Con questa breve nota facciamo il punto sullo scambio di idee che l’Associazione Italiana di Epidemiologia ha avviato dopo l’editoriale1 della direzione di Epidemiologia&Prevenzione circa il contributo che l’epidemiologia può offrire a supporto dell’efficacia del Servizio Sanitario Nazionale, attraverso le 4 domande che qui riproponiamo:

  1. Quali sono le domande di ricerca prioritarie che l’epidemiologia italiana dovrebbe affrontare?
  2. Quali sono le potenzialità e i limiti degli attuali sistemi di valutazione della qualità di assistenza in relazione alle domande di ricerca?
  3. Quali indicatori e/o attività di ricerca epidemiologica sarebbe importante promuovere per introdurre l’approccio di popolazione nella misurazione della qualità e degli esiti dell’assistenza sanitaria?
  4. Quali sono i vincoli principali alla realizzazione di queste attività?

Sono arrivati ben 19 contributi, ricchi di spunti e riflessioni, che sarebbe impossibile sintetizzare rendendo pienamente giustizia. I testi integrali sono pubblicati in un apposito spazio sul sito di E&P.2

In questa sede, proviamo a cogliere alcuni elementi che possono aiutarci a fare un passo avanti nel percorso avviato. Diamo, quindi, per assodati – ma non per questo scontati – alcuni aspetti richiamati nelle premesse di molti dei testi pervenuti:  tra questi, la necessità della collaborazione con altre discipline e dell’integrazione delle competenze a fronte, come dice Giueseppe Costa, di una domanda intrinsecamente multidisciplinare; la consapevolezza – ben evidenziata da Giovannino Ciccone – dell’importanza dell’analisi delle cause della crisi, dal momento che «migliorare la capacità di monitorare gli scompensi di un organismo malato non serve, da sola, a modificarne la prognosi». 

D’altro canto, se è senz’altro vero, come dice Eva Pagano, che le scelte di allocazione delle risorse, ma anche la nomina delle direzioni strategiche, sono una prerogativa della politica, la domanda a cui vorremmo rispondere è: quali sono i metodi e gli strumenti che l’epidemiologia può mettere in campo per una valutazione indipendente degli impatti sulla salute associati alle decisioni? Il tema è complicato dalla «progressiva disgregazione del SSN, frantumato in 20 sistemi regionali, in oltre 200 tra aziende territoriali e ospedaliere pubbliche/IRCCS e in un numero molto elevato di strutture private». Di sicuro non aiuta la mancanza di capillari osservatori epidemiologici regionali, evidenziata da Stefania Salmaso, o che gli effetti della crisi non siano ancora compiutamente misurabili, come sottolinea Costa, osservando che l’arrivo massivo alla terza età avanzata del contingente dei boomer del secondo dopoguerra comporterà un ulteriore aggravio di bisogni di prestazioni e assistenza.  
Riconosciuta la validità di tutte quest istanze, arriviamo al cuore del quesito che ci eravamo posti: quali sono le domande di ricerca prioritarie?

Cerchiamo di articolare la risposta per livelli. 

L’efficacia

Il primo livello è il più strategico e, forse, il più astratto. La domanda diretta ed essenziale è quanto il SSN è efficace nel tutelare la salute dei cittadini, magari usando indicatori molto semplici come la mortalità o la speranza di vita. Si tratta di un quesito a cui molto difficilmente si riesce a rispondere, perché manca una realtà controfattuale. Non abbiamo ovviamente il termine di paragone, una realtà senza SSN, per valutare quanto il SSN conti sulla salute delle persone. Se vogliamo, solo la pandemia del COVID-19, in particolare nel 2020, ha rappresentato la situazione più vicina a una riduzione massiva dei livelli di assistenza, con pesanti conseguenze per i cittadini, come quelle documentate dal gruppo di lavoro interregionale MIMICO-19 (Monitoraggio dell’Impatto indiretto COVID-19),3,4 e una regressione nella speranza di vita che non è interamente attribuibile al COVID-19. Come dice Costa: «La pandemia ha costituito un eccezionale esperimento naturale in cui da un giorno all’altro si sono sospese gran parte delle prestazioni di specialistica ambulatoriale, a eccezione di quelle in urgenza; purtroppo si è persa l’occasione per studiare l’impatto su diversi esiti di salute di questa improvvisa sospensione di un macro-LEA». Ci pare, però, che in realtà ci siano ancora i margini (e la rilevanza) per mettere in campo un’attività di ricerca che esplori quanto suggerito, anche in considerazione del fatto che alcune conseguenze si vedranno nel lungo periodo.

