Tralasciando gli importanti aspetti etici e politici e rimanendo solo nell’ambito epidemiologico credo sia opportuno porsi questo quesito: “Può una comunità raggiungere un livello ottimale di protezione sanitaria se una parte dei conviventi non ha un ugual accesso alle cure?” È su questo che vorrei dire la mia e chiedervi di dire la vostra.

Io la penso così...

I medici, prima di iniziare la loro professione, prestano un giuramento che, sulla falsariga del “Giuramento di Ippocrate” del IV secolo A.C., è stato deliberato il 23 marzo del 2003 dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOM). Il giuramento si articola in quindici punti ed il terzo recita così:

“[giuro] di curare ogni paziente con eguale scrupolo ed impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale ed ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario”

Come suonano disarmonicamente queste parole nell’epoca del “prima gli italiani” … La legge 833 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale nel 1978 e di cui abbiamo festeggiato da poco i quarant’anni ha come valore fondamentale l’universalismo: tutti hanno gli stessi diritti ad essere curati secondo i loro bisogni e ugualmente tutti hanno gli stessi doveri nel contribuire alle spese secondo le loro capacità economiche.

Se c’è una ragione etica, sia individuale che collettiva, alla non discriminazione ci sono anche importanti considerazioni di ordine epidemiologico. La povertà, l’indigenza, l’esclusione sociale sono importanti determinanti dell’insorgenza di quasi tutte le patologie e di quelle epidemiche in particolare. I microorganismi, siano virus o batteri o anche parassiti, non chiedono il passaporto! Come garantire ad esempio le coperture vaccinali se parte della popolazione non avesse diritto a vaccinarsi gratuitamente?

La non-integrazione, ma ancor peggio la dis-integrazione, porta per necessità a dover vivere di espedienti e questi comportano non solo gravi conseguenze sul piano della sicurezza ma anche della salute collettiva. Solitamente i migranti sono la parte più sana della popolazione di provenienza in quanto i meno sani non hanno le capacità per iniziare il duro percorso migratorio. Ma una volta arrivati a destinazione se i migranti non trovano una sufficiente integrazione diventano presto la parte meno sana delle popolazioni che li ospitano. Se è meglio prevenire che curare allora è anche meglio integrare che disintegrare.

Porre degli argini ai flussi migratori può essere senz’altro necessario, ma ostacolare l’integrazione di chi ad esempio già vive al nostro fianco è assolutamente una scelta non solo sbagliata ma anche, in senso sanitario, pericolosa per tutta la comunità. In Italia hanno la residenza poco più di cinque milioni di stranieri, metà sono europei, un quinto africani ed un quinto asiatici. Poi ci sono un numero non ben precisato, forse mezzo milione, di stranieri non residenti di cui una piccolissima parte sono solo di transito mentre la maggioranza sono migranti irregolari che non possono ottenere la residenza perché non hanno un permesso di soggiorno. Questo numero di non residenti è destinato ad aumentare assai a causa del recente ‘decreto sicurezza’ che obbliga la revoca della residenza alle persone a cui scade il permesso di soggiorno. (vedi www.asgi.it comunicato dell’8/1/19)

Il governo ha detto che anche per costoro i diritti all’assistenza sanitaria sono garantiti ed in parte è vero perché grazie alla 833 chiunque può ricevere in Italia, anche gratuitamente se non ha disponibilità economiche, una assistenza in condizioni di emergenza, ma non può però avere accesso a tutti i servizi sanitari come lo possono avere i residenti.

Un cittadino non residente non ha ad esempio un suo codice fiscale e se viene assistito viene classificato come STP cioè come straniero temporaneamente presente, ed ha diritto alle sole cure, ospedaliere o specialistiche, ritenute urgenti ed indifferibili. Vedi al riguardo le norme su web: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_199_allegato.pdf

Fare dell’epidemiologia con i dati codificati STP è tutt’altro che semplice anche perché spesso i codici STP vengono rilasciati non proprio correttamente ed univocamente, oltre al fatto che questi codici hanno una validità di soli 6 mesi. Analizzare ad esempio gli esiti di una prestazione relativa ad un STP è veramente una operazione difficoltosa se non in molti casi impossibile; e facciamo merito all’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà) di occuparsi di queste problematiche pur nelle notevoli difficoltà.

Qualsiasi indicatore necessita di avere un denominatore, ma se non si hanno dati certi si è costretti a usare delle stime del tutto opinabili, magari accettabili sul totale dei soggetti, ma certamente no sulla distribuzione delle loro caratteristiche. E come si possono analizzare i percorsi assistenziali se le diverse informazioni difficilmente possono trovare un linkage soddisfacente?

In conclusione mi permetto di invitare tutti gli epidemiologi a considerare che l’aumento della dis-integrazione costituisce non solo un problema serio a livello etico e politico, ma anche a livello sanitario ed epidemiologico, sia per quanto riguarda la salute dei migranti ma anche quella della comunità, sia per quanto riguarda le analisi e le valutazioni epidemiologiche, già ogni giorno più difficoltoso a causa delle norme sulla privacy, ma rese quasi del tutto irrealizzabili nei confronti di soggetti cui è stata tolta la residenza.

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