di Ennio Cadum, direttore Dipartimento di Igiene e prevenzione sanitaria, ATS di Pavia

La situazione italiana

La distribuzione delle funzioni e del ruolo assegnato alle strutture di epidemiologia in Italia sia prima dell’epidemia da COVID-19 sia dopo sono quanto mai variegate, con profonde differenze territoriali sia tra regione e regione sia entro regione.

Se da una parte vi sono varie articolazioni universitarie e varie scuole di epidemiologia in molte Università, in particolare con ruolo di ricerca pura e docenza piuttosto simili tra di loro, in ambito territoriale si assiste a un panorama molto disomogeneo.

La presenza di personalità di spicco in campo epidemiologico ha favorito qua e là l’affermazione di alcune strutture, la cui durata è legata al loro fondatore, altre strutture si sono mantenute nel tempo grazie alla loro storia e al prestigio conquistato in campo scientifico dai loro componenti, altre si sono costituite recentemente e sono in cerca di un ruolo e di una funzione riconosciuti.

Tutto ciò è possibile se non è presente un’indicazione specifica di tipo organizzativo né una normativa tematica di riferimento.

È mancato, cioè, a livello nazionale un disegno razionale organizzativo quale quello che ha contraddistinto i Dip.ti di Prevenzione, definiti e organizzati secondo un indirizzo normativo (si veda la L. 229/199, o riforma Bindi, il cui art.7 è dedicato per intero ai Dip.ti di Prevenzione e alle sue articolazioni, ruolo e funzioni). Le regioni a loro volta hanno organizzato il loro sistema sanitario separatamente le une dalle altre, in virtù della riforma del titolo V della Costituzione e della nascita dei Sistemi Sanitari Regionali, con esperienze molto varie, dalla presenza di un osservatorio epidemiologico regionale quasi puramente formale ad articolazioni complesse di strutture Epidemiologiche Regionali Dipartimentali cui vengono riconosciute funzioni precise. Un censimento della situazione non è mai stato pubblicato, anche se i professionisti sul campo conoscono bene le varie situazioni regionali. Il portale EPICENTRO dell’ISS elenca le varie strutture regionali e locali che si sono auto segnalate, anche se senza un format condiviso che permetta un confronto sui vari aspetti qualificanti (ruolo, funzioni, personale, normativa di riferimento e di istituzione).

In questo panorama ci si aspetterebbe la presenza almeno di una struttura nazionale di riferimento. Curiosamente l’Istituto superiore di sanità, struttura tecnica di supporto del Ministero della salute non ha una struttura centrale nazionale di epidemiologia, anzi ha permesso la scomparsa del Centro Nazionale di Epidemiologia Sorveglianza e Promozione della Salute (CNESPS), anche se la disciplina è ampiamente utilizzata e presente in molti Dipartimenti dell’Istituto. Strutture epidemiologiche di ambito nazionale sono presenti in INAIL, CNR, ENEA, ma con attività prevalentemente di ricerca o su tematiche specifiche, e senza un ruolo di coordinamento nazionale di altre strutture regionali o locali.

Dal punto di vista generale, l’AIE ha pubblicato vari interventi sul tema del ruolo delle strutture di epidemiologia in Italia. Tradizionalmente si distinguono strutture a livello nazionale, regionale e locale (di ASL), con funzioni di staff e/o di line.

A livello regionale la situazione non è molto comparabile tra le varie realtà regionali, spesso con commistione con Università.

La mia esperienza personale in due regioni, Piemonte e Lombardia, mi ha permesso alcune considerazioni legate al confronto tra due modelli di strutture epidemiologiche, che si prestano ad alcune riflessioni di ordine generale.

In Piemonte la presenza di una rete (incompleta) di servizi di epidemiologia per quadranti (mancherebbero all’appello i centri del quadrante nord est – Novara e sud ovest – Cuneo) ha determinato la presenza di una struttura robusta nel quadrante di Torino, con funzioni generaliste di gestione delle basi dati, e di varie strutture specialistiche di epidemiologia (dei tumori, ambientale, delle malattie infettive) in altre ASL o Aziende Ospedaliere.

Mentre in Piemonte le strutture specialistiche sono orientate di più all’attività di ricerca, le funzioni di staff e supporto decisionale immaginate inizialmente al momento della costituzione della rete sono state poco utilizzate e richieste dall’assessorato e dalle direzioni aziendali, con il risultato di un loro progressivo affievolimento. Pertanto si sono sviluppate le partecipazioni a progetti finanziati di ricerca e definiti programmi di sviluppo annuale con larghi spazi di autonomia. Mancano quasi ovunque in Piemonte strutture epidemiologiche locali di ASL; le richieste epidemiologiche sono veicolate alle strutture specialistiche esistenti. È assente la richiesta di analisi delle direzioni aziendali, che utilizzano per lo più le strutture di controllo di gestione per le esigenze conoscitive delle performnce sanitarie.

