Pagine di E&P - Dibattito sul ruolo dell'epidemiologia nel SSN
Occorre agire con urgenza e comunicare meglio
Dibattito 14
di Fulvio Ricceri
Chi ha avuto l’interesse (e la pazienza) di leggere il dibattito sulla ridefinizione delle funzioni e delle strutture dell’epidemiologia nel SSN, non può non essersi accorto di una grossa mancanza: il senso di urgenza. Le tematiche sono ben sviscerate, alcune delle proposte sono particolarmente interessanti e utili, ma manca completamente la richiesta di mettersi subito a lavorare per renderle effettive. Inoltre, la composizione dei partecipanti al dibattito alimenta lo stereotipo secondo il quale gli epidemiologi (badate bene, quasi sempre declinato al maschile) e in particolare gli epidemiologi dentro l’AIE e/o che scrivono per E&P sono quasi tutti maschi (nel nostro campione 11 su 12), medici (n=10 su 12), pensionati o vicini all’età pensionabile (n=11 su 12) e provenienti dal centro-nord (n=11 su 12) che hanno idee brillanti, ma che mancano della concretezza necessaria a realizzarle. E forse questo stereotipo qualche fondo di verità ce l’ha, se dopo 5 anni dalla pubblicazione del documento AIE del 2016 e nonostante una pandemia mondiale in mezzo, stiamo ancora chiedendoci se riusciremo a ritagliare un ruolo per l’epidemiologia nel SSN e, nel caso, quale questo debba essere.
L’intervento di Rodolfo Saracci ben evidenzia che è importante che il ruolo centrale sia in capo a chi sa che il peso dell’assenza di decisioni in merito ricadrà sulle sue spalle negli anni a venire e confido che la presidentessa e la vicepresidentessa dell’AIE, assieme a tutte le socie e i soci, sapranno far proprio questo senso d’urgenza e daranno da subito un ruolo centrale all’associazione nel trasformare questo dibattito in azione.
Da cosa partire? Secondo me, sono due gli elementi chiave: innanzitutto, quali funzioni dell’epidemiologia devono essere integrate nel SSN e, contemporaneamente, chi siano le persone titolate a farlo.
E’ stato fatto giustamente notare che nel periodo pandemico c’è stato un gran fiorire di “auto-definizioni” da epidemiologə (concedetemi la schwa, per essere finalmente totalmente inclusivo nei generi), ma d’altronde non avrebbe potuto essere diversamente, poiché non esiste una possibilità ufficiale di smentita. Bisogna quindi, da subito, lavorare con le istituzioni per arrivare ad una definizione chiara della figura dell’epidemiologə, che comprenda percorsi formativi abilitanti specifici e condivisi. Questa figura deve essere il più possibile ampia nella sua provenienza, ma il più possibile rigorosa sulle sue competenze ed è fondamentale che possa essere “certificata”. Di questo si parla da almeno vent’anni, ma è ora di trasformare la discussione in azione.
Per proporre poi al SSN questa figura di epidemiologə bisogna essere credibili. E per essere credibili nei confronti dei decisori (e, soprattutto, della popolazione che sceglie i decisori) bisogna rispondere alla domanda: per quali aspetti dell’epidemiologia è giusto che il SSN paghi utilizzando le tasse dei cittadini e delle cittadine? Tutti e tutte noi abbiamo la nostra idea di priorità epidemiologiche da considerare, ma spesso ci dimentichiamo di confrontarle con il reale bisogno del SSN e della cittadinanza. Sicuramente, molti spunti provengono dagli interventi precedenti (il monitoraggio dei LEA, i registri e le sorveglianze, la rilevanza e la tempestività per le decisioni, la prevenzione) e altri ancora si possono aggiungere. Tuttavia, anche qui è urgente trasformare gli spunti in un documento programmatico concreto da portare ai tavoli dei decisori politici e decidere quali siano le modalità più efficaci con cui deve essere presentato. Certo, questo richiederà l’accettare dei compromessi, ma è ora che l’epidemiologia smetta di comportarsi come una certa sinistra italiana, sicuramente pura, ma condannata all’irrilevanza.