Più in generale, potremmo giovarci di risposte comparative, basate sulla costruzione di una mappa concettuale, come suggerisce Paolo Giorgi Rossi, che provi a individuare le componenti rilevanti del sistema, le loro relazioni, le declinazioni territoriali. Carlo Saitto propone di studiare le relazioni tra i modelli di assistenza realizzati sulla base delle scelte di politica sanitaria e la prevalenza dei rischi, con gli esiti di salute e con la loro distribuzione in termini di equità.

Operativamente, l’eterogeneità dei servizi sanitari regionali, in termini di disponibilità di risorse, di mix pubblico/privato e di modelli organizzativi, potrebbe rappresentare un punto di partenza, anche alla luce delle politiche per il controllo della spesa attuate nel nostro Paese, come con i piani di rientro. E allora, una domanda semplice e perseguibile: quali conseguenze per la salute dei cittadini nelle regioni che sono state per anni in piani di rientro?

Salvatore Scondotto, Stefania Salmaso e Nerina Agabiti suggeriscono di partire dalla costruzione di profili di salute territoriali della popolazione e dallo studio del loro andamento nel tempo, anche alla luce del contesto sociodemografico, aumentando la produzione di conoscenze sul bisogno di salute di sottogruppi di popolazione che spesso sfuggono all’attenzione: i bambini e gli adolescenti, le persone straniere e le seconde generazioni. Laura Reali, in particolare, attira l’attenzione sulla popolazione pediatrica, sugli effetti del mancato supporto alla genitorialità e della frammentazione della prevenzione. Sull’impostazione, Gianni Tognoni richiama l’opportunità di un’epidemiologia fatta di progetti-protocolli multicentrici, molto differenziati per territori, così da essere rappresentativi.

La “mappa” dei bisogni di salute rappresenta la base per individuare le priorità in funzione dell’impatto sulla qualità e sulla quantità di vita delle diverse patologie (Gianni Ippolito) e, quindi, per un’appropriata allocazione delle risorse, individuando appropriate e validate strategie di stratificazione del rischio che tengano conto anche del contesto ambientale e della fragilità sociale (Milena Vainieri).

Le risorse

Il tema delle risorse apre al secondo livello di riflessione. Si chiede Pagano: l’attuale trend di riduzione del finanziamento pubblico, o modifica del rapporto finanziamento pubblico/privato, è tale da determinare un impatto sul livello di salute della popolazione? L’aumento del finanziamento, da solo, è la risposta alla crisi del SSN? Qual è l’impatto di salute derivante dal modo in cui si utilizzano le risorse a disposizione per produrre salute e, in particolare, dall’effetto del mix tra produzione pubblica e privata?

Il tema del rapporto pubblico/privato è ampiamente discusso da Ciccone, non solo sul versante della produzione di prestazioni (le prestazioni ambulatoriali e gli interventi in elezione), ma anche del crescente ruolo delle assicurazioni e della commistione di interessi pubblici e privati anche all’interno delle strutture stesse del SSN. «Dovrà essere documentato quanto le dinamiche attuali stiano determinando disuguaglianze di accesso (e di risultato) e distorsioni nel funzionamento complessivo (con il settore privato che si muove con maggiore libertà sui rapporti di lavoro e sceglie su cosa investire in base a logiche di mercato e il pubblico che deve occuparsi del resto con regole di funzionamento molto stringenti e a volte inefficienti). L’interesse per il tema dello spostamento dei fondi per l’assistenza dal pubblico al privato è di carattere generale: si veda la recente revisione pubblicata su Lancet Public Health5 dove l’evidenza finora disponibile dimostra che a questo spostamento non corrisponde un miglioramento della qualità dell’assistenza.

