È nel 1943 che è stato costituito l’Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie (INAM) che fungeva da ente per l’assicurazione obbligatoria della maggior parte dei lavoratori privati, poi soppresso nel 1977 alla soglia dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale con la legge 833 del 23 dicembre 1978. All’art.1 della legge istitutiva si afferma che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»: si parla, insomma, innanzitutto di salute e non di malattie o subito di sanità.

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Alla base delle differenze di impostazione c’è anche una differenza tra ideologia liberista e ideologia solidarista. Per il liberismo classico, la tutela della salute è un fatto che riguarda solamente l’individuo, mentre le istituzioni pubbliche devono semplicemente difenderlo da eventuali offese e possibilmente favorire dei sistemi assicurativi per rendere meno drammatici il peso dalle malattie.

La logica della 833 nata in un momento storico che aveva visto le lotte del ‘68 e il prevalere della cultura solidarista è, invece, del tutto diversa: le istituzioni devono considerare la salute come un diritto degli individui e non solo difenderla, ma anche promuoverla. Ed è per questo che all’articolo 2 si afferma innanzitutto che «il conseguimento delle finalità […] è assicurato mediante: 1. la formazione di una moderna coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione sanitaria del cittadino e delle comunità; 2. la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro», seguono poi le altre finalità.

Sono passati più di quarant’anni e talvolta sembra che il SSN in larga parte sia tornato a essere un sistema sanitario assicurativo più disegnato per assicurare le cure che per promuovere e prevenire la salute. Credo che sia esperienza di quasi tutti noi il fatto che il proprio medico di base sa poco della nostra storia di salute: poco dell’anamnesi famigliare, poco o nulla degli stili di vita, quasi niente dell’ambiente di vita e di lavoro. Non è così per tutti i MMG, ma credo lo sia per la loro maggioranza. La mia esperienza mi fa dire che spesso non riescono neppure a ricordarsi degli eventi che loro stessi hanno controllato.

Ma perché sta succedendo questo? Non è certo solo “colpa” dei singoli MMG, bensì soprattutto di un clima culturale sanitario che ha portato tutta l’attenzione sui soli eventi patologici: dal medico si va solo quando si è malati, e il medico considerato bravo è solo lo specialista che sa fare brillantemente diagnosi.

Sino a metà del secolo scorso, il medico poteva quasi sapere “tutto” sia a riguardo della patologia e della clinica medica e in buona parte anche della chirurgia, per lo meno quella minore. Ma da allora la medicina ha avuto un tale sviluppo per cui il singolo medico forse non riesce ad avere nel proprio bagaglio più del 10% delle conoscenze sanitarie.

E non c’è, purtroppo, una scuola di specialità per essere medico di medicina generale e non è neppure condiviso da tutti quale debbano essere i suoi compiti, che sicuramente non possono più essere quelli del medico condotto come individuati dalla legge di riforma Crispi del 1888. Allora praticamente il medico condotto faceva tutto e non c’erano in realtà gli “specialisti”, tranne alcuni chirurghi nei pochi ospedali dove peraltro si finiva o per essere isolati se infettivi o per essere assistiti per carenze degli ambienti domestici; il benestante difficilmente finiva in ospedale!

Un compito associato a molti medici condotti, tranne che nelle maggiori città, e che sarebbe stato forse bene conservare – mentre è stato tolto – è quello di ufficiale sanitario che doveva occuparsi della salute della comunità e dei possibili fattori di rischio presenti nell’ambito del suo territorio.

Cosa vorremmo da un operatore della salute di base (che qui chiamerò per comodità OSB) e che in futuro potrebbe essersi laureato in un corso di laurea specifico della facoltà di medicina comprendente anche una formazione nei settori del sociale, dell’ambientale, dell’economico? Vorremmo che l’OSB sappia e debba occuparsi dei problemi di salute pubblica della comunità in cui opera; debba poi conoscere bene i propri assistiti e mantenere memoria delle loro storie in modo da poter intervenire per consigliare le correzioni agli stili di vita o per monitorare con precocità l’insorgere di qualsiasi problema di salute.