In Lombardia per converso le funzioni epidemiologiche di staff alle Direzioni Aziendali degli osservatori di ASL (o ATS per la precisione) sono preponderanti, e il lavoro di documentazione, analisi e preparazione di rapporti indispensabili alla programmazione aziendale è costante e continuamente richiesto. Si tratta molto di più di una funzione di controllo di gestione, perché condotta da epidemiologi e con metodiche epidemiologiche. Poco spazio resta alla ricerca, possibile solo laddove il numero di persone in staff sono sufficienti ad affrontare anche impegni aggiuntivi, dato che le attività ordinarie continue di analisi ed elaborazione dati, richieste sia dal livello centrale regionale, sia dalle direzioni strategiche, ma anche dalle altre articolazioni dipartimentali aziendali impegnano quasi tutto il tempo lavoro disponibile.

Il risultato è la presenza in Lombardia di strutture complesse di epidemiologia in ognuna delle 8 ATS lombarde, per lo più in staff alle direzioni generali, con ruolo, compiti e funzioni ben precise, sia di staff sia di line, e con elevatissimi volumi di attività che vengono richiesti e con la presenza di un osservatorio epidemiologico centrale regionale che dovrebbe avere funzioni di coordinamento delle articolazioni territoriali, nonché di raccordo con il livello regionale, ma che negli ultimi anni non ha esercitato al meglio tale funzione. A questi elevatissimi volumi di attività, sfocianti in continua e giornaliera fornitura di analisi e dati sui vari aspetti del territorio e delle prestazioni sanitarie a tutti i richiedenti interni dell’ATS non fa spesso riscontro la pubblicazione di studi o ricerche, che vengono condotte solo laddove la presenza di un particolare evento o problema richiede un approfondimento specifico. E spesso tali approfondimenti, sfocianti in pubblicazioni, sono delegati a strutture di ricerca universitarie o di istituti privati, piuttosto che condotti direttamente dalle strutture epidemiologiche delle stesse ATS, per indicazione specifica dell’assessorato regionale, per evitare ogni conflitto possibile di interessi.

La situazione lombarda in definitiva  è complessa e gli osservatori epidemiologici aziendali sono in ogni caso di più di un buon sistema informativo sanitario e più di un buon controllo di gestione: forse si tratta di un’esperienza da indagare meglio, ma particolarmente interessante e paradossalmente poco conosciuta. La prossima nuova riforma sanitaria lombarda infine è l’occasione per capire meglio quel evoluzione avrà questo modello particolarmente ricco e complesso.

Altre regioni presentano esperienze intermedie o del tutto differenti. Si pensi alle esperienze del Lazio e al DEP o all’Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia, costituito come Dipartimento dell’Assessorato alla sanità. Si tratta di due esempi di collocazione dell’epidemiologia  in un unico centro regionale con scarsa presenza invece della stessa a livello locale.

Questa tipologia di organizzazione con un osservatorio epidemiologico regionale centrale è la più rappresentata, anche in virtù della L 833 del 1978 che ne prevede espressamente la presenza (credo si tratti dell’unico riferimento normativo certo nazionale delle funzioni epidemiologiche).

Così ritroviamo questa situazione in Veneto, Friuli, Emilia-Romagna, Liguria, Abruzzo, Campania, Molise, Basilicata, Calabria, Sardegna. Situazioni più particolari sono presenti in Toscana, con riferimento alle Aree Vaste, nelle Marche, con centri in via di costituzione e forte preponderanza dell’epidemiologia ambientale dell’ARPA, in Puglia, mentre la Valle d’Aosta risulta l’unica sprovvista di un osservatorio epidemiologico regionale.

Alla domanda «quali sono le forme organizzate dell’epidemiologia nel SSN che possono garantire una produzione di conoscenze stabile, omogenea e autonoma rispetto al potere politico, per guidarne le scelte sulla base delle evidenze?» si può rispondere che se la normativa vigente (la l. 833)  richiede un osservatorio epidemiologico regionale occorre partire da lì, visto che in ogni caso strutture di tal genere sono presenti nel bene e nel male in quasi tutte le regioni e valutare la possibilità di ridisegnare ruolo e funzioni intorno alla criticità attuale: la ripartenza post pandemica su cui l’epidemiologia può avere molto da dire, soprattutto perché si tratta di una tema su cui la sensibilità degli interlocutori è elevata.

Interessante sarebbe una panoramica delle soluzioni organizzative di altri Paesi vicini (Francia, Spagna, UK in primis) per valutare aspetti non sempre presenti nella nostra situazione.