Garanzie e valutazione

Vi è ancora un livello successivo, più articolato e complesso, sottolineato da Caludio Maffei, relativo alla definizione degli ambiti di garanzia e ai sistemi di valutazione collegati: «Il principale contributo che l’epidemiologia può dare alla gestione della crisi del SSN è nell’elaborazione e nella sperimentazione di modelli di valutazione e monitoraggio sia dell’erogazione di quelli che chiamiamo per comodità livelli essenziali di assistenza (LEA) sia dei processi di innovazione organizzativa che vengono introdotti per migliorarli». Alla fine del mese di marzo 2024, il Ministero della Salute ha comunicato la proroga al 1° gennaio 2025 dell’entrata in vigore del tariffario per i cosiddetti “nuovi” LEA, in realtà adottati con il DPCM del 2017:6 per le Regioni in piano di rientro, significa uno spostamento di un ulteriore anno (rispetto ai 7 già trascorsi invano) per l’introduzione di ben 406 prestazioni – che vengono invece garantite nelle altre Regioni – a causa di contenziosi sulla quantificazione del valore delle tariffe. Le norme introdotte per il controllo dei bilanci regionali ancora una volta diventano fonte di un’evidente disparità di accesso per un numero non irrilevante di prestazioni sanitarie (tra cui gli screening neonatali, la procreazione medicalmente assistita, le prestazioni associate ai disturbi del comportamento alimentare, alla celiachia, al riconoscimento dell’endometriosi eccetera), oltre evidentemente ad alimentare ulteriore mobilità passiva. Un circuito vizioso, che rende disponibili prestazioni solo per chi ha le risorse per spostarsi dalle Regioni in piano di rientro, che vedranno anche sottrarsi i costi della mobilità dalla propria quota di fondo sanitario. 

Nello specifico dei LEA, Costa suggerisce di cercare di dare un valore di salute (“beneficialità”) a ogni LEA (attraverso, per esempio, il calcolo dei DALY associati agli interventi) per poter valutare il guadagno di ogni applicazione e poter rispondere alla domanda trabocchetto per l’epidemiologo «in deficit di risorse, a quali LEA si può rinunciare perché il costo di salute è minore?». Ma «chi ha provato a definire LEA e LEP si è scontrato con molte difficoltà, a cominciare dall’assenza di una metrica comune con cui misurare comparativamente la beneficialità dei diversi LEA e LEP».  Si tratta di un terreno difficile, ma su cui l’epidemiologia si potrebbe cimentare, specie quando si cerca di comprendere l’adeguaezza del Nuovo Sistema di Garanzia dei LEA (NSG). «Tra l’altro – dice Costa – tutte queste piste di metriche comuni per stimare la beneficialità potrebbero avvalersi della buona esperienza italiana nella misura delle disuguaglianze sociali in salute; questo arricchimento farebbe della salute disuguale una metrica comparativa molto operativa, perché il benchmarking sociale di solito è molto eloquente nella comunicazione e serve a creare allarmi su disuguaglianze più pronunciate che diventano occasioni di audit e correzione».

