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E&P 2023, 47 (1-2) gennaio-aprile, p. 14-16
DOI: https://doi.org/10.19191/EP23.1-2.014
Comunicazione
Lasciarsi Merton alle spalle, ma per andare in quale direzione?
Leaving Merton behind, but to go in which direction?
Nel suo articolo, Tallacchini solleva importanti questioni sulle caratteristiche della scienza contemporanea e suggerisce di abbandonare una visione basata sul cosiddetto CUDOS mertoniano, fondato sui principi di comunalismo, universalità, disinteresse e scetticismo organizzato.1 L’autrice sottolinea come tale concezione sia irrealistica, perché non tiene conto dell’influenza che i diversi aspetti valoriali hanno durante tutte le fasi della produzione scientifica. È infatti ormai largamente accettato come diversi fattori extra-scientifici giochino un ruolo rilevante nella scelta degli obiettivi della ricerca, dei metodi considerati accettabili per perseguirli e dei criteri utilizzati per interpretare i risultati.2-4 Da un certo punto di vista, le debolezze del modello mertoniano riflettono la più generale crisi che la scienza ha dovuto affrontare a partire dalla seconda metà del Novecento, quando ci si è resi conto che la separazione tra fatti e valori, elemento che viene spesso considerato uno dei segni distintivi del pensiero moderno, non si era realizzata nella maniera in cui una certa tradizione ci aveva abituati a credere.5 Mentre questo fenomeno è quindi ben noto nell’ambito della filosofia della scienza, non sempre gli viene data la stessa rilevanza tra gli scienziati. Basti pensare all’adagio «la scienza non è un’opinione», tanto usato durante la pandemia dai vari esperti presenti nei vari programmi televisivi, tranne poi venire regolarmente smentito proprio dalla diversità dei punti di vista degli stessi ospiti. In questo senso, la discussione sollecitata da Tallacchini è quanto mai opportuna, in particolare se spostiamo il nostro sguardo dalla scienza in generale all’epidemiologia. Non sono molte, infatti, le discipline che hanno un campo di indagine che spazia dall’ambito molecolare a quello macro-sociale, il che obbliga ogni volta a scelte valoriali sul livello di indagine più adatto per analizzare un problema specifico, che metodi utilizzare, quali dati ed evidenze considerare rilevanti e così via. Inoltre, il rapporto stretto (e mai completamente definito) tra epidemiologia e sanità pubblica ha spesso spinto i ricercatori a chiedersi se i valori di queste due discipline dovessero necessariamente coincidere. Non è forse un caso che questi due temi abbiano animato una delle più importanti discussioni sull’identità e le finalità della disciplina, scaturita poi nella famosa “disputa sulla povertà”, icasticamente riassunta dall’aforisma di Neil Pearce: «gli epidemiologi si occupano solo dei fattori di rischio a cui sono esposti e l’indigenza non è tra questi».6-10 Se il livello socioeconomico debba essere l’obiettivo della ricerca o solo una variabile di aggiustamento; se gli RCT debbano costituire il paradigma metodologico di riferimento per qualunque tipo di ricerca epidemiologica; cosa voglia dire, veramente, fare ricerca a livello di popolazione e non di individui; non è difficile intravedere nei temi di allora un enorme carico valoriale, che continua peraltro a essere argomento di discussione.11 Guardando l’incredibile commistione di fatti e valori nell’epidemiologia di ieri come di oggi e parafrasando Latour, viene da chiedersi se effettivamente l’epidemiologia sia mai stata moderna, con buona pace di Rothman e dei suoi epigoni.12
Tempo di dare l’addio definitivo a Merton, quindi? Prima può essere utile ricordare che il CUDOS ha un valore sia descrittivo (ci dice come la scienza è) sia normativo (ci dice come la scienza deve essere).1 Per i motivi sopra riportati, è legittimo chiedersi quanto i principi mertoniani conservino ancora una capacità descrittiva di alcune pratiche della scienza contemporanea, in particolare quando «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti».13 D’altra parte, può essere utile anche ricordare che i principi mertoniani “spiegano” alcuni comportamenti caratteristici della comunità scientifica che altrimenti risulterebbero incomprensibili, come la partecipazione alla revisione paritaria degli articoli: un’attività che viene in genere svolta anonimamente e per la quale non si ottiene alcun tipo di ricompensa. Un esempio ancora più clamoroso, seppur meno diffuso, è la condivisione dei dati. Pensiamo, per esempio, a come molti ricercatori abbiano volontariamente messo a disposizione di tutta la comunità scientifica informazioni sugli aspetti molecolari e genetici del SARS-CoV-2 per aiutare a rispondere più rapidamente alla pandemia.