Le prospettive dell’epidemiologia italiana e il PNRR

La Mission 6 del PNRR potrebbe offrire alcune prospettive interessanti anche per l’epidemiologia, soprattutto alla luce del fatto che dal febbraio 2020 l’Italia è paradossalmente investita da un’epidemia, situazione sulla quale gli epidemiologi dovrebbero essere particolarmente ricercati ed apprezzati. Abbiamo assistito invece alla preponderante presenza mediatica di clinici e virologi, forse più abili nelle comunicazioni con i media.

Come ben descritto dall’editoriale di Claudio Maffei, in particolare la seconda mission focalizzata nell’investimento “Infrastruttura tecnologica del Ministero della salute e analisi dei dati e modello predittivo per garantire i LEA italiani e la sorveglianza e vigilanza sanitaria” pare offrire un’occasione che l’epidemiologia italiana dovrebbe sfruttare al meglio. Nel testo è riportato che il progetto, finanziato con 290 milioni di euro, ha come scopo «il rafforzamento del Nuovo sistema informativo sanitario (NSIS), ovvero dell’infrastruttura e degli strumenti di analisi del Ministero della salute per il monitoraggio dei LEA e la programmazione di servizi di assistenza sanitaria alla popolazione che siano in linea con i bisogni, l’evoluzione della struttura demografica della popolazione, i trend e il quadro epidemiologico».

Quali prospettive si aprono?

L’Health Prevention Hub citato nel PNRR in un punto (purtroppo non più ripreso successivamente in altri) è un punto focale su cui richiedere precisazioni e fornire indicazioni. Non solo per un centro nazionale di riferimento deputato a elaborazione, valutazione e messa in atto di norme, linee guida e politiche di prevenzione e che dovrebbe anche rinforzare le attività di promozione e monitoraggio del pool di informazioni sul modello previsionale nel campo della prevenzione e degli stili di vita. Ma anche di un modello replicabile ai livelli regionali.

Manca chiarezza sugli scopi esatti, al di là delle parole sopra riportate, di questo centro nazionale e dei centro regionali potenzialmente attivabili. Se da una parte la cosa può sconfortare, dall’altra può essere un’occasione di chiarimento e precisazione condotta dall’AIE, possibilmente a fronte di un seminario sul tema e di un documento associativo indirizzato agli esponenti istituzionali, come già attuato in altri momenti della pandemia.

Lo stesso Hub, al di là dei timori espressi da Maffei che si possa rivelare una gestore di un sistema informativo sanitario evoluto e non un centro epidemiologico, in parte già risponde però sotto l’aspetto organizzativo alla domanda “Quali sono le priorità di innovazione del sistema informativo sanitario nazionale? Quali strategie può essere utile sviluppare per guidarne la riorganizzazione?”

Una delle priorità di innovazione del sistema informativo sanitario che ho acquisito nell’esperienza lombarda è che è indispensabile una collaborazione stretta tra informatici delle strutture dei vari sistemi informativi aziendali, che gestiscono e organizzano i flussi informativi delle banche dati sanitarie ed epidemiologi che conoscono bene le necessità inderogabili che devono avere i dati per il loro utilizzo a fini di analisi e ricerca.

Una struttura di epidemiologia dovrebbe pertanto possedere:

  1. un datawarehouse completo di dati e metadati
  2. procedure routinarie di analisi dati ai fini aziendali e programmatori
  3. analisi periodiche conoscitive della situazione territoriale utili a far emergere eventuali eccessi di rischio e possibili necessità di approfondimenti
  4. collegamenti con i registri specialistici ove non presenti (ad es. ogni osservatorio epidemiologico locale delle ATS ha in sé il registro tumori aziendale, il registro nominativo di mortalità, le schede di dimissione ospedaliera, il flusso della natalità, il flusso dei farmaci, della protesica, etc etc relativi al proprio territorio)
  5. uno standard di pubblicazione interna a scopi gestionali e un programma di analisi e studi specifici sia propri sia collaborativi con altri centri regionali o nazionali
  6. un programma di valutazione delle proprie performances

Se da un certo punto di vista tali competenze e punti di vista sono condivise da molti epidemiologi, meno lo sono le situazioni normative e di prassi di utilizzo dell’epidemiologia a fini di valutazione di LEA ed altri standard e di confronto tra essi, temporale o spaziale.

Le strategie da adottare per perseguire una maggiore omogeneità organizzativa minima delle strutture epidemiologiche non possono che essere collaborative, al di là delle differenze tra regioni o culturali. Il motto dei 4 moschettieri credo sia il più appropriato anche in questa circostanza.

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