Non vi è dubbio che il servizio sanitario di oggi è un servizio “sanitario”, dove cioè le risorse, le strutture, i servizi, le prestazioni, le attività, etc., tutto è prevalentemente orientato ad affrontare questioni sanitarie. Sarà così anche il servizio sanitario di domani? Tra 10, 20, 30 anni il SSN (o come si chiamerà) avrà ancora la caratterizzazione fortemente sanitaria che ha oggi?

La domanda (e nel seguito non si discuterà se questo SSN funziona o non funziona) non è stata posta per il gusto di giocare ad evocare scenari che, almeno per chi scrive, con molta probabilità interesseranno altri: la domanda è diretta conseguenza delle evoluzioni demografiche che ha subito in questi decenni la popolazione italiana e che hanno trovato nuova linfa e materia nelle recenti proiezioni proposte da ISTAT su come l’Istituto ritiene che evolverà la struttura demografica della nostra popolazione (“Previsioni della popolazione residente e delle famiglie. Base 1/1/2023” del 24 luglio 2024).

Il rapporto dell’Istituto di statistica ha fatto molto scalpore sui media perché secondo ISTAT nel 2080 saranno solo 46 milioni i cittadini residenti nel nostro paese: ecco, non è questa la notizia che mi interessa riprendere, ma ritengo più rilevanti le altre informazioni contenute nel rapporto, ed in particolare quelle che si riferiscono al cambiamento di struttura per età della popolazione ed alla composizione delle famiglie.

Scenari

Non è questo il luogo per una discussione di merito delle metodologie di stima adottate (sono previsti tre scenari: minimo, mediano, massimo): mi bastano le tendenze che sono proposte e come numeri (che servono solo esemplificativamente per ragionare) ho considerato lo scenario mediano.

Donne e bambini

Dopo il boom raggiunto a metà degli anni ’60 del secolo scorso (oltre un milione di nati) le nascite hanno subito due periodi di forte calo (1965-1987, 2009-2024) intervallati da un ventennio di sostanziale stabilità (1988-2008) ed oggi siamo a circa 400.000 nati all’anno. Per gli anni a venire ISTAT prevede un leggero aumento della fecondità accompagnato però da una riduzione delle donne in età fertile (15-49 anni), che da 11,6 milioni del 2023 passeranno a 9,2 nel 2050 ed a 7,7 mln nel 2080, il che porterà ad una tendenziale stabilità delle nascite. Si assisterà quindi, se risulterà vera la previsione di ISTAT, ad una ulteriore contrazione della domanda di servizi e prestazioni dell’area pediatrica ed ostetrico-ginecologica e più in generale di tutte quelle attività (sanitarie e sociosanitarie) che hanno a che fare con la popolazione (soprattutto femminile) sotto i 50 anni, il che implica di tenerne conto nella allocazione delle risorse e soprattutto nella programmazione delle scelte professionali delle persone che intenderanno dedicarsi al comparto sanitario. Inoltre, il restringimento numerico della popolazione che entrerà nel mercato del lavoro aumenterà necessariamente la competizione tra i settori professionali per accaparrarsi il materiale umano disponibile: la sanità dovrà trovare la maniera di risultare attrattiva (o più attrattiva) se vorrà mantenere i numeri di oggi.

Gli anziani

Se sulla parte bassa della distribuzione per età il problema dovrebbe essere sostanzialmente solo una rimodulazione quantitativa delle attività, la prospettiva cambia totalmente se guardiamo all’altro estremo della distribuzione (gli anziani). Da una parte le buone prospettive sulla speranza di vita (+5 anni per gli uomini, +4,5 anni per le donne nei prossimi 50 anni), e dall’altra l’arrivo tra gli anziani delle generazioni del baby boom, aumenteranno considerevolmente questo contingente: dal 24% di popolazione che oggi ha più di 65 anni si arriverà nel 2050 al 35%, e raddoppierà (oggi al 3,8%) la quota dei molto anziani (>85 anni) cioè di quella parte di popolazione che contiene i soggetti più fragili.

