanti circa.
Prevedendo un reddito lordo di 100.000 euro, il costo di tutti gli OSB sarebbe di 5 miliardi di euro, cioè poco più del 4% dell’attuale spesa sanitaria. A questi OBS, che dovrebbero essere assunti come dipendenti dal SSN e a cui dovrebbe comunque essere assegnata la struttura in cui possono operare, potrebbero poi venir dati molti dei compiti attualmente svolti dal MMG e da altre figure sanitarie già presenti nel SSN e, in primo luogo, le funzioni riguardanti la prevenzione e il monitoraggio epidemiologico, la gestione delle cronicità e delle disabilità. In una fase di transizione, gli attuali MMG dovrebbero optare se assumere il ruolo di OSB o integrarsi nelle strutture polispecialistiche e di primo soccorso territoriale, quelle che oggi si pensa di chiamare case della salute.
Se avete letto sin qui penso che avrete molti dubbi sulla praticabilità di questa proposta; anch'io ne ho, forse più di voi! Ma credo che dobbiamo dare un po’ di respiro in questo momento alla fantasia per capire quali sono le necessità della sanità e per incominciare a elaborare delle linee di possibile riforma. Ma sarebbe importante introdurre elementi rilevanti di discontinuità per evitare di far finta di cambiare tutto per non voler in realtà cambiare nulla. Senza utopie non si fanno le riforme, che poi devono essere capaci di trasformare l’utopia in progetto.
Il pericolo è quello di voler cambiare la sanità solo con una visione che nasce dall’interno del sistema.
È come se in una casa si stesse ammalorando il tetto e chi vive solo dentro casa non riesce ad accorgersi del problema fintanto che non pioverà nelle stanze, mentre chi la guarda criticamente da fuori capisce per tempo l’emergenza. Non vorremmo che il PNRR rispondesse solo ai bisogni di miglioramento e di manutenzione dell’arredamento e non provvedesse a una ristrutturazione vera del fabbricato. Non bastano le idee dei Clinici, dei Manager, dei Tecnici, degli Economisti; serve iniziare da un’idea sistemica più completa. Quando, all’inizio degli anni Settanta, si incominciò a parlare sempre più concretamente di riforma della sanità, i dubbi erano molti e sicuramente le ASL, i Distretti, gli Assessorati alla sanità, ecc. erano solo delle linee utopiche che poi via via si sono strutturate e definite.
È per questo che auspico che oggi si sviluppi un movimento di riforma con lo stesso entusiasmo di allora e non ci si riduca solo alla caccia dell’avere più soldi da spendere per la sanità, anche magari migliorando l’esistente. Serve assolutamente che si mettano sul tavolo delle discussioni le idee, magari all’inizio balzane, ma poi via via migliorate e vincenti. Vorremmo perciò che le parole chiave fossero: discontinuità, salute, pensiero, concretezza.
Commenti: 3
2.
per un nuovo romanzo sanitario
Perché il MMG è diventato spesso un personaggio opaco, un triste burocrate che amministra ricette e prescrizioni senza sapere granchè di noi e quando qualcuno di loro non è così siamo piacevolmente sorpresi e lo consigliamo ad amici e parenti? Perché è così lontano da quel bravo “medico di campagna” che ci è piaciuto al cinema e fatichiamo a incontrare nella realtà? Credo che le risposte siano tante: l’evoluzione tecnologica che lo ha lasciato indietro come diagnosta, la scarsa considerazione dei pazienti che ciò ha comportato, il minore aggiornamento rispetto ai colleghi ospedalieri, l’atteggiamento consumistico della popolazione nei confronti della salute ecc. Ma mi sembra che un aspetto centrale sia la mancanza di connessioni tra i diversi soggetti che hanno cura della salute della popolazione sul territorio e in ospedale. Non occorre attribuire maggiori ruoli a quelli che già ora ha il MMG e, in particolare, certamente non quelli già malamente svolti a suo tempo dall’Ufficiale Sanitario. Le competenze richieste per fare bene il proprio mestiere sono aumentate rispetto a decenni fa e pensare di riattribuirne qualcuna per ottenere una figura più significativa nella tutela della salute di un territorio è cosa vana. Occorre creare le condizioni strutturali perché le diverse figure dialoghino tra loro e la identificazione di un luogo definito in cui collocare MMG e specialisti è un primo passo. Se poi ci mettiamo dentro anche infermieri (“case manager” per i pazienti cronici), un piccolo apparato amministrativo e il Servizio sociale il passo è già un po' più lungo. E’ quanto prevede il PNRR con le Case di comunità: possono essere semplicemente la riedizione del poliambulatorio stile INAM, come sostiene Ivan Cavicchi nei suoi numerosi articoli su Quotidiano Sanità o su giornali generalisti, ma possono anche diventare esperimenti interessanti di sanità integrata. Per una volta tanto non occorrono arditi voli di immaginazione: immaginiamo a partire da proposte istituzionali. O da un bel fumetto di Zerocalcare “Romanzo sanitario” apparso su un numero di Espresso di marzo, che fa il verso a Romanzo criminale: una poco rocambolesca storia di sanità territoriale e periferia.
1.
Poche cose, ma buone....
Ho una perplessità di natura pragmatica. Anche se va benissimo sviluppare "un movimento di riforma" come quello che "si coagulò" con successo negli anni '70, oggigiorno la vastità di un progetto è un fattore di rischio che purtroppo ne aumenta le probabilità di insuccesso.