Modelli organizzativi

E infine l’ultimo livello, quello più complesso, che ha bisogno di una buona articolazione della domanda di ricerca e di metodi adeguati. «A parità di modelli di finanziamento e di produzione, il livello di scelta successivo è quello inerente ai percorsi assistenziali, alle alternative organizzative, alle tecnologie». è vero, come dice Pagano, che su questi temi c’è una più consolidata metodologia di analisi e valutazione comparativa (che viene dall’esperienza della valutazione della performance ospedaliera), ma le esperienze italiane sono modeste. Osserva Maffei che vi sono aree quasi completamente fuori fuoco come il sistema dell’emergenza territoriale, la presa in carico della cronicità e l’assistenza domiciliare e residenziale. E – conferma Marina Davoli – le principali evidenze disponibili riguardano l’assistenza ospedaliera, mentre le informazioni sull’area territoriale e di comunità sono frammentarie; bisognerebbe mantenere sempre un doppio approccio, individuare misure sintetiche/indicatori che aiutino a migliorare i processi e studi epidemiologici di relazione causa-effetto sull’impatto di diverse scelte di politica sanitaria, modelli organizzativi eccetera. In questo quadro, Ciccone afferma che «le case della salute o di comunità rappresentano un interessante progetto che dovrebbe migliorare l’integrazione tra ospedale e territorio (altro tema di ricerca per gli epidemiologi), ma in quest’ottica sarebbe utile anche ripensare se la forma della convenzione sia la modalità più efficiente e corretta per definire il rapporto lavorativo tra il SSN e i MMG, i pediatri di libera scelta e gli specialisti ambulatoriali». Nell’editoriale della Direzione scientifica pubblicato sul primo numero di E&P del 2024,1 ci si chiedeva quali fossero gli effetti della carenza del medico di medicina generale, della carenza di prestazioni specialistiche e delle liste d’attesa per interventi di provata efficacia. Mirko Di Martino ricorda anche gli ingenti finanziamenti messi a disposizione del PNRR per rendere l’assistenza territoriale non più un mero filtro delle cure ospedaliere, ma il luogo dell’effettiva presa in carico dei problemi di salute: un contributo dell’epidemiologia a supporto della programmazione potrebbe concentrarsi sulla stima dei bisogni di salute per definire un corretto dimensionamento dei servizi, degli operatori e dei percorsi tra setting assistenziali, anche a livello sub-distrettuale. Fabio Maria Florianello pone il tema anche dal punto di vista delle decisioni sulla dismissione/riconversione dei piccoli ospedali.

Tra i limiti più frequentemente citati, vi sono quelli collegati all’inadeguatezza dei Sistemi Informativi Sanitari, soprattutto su alcuni ambiti tematici, e la difficoltà della loro integrazione (Davoli, Agabiti, Vainieri). Pensiamo quanto l’assenza pressoché totale di informazioni sulle prestazioni erogate in regime di privato puro impedisca una valutazione in termini di appropriatezza e sicurezza delle cure, ma anche quanto pesi nell’analisi delle traiettorie di salute la mancanza di ritorni informativi da parte di un elemento costitutivo del sistema, quale l’assistenza primaria. Francesco Longo mette in evidenza la mancanza di dati sistematici sulle proiezioni di personale disponibile e sulla variabilità dei consumi a parità di condizioni di salute. È necessario, però, sottolineare che i Sistemi Informativi Sanitari nascono per scopi amministrativi e non a fini epidemiologici, come ci ricorda Giorgi Rossi.

Vi sono, invece, alcune opportunità che potrebbero essere rilanciate: Francesco Venturelli e Milena Vainieri rinviano, per esempio, alla possibilità di valorizzare in modo sistematico e in favore della crescita del sistema i risultati delle attività di ricerca finanziate: Ippolito ne sottolinea l’importanza anche in termini di trasferibilità al paziente e rilancia sulla necessità che vengano censiti i programmi di ricerca attivi, le istituzioni coinvolte e l’entità dei finanziamenti. Agabiti suggerisce un’integrazione con i metodi della ricerca qualitativa. Fabrizio Starace, con riferimento alla grande mole di dati resi disponibili dall’introduzione del Sistema Informativo della Salute Mentale, ricorda che, per superare l’approccio di mera documentazione, è necessario mettere a sistema le conoscenze già prodotte e valutarne le ricadute in termini di qualità dell’assistenza. L’integrazione tra sistemi informativi consentirebbe l’analisi di sottogruppi specifici, come le persone che presentano comorbidità con uso di sostanze, che si rivolgono ai servizi di emergenza-urgenza per problemi di natura psichiatrica, per i quali sono necessari programmi di intervento integrati sociosanitari.