Cambio di domanda

Se l’aumento di questa popolazione implica necessariamente la crescita dei servizi e delle prestazioni sanitarie che la riguardano, la questione nuova e principale che si pone è quella di comprendere il cambio di domanda di salute e di assistenza che questa prospettiva si porta dietro. E’ infatti una popolazione caratterizzata dalla insorgenza di patologie croniche, dalla presenza contemporanea di più patologie nello stesso soggetto che partecipano ad aggravare i singoli quadri clinici, dalla comparsa di disabilità e di handicap, da una vita che si allunga ma spesso non in condizioni di buona salute, da un aumento numerico dei decessi e della necessità di accompagnare adeguatamente i cittadini al compimento del loro destino. In questo contesto, e sempre considerando che ci saranno comunque fenomeni ed eventi acuti anche in questa popolazione, l’obiettivo della cura e della assistenza non è più rivolto alla guarigione ma ad altri aspetti come il miglioramento funzionale, la minimizzazione dei sintomi, la prevenzione della disabilità, e così via, come correttamente evidenzia la proposta di aggiornamento del Piano nazionale della cronicità da poco inviata dal Ministero della Salute alla Conferenza Stato-Regioni per approvazione (il piano oggi in vigore è del 2016). Alla centralità dell’ospedale dovrà essere sostituita la centralità del territorio, alla erogazione della singola (o multipla) prestazione si dovrà ovviare attraverso la presa in carico globale del paziente: più in generale si assiste già e si assisterà di più ad un totale cambiamento della domanda di servizi passando dalla preponderanza dell’intervento “sanitario” alla prevalenza delle attività sociosanitarie e di assistenza anche sociale. Vi è quindi l’espansione di aree di attività ed approcci che oggi non ricevono la stessa attenzione dei servizi “sanitari”, particolarmente in alcune regioni (il Mezzogiorno).

Aumenta l’eterogeneità degli interventi, si accentuano le differenze di comportamento tra i territori, occorrerà meglio precisare e qualificare i livelli essenziali di assistenza sociosanitaria, cambia la composizione numerica del rapporto tra erogatori pubblici e privati, entrano in gioco altri attori (in particolare il terzo settore, il mondo del non-profit, il volontariato): si allarga quindi un mondo di attività, di professionisti, di prestazioni e servizi, di bisogni che ricadono economicamente sulle spalle dei cittadini (ad esempio, è clamoroso quanto cresce in queste fasce di età la spesa per prodotti di supporto ed aiuto acquistabili in farmacia o parafarmacia ma non coperti da ticket, esenzioni o altri contributi: siamo nell’ordine di alcune centinaia di euro ogni mese, difficilmente sopportabili da coloro che vivono con la sola pensione minima ma anche da molti di coloro che usufruiscono di quella da lavoro).

Questo passaggio dal sanitario al sociosanitario (con sconfinamento nel sociale) è ulteriormente aggravato dalle mutazioni in corso e/o previste nella struttura della famiglia, perché secondo ISTAT nei prossimi anni avremo famiglie sempre più piccole, caratterizzate da maggiore frammentazione, con notevole incremento di persone sole e di nuclei familiari senza figli, e con aumento degli scioglimenti dei legami di coppia: la domanda di assistenza si sposterà quindi verso il sociosanitario, con servizi e prestazioni che si accavalleranno anche con il sociale aggravandone inevitabilmente una gestione coordinata (considerati gli enti diversi che se ne devono fare carico), oltre che diversificarsi significativamente anche per genere.

Il cambio di struttura e composizione della famiglia (più piccola, più frammentata, con più persone sole, …) ha una enorme ricaduta sulle modalità con cui si risponderà al bisogno soprattutto sociosanitario perché vengono a mancare tutte quelle attività di risposta che in passato venivano risolte all’interno della famiglia e nella estesa rete di parentele cui dava luogo la numerosità dei nuclei familiari, e che già oggi cerca (e domani ancora di più) soluzioni altrove.

Ci sono anche altre modifiche demografiche che meritano attenzione: è il caso delle migrazioni e delle conseguenze sulla sanità e sociosanità di un saldo positivo di circa 200.000 immigrati ogni anno (sempre secondo le stime ISTAT); è il caso del problema generale di sostenibilità economica del SSN per via del fatto che si va verso un rapporto di uno a uno tra la popolazione in età lavorativa e quella non in età lavorativa (sarà ancora sostenibile un SSN fondato solo sulla tassazione?); e si può continuare.

Questa trasformazione deve essere preparata già oggi

Se la prospettiva che qui si è evocata è corretta nella direzione (stime previsionali quantitative a parte, perché come tutte le previsioni, per quanto fondate, possono risultare in pratica anche largamente errate) il SSN di domani sarà molto più sociosanitario di quanto non lo sia oggi, ma questa trasformazione necessita già oggi di essere preparata: non basterà, ad esempio, un cambio di nome (del tipo: Servizio Sanitario e Sociosanitario Nazionale) ma occorrerà un cambio di attitudine nel prendere atto dei nuovi bisogni della popolazione e nell’organizzare la risposta alla diversa domanda di servizi e prestazioni che a tali bisogni consegue, a cominciare dalle definizioni di base (livelli essenziali di assistenza sociosanitaria).

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