Giusto che si "mettano sul tavolo [......................] le idee, magari all’inizio balzane, ma poi via via migliorate e vincenti."
Aggiungerei però: poche cose ma buone (dove "buone" significa soprattutto "ben scelte").
In un dichiarato disordine come è normale che sia in un blog, può essere utile che vari "stakeholder" propongano obiettivi concreti di miglioramento molto, molto specifici. Provo a proporre una cosa sola.
Avendo premesso che i farmaci sono tecnicamente tracciabili (barcode) ormai da decenni e che i dispositivi di maggior rilievo lo sono dal 26 Maggio 2021 (pochi giorni fa; entrata in vigore dello Unified Device Identifier o UDI), un "buco nero" della sanità italiana che andrebbe risolto è costituito dal paziente in degenza. Mentre paradossalmente sul territorio il paziente viene tracciato abbastanza bene (es. tutta la farmaceutica), quando invece il paziente si ospedalizza le registrazioni individuali cessano quasi del tutto perchè la Sanità italiana contabilizza l'uso di risorse per reparto (alias centro di costo), ma non per paziente
Il paziente in degenza è perciò un "buco nero assoluto" nella registrazione di tantissime cose (es. dispositivi medici e farmaci, con l'eccezione virtuosa delle poche regioni che usano il cosidetto File F per i farmaci più costosi). Ciò ha le sue spiegazioni storiche: a) i database amministrativi nacquero come amministrativi e difficilmente si poteva prevedere allora che tali database potessero portare informazioni cliniche di rilievo; b) etc etc; c) etc etc
Di qui la proposta: risolvere il buco nero del paziente in degenza e cominciare a mettere una penna ottica accanto al letto di ogni degente (con relativio software, ovviamente). Nota finale: le SDO esistono, non vanno neppure malissimo, ma sono troppo generiche per costruire un follow-up decoroso del paziente.
Ultimissima osservazione: immaginiamo che un paziente abbia un infarto e viene ricoverato a Pisa; tre mesi dopo ha un re-infarto a Firenze e viene ricoverato a Careggi. Vi sembra possibile che, nel 2021, il medico di Careggi non riesca a vedere da Careggi nessuna informazione riguardo al precedente ricovero a Pisa?
3.
Per una nuova figura di operatore di salute
Perché il MMG è diventato spesso un personaggio opaco, un triste burocrate che amministra ricette e prescrizioni senza sapere granchè di noi e quando qualcuno di loro non è così siamo piacevolmente sorpresi e lo consigliamo ad amici e parenti? Perché è così lontano da quel bravo “medico di campagna” che ci è piaciuto al cinema e fatichiamo a incontrare nella realtà? Credo che le risposte siano tante: l’evoluzione tecnologica che lo ha lasciato indietro come diagnosta, la scarsa considerazione dei pazienti che ciò ha comportato, il minore aggiornamento rispetto ai colleghi ospedalieri, l’atteggiamento consumistico della popolazione nei confronti della salute ecc. Ma mi sembra che un aspetto centrale sia la mancanza di connessioni tra i diversi soggetti che hanno cura della salute della popolazione sul territorio e in ospedale. Non occorre attribuire maggiori ruoli a quelli che già ora ha il MMG e, in particolare, certamente non quelli già malamente svolti a suo tempo dall’Ufficiale Sanitario. Le competenze richieste per fare bene il proprio mestiere sono aumentate rispetto a decenni fa e pensare di riattribuirne qualcuna per ottenere una figura più significativa nella tutela della salute di un territorio è cosa vana. Occorre creare le condizioni strutturali perché le diverse figure dialoghino tra loro e la identificazione di un luogo definito in cui collocare MMG e specialisti è un primo passo. Se poi ci mettiamo dentro anche infermieri (“case manager” per i pazienti cronici), un piccolo apparato amministrativo e il Servizio sociale il passo è già un po' più lungo. E’ quanto prevede il PNRR con le Case di comunità: possono essere semplicemente la riedizione del poliambulatorio stile INAM, come sostiene Ivan Cavicchi nei suoi numerosi articoli su Quotidiano Sanità o su giornali generalisti, ma possono anche diventare esperimenti interessanti di sanità integrata. Per una volta tanto non occorrono arditi voli di immaginazione: immaginiamo a partire da proposte istituzionali. O da un bel fumetto di Zerocalcare “Romanzo sanitario” apparso su un numero di Espresso di marzo, che fa il verso a Romanzo criminale: una poco rocambolesca storia di sanità territoriale e periferia.
Cara Silvia, grazie del commento, ma io, giusto o sbagliato, la penso un po' diversamente. Credo cioè che l'operatore di base debba occuparsi di salute e quindi innanzitutto di prevenzione e conoscenza dei fattori di rischio. Poi anche dei malesseri e della gestione delle cronicità e delle diabilita. L'attività diagnostica è terapeutica delle malattie (non dei malesseri) non può più essere svolta dall'operatore di base che deve solo riconoscere i bisogni ed indirizzare verso chi ha le conoscenze e le tecnologie per fare diagnosi e per impostare le terapie. Quindi non credo tanto che si debbano dare al MMG dei compiti in più ma semmai toglierne. Ciò che più mi preme comunque è l'integrazione tra salute del singolo e salute del contesto, familiare, sociale, lavorativo, ambientale. Proviamo a far finta che non esista il SSN e che lo si voglia costruire: che ruolo avrebbe oggi l'operatore di base? Di occuparsi di salute o di malattie?