Considerando il tema degli indicatori e dei contenuti della ricerca epidemiologica, va considerato che molti dati sono già disponibili: come dice Vainieri: «Attualmente c’è una pletora di sistemi di misurazione e valutazione della qualità dell’assistenza e un ampio elenco di indagini di sorveglianza. La manutenzione di queste diventa sempre più complessa e il rischio di strabismo è elevato». La valorizzazione degli indicatori già disponibili consentirebbe immediatamente valutazioni comparative, come quelli elaborati nel contesto del benessere equo e sostenibile,4 ricordati da Costa. Longo sottolinea che alla molteplicità di dati già disponibili non corrisponde un’uguale ricchezza di analisi delle cause delle criticità, e ancor meno di formulazione di policy di risposta. Starace evidenzia che la mancanza di strategie nazionali sulla valutazione degli esiti nel contesto della salute mentale lascia spazio a iniziative frammentarie di singole Regioni.

In questo senso, Tognoni fa presente che Agenas (o comunque enti di rilievo nazionale)  dovrebbe in questo senso essere un “bene comune” di ricerca epidemiologica, da utilizzare intensivamente per pubblicazioni, insegnamento, pianificazioni locali specifiche, oltre che per valutazioni epidemiologiche generali.

Su altri aspetti: documentare il ricorso al pronto soccorso, riconoscendo le quote di inappropriatezza, e le difficoltà nelle dimissioni protette, potrebbe contribuire a individuare le lacune assistenziali, osserva Ciccone; monitorare l’accesso alle cure; per esempio, attraverso il calcolo del catchment index potrebbe aiutare a valutare la copertura della domanda per le prestazioni ambulatoriali, come suggerito da Longo e Vainieri, che invitano anche a cimentarsi nell’introduzione di valutazioni di efficacia nel campo della telemedicina; in ambito “salute mentale”, bisognerebbe implementare sistemi di monitoraggio dell’abbandono delle cure (Starace); sviluppare indicatori di percorso assistenziale, non centrato su singole patologie, ma sulle persone con multicronicità, contribuirebbe alla valutazione della presa in carico nel contesto dell’assistenza territoriale (Agabiti, Davoli, Di Martino, Vainieri).

Di Martino suggerisce anche la necessità di approfondire i metodi per le valutazioni di impatto (come analisi delle serie storiche interrotte, auspicabilmente con uno o più gruppi di controllo, analisi difference in differences) per misurare gli “effetti” dei nuovi modelli organizzativi, oppure di interventi che possono costituire una best practice da generalizzare in contesti più ampi. Un ulteriore ambito di ricerca è quello del possibile supporto alla “medicina di iniziativa” attraverso approcci integrati che consentano l’identificazione dei soggetti fragili/vulnerabili/suscettibili eleggibili per una prevalutazione multidimensionale e la presa in carico. A questo proposito, sottolinea l’esigenza di un ripensamento degli indici di deprivazione, alla luce della nuova impostazione campionaria del censimento permanente della popolazione di Istat.

Con riferimento ai vincoli, in primo luogo vanno citati quelli imposti alla ricerca epidemiologica dal regolamento sulla protezione dei dati. Come dice Giorgi Rossi, si può considerare il monitoraggio della qualità dell’assistenza come estraneo al contratto terapeutico? Se, come è evidente, la risposta è no, è urgente un ripensamento dei limiti al cosiddetto uso secondario dei dati e alla loro interconnessione.

Salmaso collega la mancanza di accesso ai dati anche al tema della loro libera circolazione non solo tra operatori, ma anche verso i cittadini, come limite alla possibilità di formare scelte consapevoli di orientare con opinioni informate le scelte politiche. Sull’importanza del coinvolgimento dei cittadini nella difesa del SSN si sofferma anche Ciccone. Un vincolo in questo percorso è evidenziato da Saitto, che sottolinea un’insufficiente capacità di comunicazione, che si somma alla sostanziale marginalità dell’epidemiologia nella governance di sistema. Anche Scondotto rileva l’esigenza di una chiara committenza al contributo dell’epidemiologia nei processi decisionali, ma Maffei torna sul tema della frammentazione della funzione epidemiologica e sulla disomogenea presenza nei diversi territori regionali che è stato affrontato su queste pagine nell’ambito del dibattito sul ruolo dell’epidemiologia.1,2 Anche le risorse a sostegno della ricerca indipendente appaiono largamente insufficienti (Ippolito, Saitto).