D’altro canto, il fatto che i principi mertoniani vengano più o meno frequentemente violati non implica che il loro aspetto normativo debba essere necessariamente invalidato.14 Al contrario, se intesi come ideali regolativi, questi possono essere utili come “punti di ancoraggio” nelle discussioni etiche che riguardano il comportamento da tenere da parte degli scienziati in circostanze complesse, come quelle con interessi commerciali e politici particolarmente forti.13 Inoltre, da un punto di vista strettamente pragmatico, quanto dobbiamo davvero auspicare un abbandono del modello mertoniano da parte dei ricercatori? Pensiamo davvero che una scienza meno disinteressata, meno universalistica, meno in grado di condividere il proprio sapere e meno incline all’autocontrollo reciproco dei risultati sarebbe migliore o comunque più adatta ad affrontare le sfide attuali?
Nella seconda parte del suo articolo, Tallacchini si sofferma su tre ambiti, per i quali propone alcuni cambiamenti rispetto alla pratica scientifica corrente: la dichiarazione di conflitto di interessi, la gestione degli aspetti valoriali e un ripensamento delle istituzioni che producono scienza per le decisioni politiche.1 Senza alcuna pretesa di esaustività, vorremmo cercare di offrire alcuni spunti di riflessione in merito.
Il conflitto di interessi
Tallacchini si focalizza sui possibili conflitti di interesse nell’ambito delle istituzioni pubbliche (un tema in genere poco trattato e meritevole sicuramente di approfondimento) e suggerisce che la maggior integrità degli enti pubblici rispetto a quelli privati non andrebbe assunta a priori. Ci sembra utile sottolineare che non è tanto la natura pubblica o privata di un’istituzione a essere qui rilevante, quanto i suoi interessi (economici, ma non solo) nella ricerca che viene condotta. Quindi, per esempio, mentre non c’è motivo di assumere a priori la maggiore integrità di un centro di ricerca pubblico rispetto a uno privato, le pratiche scorrette negli studi finanziati da aziende che avevano un interesse nei risultati sono largamente descritte in letteratura.15 Inoltre, la dichiarazione di conflitto di interessi “estesa” che l’autrice propone sembra particolarmente problematica da un punto di vista pratico. Appare, infatti, irrealistico richiedere che un ricercatore riporti tutti i finanziamenti ricevuti dall’ente per cui lavora, poiché questa è un’informazione che non è quasi mai a sua disposizione. Dunque, fino a quale grado di separazione tra il ricercatore e il denaro bisognerebbe spingersi nella dichiarazione del conflitto di interessi? In questo senso, ci sembra che il vecchio consiglio del British Medical Journal di riportare qualunque informazione che sarebbe fonte di imbarazzo se venisse scoperta dopo la pubblicazione costituisca una norma di buon senso in grado di guidare “euristicamente” i ricercatori anche al giorno d’oggi.
