Riassunto

Nelle società basate sulla conoscenza la scienza e il diritto rappresentano i principali creatori di regole e ordine. Le relazioni tra conoscenze e norme sono particolarmente delicate negli ambiti in cui l’incertezza scientifica e la causalità probabilistica sono più frequentemente coinvolte, come ambiente e salute.
La decisione del Tribunale di Firenze – presa qui in esame – ha a che fare con le correlazioni incerte tra PM10 e salute.
Questo caso penale coinvolge alcuni amministratori pubblici della Regione Toscana, accusati di non aver adottato misure adeguate a mantenere i livelli di PM10 nei limiti stabiliti dalla direttiva europea 2008/50/EC sulla qualità dell’aria. Nell’argomentare l’infondatezza delle accuse, il tribunale, se da un lato invoca la validità della scienza, dall’altro sceglie deliberatamente le prove scientifiche a sostegno di ben precise implicazioni giuridiche. Le condizioni meteorologiche vengono considerate l'unico determinante degli alti livelli di PM10; la loro incertezza è inquadrata come imprevedibilità e non governabilità assolute; ne consegue la non responsabilità.
Il concetto di coproduzione viene utilizzato come strumento critico per mettere a nudo le complesse relazioni tra scienza e diritto mostrando che concetti giuridici e scientifici si generano e si influenzano a vicenda anche quando la legge dichiara di basarsi sulla scienza in modo neutrale e oggettivo.

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Abstract

Science and law can be seen as the main creators of orders and rules in knowledge-based societies. These relations are particularly delicate in domains where scientific uncertainty and probabilistic causality are more frequently involved, such as environment and health.
The decision of the Court of Florence (Tuscany Region, Northern Italy) (Second Criminal Division, 3217/2010, 17th May 2010) – here analysed – deals with the uncertain correlations between PM10 and health. The criminal law case involved some public officers in Tuscany, indicted for having failed to adopt the adequate measures to keep PM10 levels within the limits set by European Directive 2008/50/EC on air quality. In arguing that accusations were ill-founded, the Court, while invoking the validity of science, deliberately chose the scientific evidence relevant to drawing specific legal consequences. Meteorological phenomena are considered as the single determinant of high levels of PM10; their uncertainty is framed as absolute unpredictability and ungovernability, and from these flaws non-responsibility. 
The concept of coproduction is applied as a useful critical tool to open up the complex relationships between science and law by showing how scientific and legal concepts generate and influence each other even when legal regulations claims to be neutrally and objectively science-based.