E, allora, cosa può fare AIE?

La costruzione di reti collaborative di confronto e di ricerca possono favorire lo sviluppo di indagini, il consolidamento dei metodi, il trasferimento dei risultati, agendo come collante sia sulla dispersione dei centri sia per ridurre la distanza dai processi decisionali, anche attraverso un’interlocuzione strutturata con gli enti centrali.

Deve essere superato il bias di fondo dell’epidemiologia (e delle tante discipline che si intrecciano per produrre conoscenza sulla vita delle popolazioni) da cui ci mette in guardia Tognoni e che Cesare Cislaghi chiama “rischio del bird-watching”, quello di darsi prevalentemente  un’identità/ruolo di “descrizione-narrazione” di ciò che succede, con un’ulteriore preferenza per uno sguardo al passato, e sostanzialmente “indifferente” al se e come i suoi dati saranno utilizzati, e da chi,  e quando, e su che scala, per obiettivi di salute pubblica.

Un’azione che veda la partecipazione di diverse strutture e di diverse realtà regionali certamente aiuterebbe nella lettura della variabilità dei processi e degli esiti, colmando le lacune conoscitive sui differenti meccanismi di funzionamento, ma consentirebbe anche lo scambio di strumenti e risorse e, quindi, l’aumento della nostra capacità complessiva di produrre conoscenza in favore del sostegno di un SSN efficace.

La molteplicità dei contributi giunti, la ricchezza e la profondità delle riflessioni e delle proposte, la lucidità nell’analisi dei limiti e dei vincoli rappresentano un ottimo auspicio per la costituzione di un gruppo di lavoro dedicato che potrà fare sintesi dei suggerimenti e delle indicazioni per avviare un percorso di discussione e ricerca che possa contribuire a evidenziare potenzialità e limiti del Servizio Sanitario Nazionale in termini di copertura, di equità e in relazione ai bisogni attuali e futuri della popolazione.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Ringraziamenti: Si ringraziano le autrici e gli autori dei contributi: Nerina Agabiti, Giovannino Ciccone, Giuseppe Costa, Marina Davoli, Mirko Di Martino, Fabio Maria Florianello, Paolo Giorgi Rossi, Gianni Ippolito, Francesco Longo, Claudio Maffei, Eva Pagano, Carlo Saitto, Stefania Salmaso, Salvo Scondotto, Fabrizio Starace, Gianni Tognoni, Milena Vainieri, Francesco Venturelli.

Bibliografia

  1. Direzione Scientifica di Epidemiologia & Prevenzione. Come si misura il peso della crisi del SSN sulla salute dei cittadini italiani? Epidemiol Prev 2024;48(1):4-5. doi: 10.19191/EP24.1.013
  2. Dibatitto sul ruolo dell’epidemiologia nel SSN. Disponibile sul sito di E&P all’indirizzo: https://epiprev.it/page/spazio-ssn
  3. Spadea T, Di Girolamo C, Landriscina T et al. Indirect impact of Covid-19 on hospital care pathways in Italy. Sci Rep 2021;11(1):21526. doi: 10.1038/s41598-021-00982-4
  4. Di Girolamo C, Gnavi R, Landriscina T et al. Indirect impact of the COVID-19 pandemic and its containment measures on social inequalities in hospital utilisation in Italy. J Epidemiol Community Health 2022:jech-2021-218452. doi: 10.1136/jech-2021-218452
  5. Goodair R, Reeves A. The effect of health-care privatisation on the quality of care. Lancet Public Health 2024;9(3):e199-206. doi: 10.1016/S2468-2667(24)00003-3
  6. Fassari L. Per i nuovi Lea si dovrà attendere ancora. Ecco il decreto che proroga al 1° gennaio 2025 l’entrata in vigore del Dm Tariffe. Ma per rivedere il nomenclatore è caccia alle risorse. Quotidianosanità.it, 27.03.2024. Disponibile all’indirizzo: https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=121227
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