Nel frattempo bisogna avere la consapevolezza dell’importanza della comunicazione e, di conseguenza, bisogna cambiarne il metodo con cui si comunica. Spesso, infatti, non si sente l’urgenza di comunicare e, quando lo si fa, non solo non si è in grado di arrivare al “grande pubblico”, ma si fa fatica anche ad arrivare al resto del mondo della sanità e, soprattutto, ai decisori politici. Per fare questo è necessario uscire dal “fai-da-te” e bisogna avvalersi dell’aiuto di esperti comunicatori che siano in grado di rendere comprensibili (ma anche appetibili) i contenuti epidemiologici rilevanti per i vari pubblici. Questa apertura comunicativa dell’epidemiologia può sicuramente spaventare i più puristi, ma è un passaggio che non può più attendere.
Concludo questo breve intervento con un’esortazione a fare e a fare presto per non ritrovarci tra 5 anni (o 10 o 20) a intavolare dibattiti senza averli trasformati in azione. L’invito è rivolto in particolare a quegli epidemiologi e a quelle epidemiologhe che temono di non avere ancora abbastanza esperienza per avere qualcosa di rilevante da dire. Non è così: la nostra rilevanza è data dal fatto che saremo noi a pagare un’ulteriore latenza.
Parole chiave: Servizio sanitario nazionale (SSN), epidemiologia
Commenti: 2
1.
La cura dei sani e dintorni
Sono d'accordo con i punti sollevati da Ricceri.
In particolare, con la necessità di avere un riconoscimento ufficiale accademico per essere definito "epidemiologo/a". Un percorso universitario, certamente, ma anche il riconoscimento "sul campo", certificato non (solo) da diplomi universitari, ma ad es. da pubblicazioni scientifiche pertinenti e/o costituzione/gestione di coorti di popolazione ecc.
L'epidemiologia dovrebbe far sì che i milioni di dati che il SSN produce ogni giorno non vadano perduti, ma vengano raccolti, analizzati, pubblicati secondo protocolli epidemiologici e competenze relative (statistica, intelligenza artificiale, big data ecc). Il dato clinico, se non diventa un dato di ricerca, non è neanche un dato.
Un altro punto rilevante mi sembra l'occuparsi innanzitutto dei soggetti ritenuti sani. Il paziente è importante, l'ospedale pure, ma l'epidemiologo/a si occupa soprattutto della cura dei sani, dove per cura intendo non la terapia, ma il prendersi cura di (alla Battiato, insomma). Non solo epidemiologia, ma anche e soprattutto prevenzione.
Sulla comunicazione, inutile sottolineare la tragedia dell'esperienza comunicativa COVID19, che ha mostrato il peggio del peggio, sia a livello accademico che giornalistico/mediatico. Ci vogliono scuole di comunicazione scientifica, non solo per i comunicatori, ma anche per noi che lavoriamo nel campo. Tutto si insegna all'università, meno che a comunicare (includo qui anche, ad es, l'accompagnamento al fine vita, tra tanti). Dobbiamo allevare presto mille Garattini e mille Piero Angela.
2.
mortalità da Covid e vaccino
A proposito di cattiva comunicazione....
In questi giorni viene rilanciato sui media il dato secondo il quale
il 45% dei decessi per COVID nell'ultimo periodo è avvenuto tra i non
vaccinati. Punto.
Il che significa che sono di più i morti tra i vaccinati.
Che è corretto, ma se il dato non viene spiegato/contestualizzato, può facilmente essere come minimo non compreso, per non dire strumentalizzato.
Come si può ben immaginare, il dato deve far riferimento al fatto che
il numero di vaccinati è di gran lunga superiore a quello dei non
vaccinati. Solo questo porta alla conclusione che i non
vaccinati hanno un rischio di morire di COVID-19 CINQUE volte superiore.
Ma poi i non vaccinati sono mediamente più giovani (61 anni) rispetto
ai vaccinati (70 anni) e in generale hanno meno comorbidità; se si tengono
in conto questi fattori, il rischio relativo per un non vaccinato è circa NOVE volte superiore a quello di un vaccinato.
Per fortuna qualche fonte d'informazione riporta il dato in modo
corretto, ma quelle che non lo fanno possono produrre un danno
notevole.