Adesso che la pandemia sembra (almeno sembra…chissà! vedremo) andare verso la fine si è acceso il dibattito su come sarebbe stato meglio affrontarla, e in particolare se le soluzioni da adottare dovessero essere prevalentemente tecniche o piuttosto politiche. Almeno in teoria il quadro non è così complicato: alla tecnica si richiede che  sappia garantire l’efficacia (anche se per lo più teorica) delle diverse strategie di intervento, alla politica di definire invece l’opportunità valoriale. La tecnica può affermare che il lockdown è una misura che permette di contenere la mortalità; ma la politica potrebbe anche ritenere che limitare la libertà sia peggio che salvare delle vite umane.

Sulle questioni tecniche i dubbi sono stati relativamente modesti, sulle questioni politiche ancor oggi invece la discussione rimane molto accesa. Si è andati dal “laissez-faire“ di Trump e Johnson, al lockdown il più duro possibile di Xi Jinping, e questa diversità  di scelte riflette il divario storico con cui la politica ha da sempre cercato di affrontare i temi della salute.

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La destra storica, in particolare quella settecentesca – che iniziò a chiamarsi destra da quando i monarchici conservatori si sedettero a destra all'Assemblée nationale constituante francese nel 1789 mentre a sinistra si sedevano i rivoluzionari radicali – si richiama al liberalismo classico che considerava la salute come un bene riguardante esclusivamente l’individuo, esattamente come la proprietà di ogni altro bene. Ancora all'inizio dell'Ottocento la sanità pubblica, anche negli stati pre-unitari d'Italia, si chiamava “polizia sanitaria” in quanto si occupava praticamente solo eventualmente di difendere le persone da chi avrebbe potuto rubar loro la salute, per cui si facevano i lazzaretti e non i lockdown!

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Giuseppe Sariga «La peste del 1630 a Chieri» (particolare) Cappella della Madonna delle Grazie, Duomo di Chieri ( Torino)

È della seconda metà dell’Ottocento che la salute entra direttamente nella sfera della politica nella convinzione che non possa esserci salute delle persone senza salute della comunità e che questa quindi deve far parte dei compiti di chi governa, cioè della politica. Una posizione “dura” coerente con il liberalismo classico, avrebbe considerato assolutamente liberticida il lockdown dei sani accettando semmai solo l’isolamento dei contagiosi. Anche la prevenzione sarebbe dovuta essere esclusivamente affidata ai singoli che avrebbero potuto scegliere se vaccinarsi o no, altro che Green Pass, assumendosene eventualmente anche i costi.

La sinistra tende invece ad essere collettivista imponendo le misure che chi governa ritiene siano le migliori per la collettività e quindi anche per i suoi componenti, e quindi talvolta ritiene opportuno limitare le libertà individuali per ottenere vantaggi collettivi.

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Accade poi, purtroppo, che chi è malato chiede protezione e chi è sano chiede libertà, cioè ciascuno tende a massimizzare più l’interesse proprio che quello comune. E allora nasce un ulteriore dualismo: imposizione o responsabilizzazione? Obbligo di indossare la FFP2 o solo invito a farlo responsabilmente quando è opportuno? E qui interviene il problema della "dittatura del consenso", problema delicato perché non è detto che alla presenza di consenso politico corrisponda sempre una scelta di benessere collettivo, ma spesso deriva solo dalla somma di desideri privati di benessere.

Richiamo una nota di Raul Gabriel, artista e scrittore cattolico che scrive spesso sulla rivista Vita e Pensiero dell’Università Cattolica, che parla di “Tecnica e Politica” e considera che durante la pandemia la politica abbia troppo invaso la sfera individuale occupandosi solo di corpi e nulla di spirito.

L’ultimo anno di pandemia e della sua gestione si è rivelato un enorme laboratorio comportamentale e scientifico. Laboratorio che ha esaltato aspetti gratificanti di solidarietà umana e contemporaneamente un incombere di egoismo e propensione alla idiozia di gregge che non avrei pensato possibili dopo un secolo di regimi totalitari, due guerre mondiali, epidemie e crisi dal carattere sempre epocale e solo in apparenza definitivo.

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C'è quindi da chiedersi se Libertà e Salute siano in contrasto o possano invece coesistere. Si possono certamente trovare principi che siano condivisibili da più parti come ad esempio i seguenti:

  • è liberticida un'imposizione sanitaria che non sia realmente necessaria ed efficace.
  • la difesa della salute e della vita non può essere messa in discussione per ragioni economiche a meno che queste siano prevalenti proprio per difendere salute e vita.
  • di fronte ai problemi di salute e di difesa della vita si devono ridurre al minimo possibile le diseguaglianze sociali.
  • ogni provvedimento imposto che riduca la libertà deve avere un'evidenza scientifica di efficacia e deve massimizzare l’utilità collettiva rispetto a quella ottenibile senza imposizioni.
  • e altri ancora ...

Un problema delicato resta però come stabilire quando sia "giusto" un provvedimento dal punto di vista tecnico e quando dal punto di vista politico. La valutazione tecnica richiede l'evidenza scientifica dell'efficacia che spesso può anche non poterci ancora essere ed allora interviene un principio di precauzione che consiste nel ritenere, in base alle conoscenze disponibili, quale provvedimento sia  probabilisticamente il più efficace tra quelli disponibili.

La valutazione politica, invece, è più complessa perché non può essere semplicemente affidata all'approvazione della maggioranza delle persone. Se si fosse "votato" per fare o meno un lockdown quasi certamente la maggioranza avrebbe votato contro, ed è lo stesso problema per cui ad esempio la materia fiscale, per dettato costituzionale, non può essere materia per un referendum: l'interesse collettivo non coincide necessariamente con l'insieme degli interessi individuali.

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Se la politica decide che si debba intervenire sulla collettività, è inevitabile che venga data una delega ai tecnici di scegliere le modalità di intervento più opportune; è però importante che la politica sappia dare dei riferimenti valoriali entro i quali le scelte tecniche devono rimanere. E comunque politica e tecnica avranno sempre bisogno di informazioni precise e tempestive per definire le misure da adottare e per valutarne l'adeguatezza.

Se la politica invece decide che la pandemia deve essere affrontata da ciascun individuo per sè stesso, allora la delega all'elemento tecnico non ci sarà e sarà ciascun individuo che eventualmente si affiderà a chi gli indicherà i comportamenti migliori cui attenersi. In questo caso non c'è più bisogno di informazioni epidemiologiche sull'andamento della pandemia perché non verrebbero comunque prese decisioni che riguardano tutta la comunità.

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Forse è per questo che Bassetti  sentenzia che da settembre non ci saranno più dati e bollettini. A che servono se il rapporto con la pandemia è lasciato ai singoli?

Ci si può domandare perché da settembre: perché si pensa che la pandemia sarà di fatto finita o perché da settembre Bassetti pensa che è probabile che governi la destra e quindi che la politica non vorrà e non dovrà più assumere eventualmente misure collettive, ma lascerà che ciascun individuo provveda a difendersi personalmente? Vedremo ... ma rinunciare ad avere dati epidemiologici è come rinunciare a poter fare vera prevenzione! È questo che si vuole? che ciascuno pensi solo a se stesso e si abbandoni il progetto di sanità fondato sulla prevenzione, nato più di quarant'anni fa con la 833, anche se purtroppo mai pienamente realizzato? speriamo di no!

Forse oggi il problema principale è proprio un problema di politica e non tanto di tecnica, e domani?

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