Molti dicono che nel servizio sanitario del nostro paese (SSN) mancano medici e infermieri. In termini generali e teorici l’affermazione è assai discutibile per un motivo molto semplice: non sapendo quanto personale servirebbe nel SSN risulta piuttosto difficile dire se medici ed infermieri crescono o mancano.

Una strada che può essere seguita per fare qualche ragionamento è quella dei confronti internazionali, anche se il problema principale di questo approccio è che non sappiamo se si stanno comparando quantità confrontabili o se si paragonano, come si usa dire, “le pere con le mele”.

Se assumiamo l’ipotesi che i confronti fra i sistemi sanitari delle nazioni europee abbiano qualche significato allora dobbiamo concludere che i medici non mancano (ne abbiamo 4,1 x 1.000 ab. rispetto ad una media europea di 3,7 x 1.000 ab.) mentre il personale infermieristico è decisamente in sofferenza (6,2 x 1.000 ab. rispetto a 9,2 x 1.000 ab. della media europea). Dire che i medici non mancano non vuol dire, però, che tutte le discipline sono ugualmente coperte: ci sono indizi, ad esempio, che il settore della medicina di base (MG, PLS) e quello dell’emergenza-urgenza siano in netta difficoltà.

In questo contesto, con il contributo che segue non si vuole ragionare sulla attuale mancanza (o eccedenza) di personale (e sui motivi che possono avere portato alla situazione odierna) ma si intende guardare appena avanti per capire cosa ci aspetta nei prossimi (pochi o tanti) anni, perché chi scrive ritiene che il problema vero del personale è legato al tema demografico, come ci si appresta a dimostrare: una bolla che è lì pronta a scoppiare. Un grafico ci aiuta a cominciare il discorso.

Secondo i dati più recenti del Ministero della salute (“Il personale del sistema sanitario italiano – Anno 2020”, pubblicato ad agosto 2022), che tra altro ci documenta che non esiste un sistema informativo unico che rileva i dati del personale e che per sapere quanti operano per il SSN (e le loro principali caratteristiche) occorre “procedere ad una integrazione organica e strutturata delle molteplici fonti dati disponibili” perché “attualmente le fonti dati che rilevano le informazioni sul personale operante nelle strutture sanitarie sono molteplici, presentano diversi livelli di dettaglio e contemplano differenti universi di riferimento”, al 31 dicembre 2020 risulterebbero (il condizionale è d’obbligo: vedi sopra) lavorare nelle strutture, pubbliche e private accreditate, 697.743 persone, così suddivise: 241.210 medici, 343.279 unità di personale infermieristico, 55.768 unità di personale con funzioni riabilitative, 46.859 unità di personale tecnico sanitario e 10.627 unità di personale con funzioni di vigilanza ed ispezione, che operano nei vari livelli di assistenza (medicina primaria, riabilitazione, ospedaliera, ambulatoriale), nei diversi tipi di contratto e forme di lavoro previste (tempo indeterminato, determinato, universitari, convenzionati, …) e con le diverse qualifiche professionali. Fermandoci a medici ed infermieri la loro distribuzione per età e sesso è riportata in figura 1.

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Figura 1. Distribuzione per età e sesso del numero di medici ed infermieri. Anno 2020. Fonte: Ministero della Salute

Tre osservazioni (almeno): a) in entrambi i settori il personale in prossima uscita (età maggiori) è decisamente più numeroso rispetto a quello in entrata (età minori); b) per i medici il grosso dell’uscita è a breve mentre per gli infermieri è ritardato di una decina di anni; c) c’è un robusto cambio di genere, con il passaggio dalla prevalenza di maschi alla prevalenza delle femmine.

Nota bene. Non si trascuri la questione di genere: non è un problema di sesso forte o di parità di genere ma del fatto che il cambio di prevalenza tra maschi e femmine implica necessariamente un potenziale cambio di preferenze nella scelta delle discipline specialistiche, con alcune che potrebbero risultare più ricche di persone rispetto ad oggi ed altre più povere.

Non interessano qui i motivi (tanti e diversi, errori di programmazione compresi) per cui si è arrivati alla situazione di oggi ma sono chiare le conseguenze: o nei prossimi (pochi) anni ci sarà una robusta immissione di forze nuove mediche oppure mancherà una grossa fetta di sanitari, ed è facile ipotizzare cosa ci aspetta. Per gli infermieri, al netto di quelli che già mancano, abbiamo una finestra critica meno immediata ma ugualmente rilevante.