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Introduzione

Nelle odierne società knowledge-based, fondate sulla conoscenza, scienza e diritto sono diventati «i due principali creatori di ordine e regole»,1 rappresentando i punti di riferimento, l’una della descrizione del mondo, l’altro della costruzione delle azioni umane. Ne deriva che le relazioni tra scienza e diritto sono oggetto di grande attenzione e numerose controversie. In questo contesto, il concetto di “coproduzione” tra scienza e diritto è stato introdotto dalla studiosa statunitense Sheila Jasanoff per alludere al vicendevole interagire e legittimarsi tra i due sistemi. La scienza è diventata la fonte più autorevole di conoscenza per il diritto, il diritto costituisce un fattore determinante nello sviluppo della scienza, che si muove socialmente attraverso le reti di norme elaborate dal diritto (dal laboratorio alla società). Il diritto fa riferimento alle conoscenze giuridiche per rendere più oggettivo e autorevole il proprio intervento. Al tempo stesso, tuttavia, molti concetti scientifici sono definiti da norme giuridiche, dalle quali dipendono, perché l’innovazione scienti- fico-tecnologica possa muoversi in armonia con i principi, diritti e valori generali fissati dagli ordinamenti.
L’ambito giudiziario è certamente uno dei più sollecitati da queste nuove relazioni. La riflessione su come i giudici debbano affrontare le questioni scientifiche, e in particolare l’incertezza scientifica, impegna e divide giuristi, policy maker e scienziati, come pure i sistemi normativi di common law e civil law, che elaborano il diritto, rispettivamente, attraverso le decisioni caso per caso delle corti, oppure con l’intervento generale del legislatore. Negli Stati Uniti, dove il dibattito sulla “scienza dei giudici” è stato da lungo tempo avviato, le tendenze vanno da forme di deferenza giudiziale nei confronti della scienza “ufficialmente” valida, alla scelta diretta e argomentata da parte dei giudici delle ipotesi scientifiche considerate affidabili.2 Anche in Italia, insieme al diffondersi degli studi di scienza e diritto, i giudici si sono sempre più spinti a ragionare di scienza: non soltanto per le tradizionali funzioni di periti peritorum – decisori ultimi delle questioni sia di fatto che di diritto – bensì in virtù delle neo acquisite competenze epistemologiche.
Ma quando la scienza si rivela incerta – di fatto sempre, data la complessità dei problemi che le società fondate sulla conoscenza e l’innovazione devono dipanare – l’inscindibile connessione tra fatti e valori diviene un terreno molto delicato e il diritto è chiamato a risolvere in via normativa i nodi non districati dal sapere scientifico, dovendo scegliere l’ipotesi scientifica da privilegiare. In base a quali criteri il diritto sceglie, e con quali conseguenze? Appare infatti chiaro che, quando i confini tra fatti e valori si mescolano, la scelta giuridica non può essere univocamente motivata dall’appello alla scienza valida. Nei Paesi europei, dove la salute è un diritto fondamentale garantito dalle costituzioni, il principio di precauzione è stato da tempo identificato quale criterio normativo di scelta. L’idea di precauzione suggerisce che il livello di rischio socialmente accettabile costituisce una responsabilità politica; in altri termini, la salute dei cittadini dovrebbe in linea di principio prevalere sull’innovazione tecnologica. Tale principio, tuttavia, fatica ad armonizzarsi con il diritto penale, «l’incertezza scientifica […] va risolta sia nell’ambito del rapporto causale sia nell’ambito della ’imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata “oltre il ragionevole dubbio”, regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento».3,4

Il caso PM10 a Firenze

Le questioni di salute e ambiente si sono ormai da decenni dimostrate terreno di grande rilevanza, per l’incertezza che connota le previsioni statistiche sui potenziali danni alla salute. Negli Stati Uniti la tendenza prevalente è consistita nel configurare le fattispecie di inquinamento e disastro ambientale nel quadro del diritto civile e del risarcimento economico, per evitare le difficoltà di prova sia dei nessi causali sia gli elementi soggettivi richiesti dal diritto penale. Anche nel contesto europeo si discute – e la questione resta aperta – dell’appropriatezza dello strumento penalistico nel dare risposta a eventi di inquinamento non direttamente e intenzionalmente prodotti, ma dipendenti da misure politico-amministrative inadeguate o insufficienti. Nell’ordinamento italiano il risarcimento economico del danno appare insufficiente a rendere ragione di un bene giuridico e un diritto fondamentale quale è la salute, dal momento che la Costituzione italiana si caratterizza per un’impostazione personalistica: la tutela del valore della persona. Ma, al di là dello strumento giuridico utilizzato, pur determinante nella diversa rilevanza dei dati probabilistici, la visione del rapporto tra scienza e diritto esige anche altre riflessioni, che si interroghino sulle operazioni epistemiche che i giudici compiono nella validazione della scienza in tribunale. In questa prospettiva, risulta particolarmente interessante la sentenza 3217/2010,5 con cui il Tribunale di Firenze, Seconda sezione penale, ha assolto in primo grado il Presidente della Regione Toscana e numerosi sindaci e amministratori locali dall’accusa di rifiuto di atti di ufficio in relazione alla predisposizione di un piano di intervento vincolante per fronteggiare il fenomeno di inquinamento dell’aria causato dal traffico.6
Nella richiesta di rinvio a giudizio, il PM aveva ritenuto che, in quanto investiti di una posizione di garanzia, gli amministratori locali dovessero essere considerati responsabili delle elevate emissioni di PM10 presenti a Firenze e in molte città toscane. Infatti, ex art. 40 comma II del Codice penale, «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo»; e, secondo l’art. 674 c.p., «chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito [...]».
Diversamente, i giudici di Firenze sono giunti alla conclusione che «il fatto non sussiste» e, nell’assolvere tutti gli imputati, il tribunale ha fatto largamente riferimento all’incertezza. Da una parte, le correlazioni tra l’incremento delle concentrazioni di materiale particellare e l’incremento di mortalità o di ricoveri sono affette per loro natura da valutazioni probabilistiche che rivelano causalità generali (il carattere nocivo del PM10), ma non la causalità connessa a specifici eventi (gli individui concretamente toccati dall’incremento del numero annuale di decessi per patologie correlate). Dall’altro, non si può affermare – così dicono i giudici – che «esista alcun nesso di causa tra le presunte omissioni addebitate agli imputati e l’evento (che comunque non è reato), cioè il superamento dei limiti delle concentrazioni di PM10» (p. 115). Peraltro, l’attività causalmente ricollegabile all’elevato inquinamento, cioè la circolazione di veicoli, non dà luogo a immissioni proibite dalla legge (p. 63). Inoltre, eventuali ulteriori misure volte ad abbattere l’inquinamento non avrebbero necessariamente scongiurato l’innalzamento dei livelli delle polveri sottili, le cui cause includono fattori (come quelli meteorologici) largamente imprevedibili e ingovernabili.
In sintesi, quindi, non solo le numerose incertezze che circondano gli effetti sulla salute del particolato non consentono di individuare responsabilità individuali e personali, ma l’omissione di atti volti a prevenire la formazione del particolato non può essere letta come produzione dell’evento. Se queste brevi notazioni delineano il quadro argomentativo della sentenza, le riflessioni che seguono si concentrano, però, su alcune questioni specifiche affrontate nella sentenza: queste rivelano come l’approccio della coproduzione rappresenti uno strumento cruciale per aprire criticamente e rendere più trasparenti i rapporti reali tra dati scientifici e qualificazioni normative.
Tre argomenti, in particolare, appaiono interessanti:

  • il primo riguarda l’incertezza come imprevedibilità di specifici eventi, qui, in particolare, meteorologici;
  • il secondo concerne l’ideologia dell’inquinamento quale correlato necessario dello sviluppo tecnologico e, quindi, del benessere nelle società avanzate;
  • il terzo verte sulla conoscenza “ufficiale” prodotta dalle amministrazioni tecnico-giuridiche competenti quali fonti indiscusse di validità scientifica.

Se i tre punti ugualmente segnalano questioni aperte nel dibattito tra scienza e diritto, l’ultimo – il sapere scientifico prodotto da fonti ufficiali – è forse il più decisivo rispetto a possibili evoluzioni future. La domanda su chi possono essere gli autori della scienza valida, infatti, apre a scenari nuovi nella ripartizione di funzioni, tra pubblico e private, nella produzione di conoscenza.

L’incertezza della scienza: indecidibilità come irresponsabilità

La nozione di incertezza è stata modulata per finalità di policy attraverso tre differenti concetti: rischio, incertezza in senso proprio e ignoranza.7 Nel rischio sono note e quantificate sia le variabili del problema sia la probabilità di possibili eventi negativi; nell’incertezza le variabili sono individuate, ma non quantificate; nell’ignoranza, nemmeno le variabili sono determinate.  Entro certi limiti queste indicazioni possono guidare gli spazi di discrezionalità interpretativa a fronte di dati probabilistici; e talora i sistemi normativi forniscono specifiche direttive interpretative, come accade, per esempio, in Europa con il principio di precauzione (della cui delicatezza nel contesto penalistico si è però detto sopra). Affrontando le molteplici questioni di incertezza, tuttavia, la sentenza fiorentina sul PM10 adotta strategie interpretative piuttosto peculiari. Un primo esempio è rappresentato dal modo in cui  vengono analizzate perizie scientifiche contrastanti. Lo stile epistemologico della corte oscilla tra l’appassionata e diretta disputa scientifica, per esempio sui fattori meteorologici, e la rinuncia e l’autoconfinamento entro i limiti di una logica binaria secondo cui perizie contrapposte si elidono reciprocamente a favore dell’imputato. Questo secondo atteggiamento emerge fin dalle prime pagine della sentenza, dove l’incertezza viene tout court qualificata come totale assenza di prove: «da valutazioni scientifiche divergenti, seppure tutte astrattamente valide [...] non potrebbe che scaturire la doverosa assoluzione degli imputati, preso atto dell’insanabile divergenza delle tesi e conclusioni sull’argomento, in un ambito peraltro di pari dignità scientifica» (pp. 24-25).
Diverso è però l’approccio all’interpretazione dei fattori meteorologici, dove la corte si lancia in una circostanziata querelle scientifica, osservando, per esempio, che «la riduzione percentuale delle emissioni in una certa zona urbana potrebbe fornire risultati pratici molto differenti rispetto a un’altra area proprio a causa della diversa natura e intensità dei fenomeni meteorologici» (p. 88).
Il dibattito epistemico diretto, tuttavia, si traduce poi in una più generale interpretazione della non-prevedibilità dei fenomeni meteorologici, che «influenzano […] tutti i meccanismi di formazione del particolato» (p. 88). Qui i giudici non esitano a schierarsi nettamente a favore dell’assoluta prevalenza causale dei fenomeni meteorologici nel favorire il superamento delle soglie legali di PM10: prevalenza che, determinando la completa ingovernabilità sia degli eventi atmosferici sia del PM10, non può che risolversi nell’impotenza di qualunque intervento amministrativo.
Secondo i giudici, male ha fatto il Pubblico ministero a non riconoscere il valore causale degli agenti atmosferici. «Non tenere conto delle influenze meteorologiche nello studio della formazione delle concentrazioni di PM10 eccedenti i limiti […] è sicuramente una scelta errata» (p. 106).