Naturalmente deve essere in grado di riconoscere e di curare i malesseri dei suoi pazienti, anche quando il loro ricorso è improvviso, e di capire invece quando la sintomatologia consiglia il ricorso a strutture specialistiche o direttamente ospedaliere. L’integrazione con le strutture ospedaliere e specialistiche deve consentire all’OSB di lavorare assieme ai colleghi per svolgere le terapie consigliate o per comunicare loro eventuali nuovi episodi creatisi nel decorso delle malattie da loro curate.

Un altro aspetto oggi negletto ai MMG è la visita domiciliare: i clinici di una volta dicevano che vedere la casa diceva di più che ascoltare un’anamnesi; oltretutto, nelle case si incontrano tutti i membri della famiglia e si può parlare con loro, ascoltare, consigliare, anche talvolta svolgere azioni di prevenzione.

In Italia ci sono oggi circa 25 milioni di famiglie e se un OSB dovesse quasi “obbligatoriamente” visitarle almeno una volta all’anno nei 250 giorni annui di sua attività, ogni giorno dovrebbero esserci 100.000 visite domiciliari e se si potesse prevederne non più di due al giorno significherebbe che ci dovrebbero essere 50.000 OSB, cioè uno ogni 500 famiglie od ogni 1.200 abitanti circa.

Prevedendo un reddito lordo di 100.000 euro, il costo di tutti gli OSB sarebbe di 5 miliardi di euro, cioè poco più del 4% dell’attuale spesa sanitaria. A questi OBS, che dovrebbero essere assunti come dipendenti dal SSN e a cui dovrebbe comunque essere assegnata la struttura in cui possono operare, potrebbero poi venir dati molti dei compiti attualmente svolti dal MMG e da altre figure sanitarie già presenti nel SSN e, in primo luogo, le funzioni riguardanti la prevenzione e il monitoraggio epidemiologico, la gestione delle cronicità e delle disabilità. In una fase di transizione, gli attuali MMG dovrebbero optare se assumere il ruolo di OSB o integrarsi nelle strutture polispecialistiche e di primo soccorso territoriale, quelle che oggi si pensa di chiamare case della salute.

Se avete letto sin qui penso che avrete molti dubbi sulla praticabilità di questa proposta; anch'io ne ho, forse più di voi! Ma credo che dobbiamo dare un po’ di respiro in questo momento alla fantasia per capire quali sono le necessità della sanità e per incominciare a elaborare delle linee di possibile riforma. Ma sarebbe importante introdurre elementi rilevanti di discontinuità per evitare di far finta di cambiare tutto per non voler in realtà cambiare nulla. Senza utopie non si fanno le riforme, che poi devono essere capaci di trasformare l’utopia in progetto.

Il pericolo è quello di voler cambiare la sanità solo con una visione che nasce dall’interno del sistema.
È come se in una casa si stesse ammalorando il tetto e chi vive solo dentro casa non riesce ad accorgersi del problema fintanto che non pioverà nelle stanze, mentre chi la guarda criticamente da fuori capisce per tempo l’emergenza. Non vorremmo che il PNRR rispondesse solo ai bisogni di miglioramento e di manutenzione dell’arredamento e non provvedesse a una ristrutturazione vera del fabbricato. Non bastano le idee dei Clinici, dei Manager, dei Tecnici, degli Economisti; serve iniziare da un’idea sistemica più completa. Quando, all’inizio degli anni Settanta, si incominciò a parlare sempre più concretamente di riforma della sanità, i dubbi erano molti e sicuramente le ASL, i Distretti, gli Assessorati alla sanità, ecc. erano solo delle linee utopiche che poi via via si sono strutturate e definite.

È per questo che auspico che oggi si sviluppi un movimento di riforma con lo stesso entusiasmo di allora e non ci si riduca solo alla caccia dell’avere più soldi da spendere per la sanità, anche magari migliorando l’esistente. Serve assolutamente che si mettano sul tavolo delle discussioni le idee, magari all’inizio balzane, ma poi via via migliorate e vincenti. Vorremmo perciò che le parole chiave fossero: discontinuità, salute, pensiero, concretezza.

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