Stando così le cose, ci si chiede (al di là degli atti amministrativi che si dovrebbero attivare): ci sono le persone disponibili ad entrare? A breve c’è poco da ragionare, le scelte programmatorie della politica e quelle dei cittadini in tema di formazione professionale sono ormai state fatte e non si può tornare indietro: gli specializzandi e gli iscritti ai corsi universitari sono quelli che sono. E più a lungo? Qui si pone, per chi scrive, il vero problema demografico, come si evince dalla figura che segue, che riporta a partire dalla metà del secolo scorso e fino ai giorni nostri il numero di nati vivi nella popolazione residente del nostro paese ogni anno: i nuovi nati rappresentano il bacino entro il quale si selezionerà il personale che svolgerà poi la professione di medico e di infermiere.

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Figura 2. Italia, popolazione residente: numero di nati vivi ogni anno. Fonte: Istat, Ricostruzione della popolazione residente e del bilancio demografico

Come si osserva, questo bacino è passato dai circa 900.000 soggetti del 1960 e 1970 (addirittura oltre un milione nel 1964) ai 650.000 del 1980, e poi via via ai 570.000 nati del 1990, ai 540.000 del 2000, per arrivare ai circa 400.000 del 2020 e ai 379.333 dell’ultimo anno completo (2023). In pratica, se i medici e gli infermieri che stanno uscendo dal SSN in questi anni emergevano da un bacino potenziale di circa 900.000 soggetti, negli anni più recenti la popolazione eligibile per le professioni sanitarie si è ridotta di più della metà. Questo significa, nell’ipotesi che il bisogno di sanitari si possa considerare costante, che occorre che le generazioni più recenti debbano scegliere le professioni sanitarie con una frequenza doppia rispetto ai loro predecessori. E siccome l’ipotesi di costanza del bisogno di personale, per molti motivi (aumento della popolazione e suo invecchiamento, cioè aumento del bisogno sanitario e della domanda di servizi; aumento della complessità dei trattamenti, che richiedono più personale per ogni paziente da curare; …), è assai poco ragionevole e che quindi il bisogno di personale sanitario si debba considerare in aumento, o termina subito l’attuale inverno demografico trasformandosi in una rigogliosa primavera oppure da una parte, cioè a breve-medio termine il deficit di medici ed infermieri metterà in estrema difficoltà il funzionamento del SSN (a causa soprattutto degli errori di programmazione degli ultimi 10-15 anni), ma dall’altra, e cioè a medio-lungo termine ed in maniera molto più drammatica si aggiungeranno le conseguenze della riduzione delle nascite. E tutto questo a prescindere dalle iniziative che si vorranno prendere nel settore della formazione del personale (che potranno produrre soluzioni non a breve termine) o per rispondere a questioni più contingenti (si vedano, ad esempio, i tentativi in corso in alcune regioni di acquisire personale che viene dall’estero).

Certo, il grido di allarme che qui viene avanzato è frutto di previsioni basate su ipotesi e aspettative che si possono rivelare inadeguate (o addirittura errate) e che oltretutto non tengono evidentemente in conto fenomeni ulteriormente negativi ad oggi non prevedibili (la pandemia da Sars-CoV-2 docet), ma sono previsioni che indicano un percorso: non basta qualche soldo in più (che comunque serve), non basta ripensare alla formazione ed ai processi di inserimento nel SSN (che comunque sono attività necessarie), soprattutto non basta agire solo all’interno del SSN perché molti elementi che condizionano il volume del personale sanitario (demografia in primis, ma non solo) nascono e trovano forza ed alimento (sia in senso positivo che negativo) al di fuori del SSN.

In senso lato occorre rendere più attrattive le professioni sanitarie, invertendo la tendenza alla scarsa attenzione (per usare un linguaggio delicato e non scurrile) che ha caratterizzato il governo del settore in questi ultimi 15 anni, ma in termini più generali occorre ripensare completamente al tema del personale, con interventi indirizzati a risolvere a breve alcuni problemi contingenti e urgenti (scuole di specializzazione, avviamento alla professione, allungamento della vita lavorativa, acquisizione di personale straniero, …), ma soprattutto cercando di mettere a fuoco quello che ci aspetta nel lungo periodo considerato che alcune soluzioni (e la demografia è solo un esempio) devono essere previste e preparate con molto anticipo.

Chi scrive (ma non solo) non ha in tasca soluzioni pronte all’uso. Il caso è serio, il paziente è grave, un medico da solo non basta e serve molta collaborazione da parte di tutti: se però non si comincia non si arriverà mai alla fine dell’opera.

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