Ma quale significato concreto si può dare al termine “imprevedibilità” quando tutti i fenomeni sono ormai interpretati su base probabilistica? L’incertezza di specifici eventi individuali non cancella la complessiva prevedibilità delle relazioni tra livelli di inquinamento e condizioni meteorologiche, suggerendo misure di intervento adeguate e proattive (precauzionali). Anche se, come già detto, la questione resta delicata nel diritto penale (e nella causalità specifica), il punto che qui si vuole sottolineare è un altro: erigere il modello penalistico a visione epistemologico-giuridica generale è pericoloso. Oggi la scienza è sinonimo di incertezza; ma se ogni forma di incertezza scientifica viene interpretata giuridicamente come imprevedibilità e può dar luogo solo a irresponsabilità, è chiaro che gli strumenti normativi devono interrogarsi più a fondo sul rapporto tra incertezza e responsabilità. Non è un caso se tutte le policy sull’innovazione tecnologica, non solo in Europa, si stiano raccogliendo intorno al principio della “ricerca e innovazione responsabili” (Responsible Research and Innovation, RRI).

Malati di benessere: la filosofia dei giudici su inquinamento e sviluppo

Un’idea, o meglio un’ideologia, riemerge più volte nel testo della sentenza e rivela il retroterra valoriale che ha ispirato le scelte interpretative. A parere dei giudici, l’inquinamento rappresenta l’inevitabile prezzo da pagare allo sviluppo tecnologico ed economico che genera il benessere delle società industriali avanzate: solo dove esistano sufficienti benessere e ricchezza, infatti, è possibile raggiungere un elevato livello di tutela della salute. In passato le popolazioni morivano di peste, oggi ci lamentiamo delle polveri sottili. «Le disquisizioni sulla presenza oggi nell’aria del PM10 […] – quando pochi secoli fa infieriva la peste narrata dal Manzoni – e della sua relativa nocività perdono ogni connotazione drammatica» (corsivo mio) (p. 44). Non solo, secondo la corte il problema dell’inquinamento va ridimensionato, ma il riconoscimento di un valore eccessivo ad ambiente e salute può essere all’origine di un «impoverimento generale dell’intera nazione, con nefaste conseguenze sulla salute dei cittadini» (p. 106). «È quindi necessario – così sostengono i giudici – che nel mondo sviluppato le politiche di tutela del territorio e della salute non sopprimano le politiche economiche volte a favorire e promuovere l’accumulo di surplus di ricchezza» (p. 113). Non è dato sapere quali siano le fonti normative di questa personale interpretazione dello sviluppo sostenibile che capovolge i termini della tutela. Il concetto di sostenibilità, pur nelle più blande versioni, è stato introdotto per valorizzare e rispettare ambiente e salute, non per subordinarli allo sviluppo. Diversamente interpretata, la nozione diventa irrilevante, appiattendosi sulle concezioni preesistenti dell’unico valore della crescita economica. Inoltre, oggi si ritiene – in molte società tecnologicamente avanzate e certamente all’interno delle policy dell’Unione europea – che l’innovazione si qualifichi realmente come tale solo quando incorpora i valori di salute e ambiente: non esiste, insomma, alcun legame logico necessario tra inquinamento e innovazione.
Come si può interpretare questa lezione su innovazione e sviluppo a opera della corte? Lo sfondo della rovina del Paese e l’evocazione della peste manzoniana rappresentano un immaginario suggestivo, ma forse poco adatto a chi è chiamato a proteggere valori costituzionali. Se è vero, come si è accennato sopra, che il diritto penale non riesce a dare risposte proattive soddisfacenti ai problemi di salute e ambiente qui in esame, limitandosi a intervenire “ex post” con strumenti punitivi, una visione vetero-economicistica dello sviluppo resta similmente impigliata in una retorica difensiva che guarda al passato invece che al futuro.