La gestione degli aspetti valoriali e la trasparenza procedurale
Un ulteriore insieme di considerazioni riguarda la separazione tra il problema del conflitto di interessi e il fatto che le decisioni in ambito scientifico siano basate anche su aspetti valoriali. In questo senso, la classificazione di Longino e le indicazioni di Tallacchini sulla trasparenza possono essere molto utili, ma riteniamo ci siano dei limiti in questa direzione.1 Per esempio, mentre a livello di uno studio specifico possono essere fatti sforzi per esplicitare il più possibile alcuni assunti “extra-scientifici” utilizzati nel modello statistico adottato, chiedere che i singoli autori facciano una sorta di “dichiarazione dei propri valori fondanti” (in maniera simile a quanto si fa con il conflitto di interessi) sembra complicato. È realmente possibile abbandonare il proprio sguardo teorico-interpretativo e identificare obbiettivamente i valori che lo caratterizzano? Se anche tale dichiarazione fosse possibile da compilare, a che livello e con quali fini dovrebbe essere attuata? Infine, è importante ricordare come il concetto stesso di trasparenza costituisca un valore e implichi quindi decisioni e riflessioni valoriali di livello superiore per stabilire come questa debba essere definita ed evitare che escluda e danneggi ambiti di ricerca difficili da rendere trasparenti.16
Ripensare l’architettura delle istituzioni che producono scienza per le scelte pubbliche
Mentre una discussione sulla creazione/trasformazione di istituzioni che siano in grado di aiutare la politica a prendere decisioni utilizzando i risultati della ricerca scientifica è sicuramente auspicabile, l’idea di “riprogettare” le istituzioni che producono scienza potrebbe essere più problematica. Per esempio, alcuni autori hanno suggerito che, se le scelte nel mondo della ricerca sono sostanzialmente basate sui valori, la tradizionale separazione della scienza dalle altre istituzioni sociali non è più giustificata. In maniera ancora più esplicita, filosofi come Philip Kitcher hanno proposto una riduzione dell’autonomia della scienza riguardo a quali problemi indagare, in modo che gli sforzi si orientino per risolvere i problemi ritenuti più rilevanti per la società.4 In realtà, un controllo di questo tipo sulle attività scientifiche in parte avviene già, per esempio tramite la decisione di quali filoni finanziare (una scelta a tutti gli effetti politica, basti pensare al PNRR). L’ipotesi di rivedere come debbano essere pensate, costruite e gestite le istituzioni che producono scienza sembra portare, però, il discorso a un altro livello. Mentre è ragionevole pensare che i luoghi e le modalità con le quali si fa ricerca possano cambiare nel corso del tempo, analogamente ai cambiamenti che avvengono nel resto della società (alla fin fine, la tradizionale università humboldtiana che coniuga ricerca e insegnamento si sta già trasformando in qualcos'altro con l’introduzione della “terza missione”), alcune caratteristiche dell’impresa scientifica, come l’autonomia degli obiettivi da perseguire e l’autocontrollo interno, l’hanno caratterizzata sin dalla sua nascita. Siamo sicuri che una scienza che non si autogoverna sia ancora in grado di svolgere il proprio ruolo? Ci sono peraltro movimenti che sembrano proporre un modello alternativo, in grado di salvaguardare l’autonomia della scienza senza rinunciare a ribadire il suo stretto rapporto con la società: pensiamo per esempio alle varie forme di scienza partecipata o al possibile uso di open data da parte di figure al di fuori della tradizionale comunità scientifica.17 Forse il miglior modo per gestire il problema dei valori all’interno della scienza potrebbe essere quello di aumentare ulteriormente il numero degli attori coinvolti invece che renderla subalterna al potere politico. Nel caso specifico dell’epidemiologia, il suo futuro grado di autonomia si giocherà in gran parte nella possibilità o meno di accedere ai dati di cui ha bisogno per la propria attività. Da questo punto di vista, i segnali che arrivano non sono incoraggianti. Da un lato, c’è un generale rischio di una progressiva privatizzazione dei dati biomedici (in particolare quelli prodotti da smartphone e altri dispositivi portatili) per interessi commerciali;18 dall’altro, alcune posizioni recentemente prese dal Garante per la protezione dei dati personali rischiano di rendere impossibile la conduzione di studi epidemiologici in Italia negli anni a venire.
Concludendo, le riflessioni di Tallacchini si inseriscono all’interno di dibattiti cruciali sul rapporto tra scienza e società e, in qualche modo, sfidano la comunità scientifica (e quella epidemiologica in particolare) a trovare soluzioni nuove a questi problemi. Ora tocca ai ricercatori dimostrare di essere all’altezza del compito; il rischio, altrimenti, è che qualcun altro scelga per loro.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibliografia
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