La costruzione della scienza ufficiale e le centraline nei parchi

Come si è detto, il punto più interessante della sentenza, e l’elemento forse più innovativo nel proseguo del processo, riguarda la costruzione della scienza valida e rilevante ai fini del giudizio nel mostrare il superamento delle soglie di inquinamento imposte dall’Unione europea.8
Il piano originario di monitoraggio del particolato a Firenze prevedeva numerose centraline, posizionate in modo da consentire un campionamento rappresentativo sia dell’inquinamento più elevato, attraverso le “centraline di traffico”, sia dell’inquinamento presente in aree meno esposte al passaggio di veicoli, misurate dalle “centraline di fondo”. Le prime saggiano il PM10 in aree di passaggio, ma scarsamente adibite a permanenza residenziali; le seconde indicano i valori di esposizione in aree dove gli abitanti vivono e ipoteticamente trascorrono più tempo. La combinazione dei due diversi tipi di dati consentirebbe una valutazione delle esposizioni medie.
Tuttavia, la progressiva rimozione, negli ultimi anni, di molte centraline di traffico ha creato una situazione di monitoraggio anomalo, che rende difficile un apprezzamento bilanciato, se non “oggettivo”, dei livelli di PM10. A queste condizioni già alterate, i giudici hanno contribuito con la propria scelta interpretativa della scienza valida e rilevante, escludendo sistematicamente i dati prodotti dalle rimanenti centraline di traffico e scegliendo di analizzare unicamente i valori delle centraline di fondo.
La decisione epistemologica e giuridica di scartare le centraline che rivelano i valori più alti di PM10, eccedenti i limiti imposti dalla normativa comunitaria, viene “statisticamente” argomentata con il fatto che esse puntano solo alla «esposizione estrema di una parte molto limitata della (popolazione)» (p. 45). Poiché le centraline di traffico sono site in luoghi di passaggio, l’unica scienza attendibile viene individuata nei dati delle centraline di fondo. Trovandosi in aree dove gli abitanti risiedono e trascorrono gran parte della vita, esse misurano – così i giudici – «l’esposizione della popolazione urbana generale» (p. 43) e corrispondono «a valutazioni più oggettive» (p. 45).
Quanto siano oggettivi tali dati è facilmente inferibile dalla collocazione delle due centraline di fondo, una nei giardini di Boboli su cui si affaccia Palazzo Pitti, l’altra in viale Bassi: luoghi, entrambi, davvero “metafisici” dal punto di vista sia del traffico automobilistico sia della permanenza abituale della popolazione.
Peraltro, lo stesso superamento dei valori accettati di PM10, nel Giardino di Boboli, per un totale di 37 giorni (contro i 35 giorni del massimo legale) viene giudicato «irrilevante» dalla corte, in quanto «unico e limitatissimo» (p. 46).
La scelta interpretativa della corte è un chiaro esempio di come dati scientifici e interpretazioni giuridiche tendano a fondersi e a legittimarsi reciprocamente. Se questa coproduzione è inevitabile, essa va però riconosciuta e vanno rese trasparenti le opzioni valoriali a essa sottese. In altri termini, la decisione di privilegiare i dati che consentono di negare il superamento dei limiti di legge per il PM10 non può essere resa oggettiva dal mero riferimento alla scienza valida.
Che questa pretesa oggettività non abbia convinto la popolazione si evince dall’interessante iniziativa di citizen science cui ha dato autonomamente avvio un cittadino fiorentino
, insieme a due avvocati e ad alcuni epidemiologi. Niccolò Cangioli ha deciso di installare, con criteri rigorosi di scientificità controllati dagli esperti coinvolti, una stazione di monitoraggio del PM10 nel proprio cortile di casa per confrontare questi dati con quelli di ARPAT, e ha reso pubblica l’iniziativa attraverso un sito web aggiornato in tempo reale. A distanza di oltre un anno, l’azione di “monitoraggio privato” ha raggiunto una consistenza quantitative tale da poter competere efficacemente, anche in giudizio, con la scienza ufficiale.   
Questo tipo di attività di “scienza prodotta dai cittadini”, in cui si trovano associati scienziati e non esperti, uniti dalla condivisa vocazione civica per la tutela di valori comuni, rappresenta la nuova frontiera nella produzione della conoscenza valida (peer-production of knowledge) nella soluzione di problemi sociali a base scientifica.
Non resta che attendere il prossimo grado di giudizio per capire come i giudici accoglieranno queste nuove sfide epistemico-giuridiche.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno

Bibliografia e note

  1. Jasanoff S. Science and Public Reason. Oxon, Routledge, 2012. Versione italiana: Jasanoff S. La scienza davanti ai giudici. Milano, Giuffrè, 2001.
  2. La prima tendenza, comunemente chiamata Frye standard – dal nome del caso, deciso nel 1923 dalla Court of Appeals of the District of Columbia (D.C. Cir. 293 F. 1013, 1923) – ha rappresentato per molti decenni la modalità indiscussa per risolvere situazioni in cui il sapere oggetto della prova si presenti come una “zona grigia” tra conoscenza acquisita e ipotesi sperimentale. La seconda, che si richiama invece al caso Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, deciso nel 1993 dalla Corte suprema degli Stati Uniti (USSC 509 U.S. 579 (1993), attribuisce ai giudici il ruolo di epistemologi del caso concreto, corredandoli di una lista di criteri idonei a “codificare” il metodo scientifico. Anche se l’approccio Daubert ha perlopiù soppiantato Frye dopo la sua formulazione, benché il criterio della general acceptance venga menzionato Daubert, l’ingresso in aula di scienze e tecnologie largamente incerte e controverse (come neuroscienze e brain imaging) ha nuovamente rinvigorito Frye.
    In Italia il metodo Daubert è arrivato attraverso il processo di Porto Marghera, dove in primo grado i giudici hanno quasi pedissequamente tradotto e applicato la lista di Daubert.
  3. Così il Tribunale di Venezia, Sezione I pen,  Sentenza n. 173 del 2.11.2001, nella sentenza di primo grado a Porto Marghera. Il passo è tratto dal sito http://ivdi.it/Petrolchimico/home_petrolchimico.htm (ultimo accesso: 23.3.2014). Nel secondo grado di giudizio, come è noto, gli imputati sono stati condannati; ma, a riconferma del principio, ciò è avvenuto più sulla base delle evidenze di colpevolezza soggettiva che sul piano della causalità.
  4. De Marchi B, Tallacchini M (eds). Politiche dell’incertezza, Scienza e Diritto. Politeia 2003, XIX, 70, p.134.
  5. Tribunale di Firenze, Seconda Sezione penale, sentenza n. 3217/2010 del 17.5.2010.
  6. Per l’esposizione dei fatti relativi al caso, si veda in questo fascicolo, la scheda di p. 153.
  7. European Environmental Agency. Late Lessons fron Early Warnings. Science, precaution, innovation. EEA Report n. 1/2013. Disponibile all’indirizzo: http://www.eea.europa.eu/publications/late-lessons-2 (Ultimo accesso: 26.3.2014).
  8. In particolare nella Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21.5.2008 relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa.
  9. Boffetta P, McLaughlin JK, La Vecchia C, Autier P, Boyle P. “Environment” in cancer causation and etiological fraction: limitations and ambiguities. Carcinogenesis 2007;28(5):913-5.

 

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