di Fabrizio Faggiano, Università del Piemonte Orientale, Torino

L’epidemiologia – è riconosciuto da tutti – ha un ruolo essenziale in tutte le tappe del processo del decision e policy-making del Servizio Sanitario Nazionale. Questo processo può essere rappresentato come una piramide, almeno in funzione del ragionamento che propongo, il cui vertice sono le funzioni di programmazione nazionale, mentre la base è costituita dall’epidemiologia di “staff” alle direzioni delle Aziende Sanitarie.

Vista la complessità del tema e l’oggettiva difficoltà di discutere tutte le tappe del processo, difficoltà ben rappresentata dal contributo di Paolo Giorgi Rossi, in questo contributo vorrei ragionare soprattutto sul ruolo dell’epidemiologia al vertice e alla base della piramide.

Il vertice della piramide

La programmazione del SSN è oggi basata sul nuovo Sistema di garanzia per il monitoraggio dell’assistenza sanitaria che prevede 88 indicatori, di cui 16 per la prevenzione collettiva e la sanità pubblica: di questi, 6 verificano le coperture vaccinali, 2 la performance dei programmi di screening di cervice, mammella e colon retto, 5 la sicurezza alimentare, 1 gli infortuni sul lavoro, 1 la sicurezza relativa ai prodotti chimici e 1 gli stili di vita. Senza entrare nel merito della tipologia di quest’ultimo indicatore, l’unico a misurare un outcome, a fronte degli altri che misurano attività, vorrei ricordare che, sulla base delle stime del Global Burden of Disease, nel 2019 in Italia più del 50% dei DALY erano attribuibili a fattori legati a stili di vita, e che quindi gli interventi per il loro miglioramento sono monitorati da 1 indicatore su 88! Ha ben ragione Rodolfo Saracci ad auspicare la necessità di «rifondare la prevenzione al centro del SSN».

Il Sistema di garanzia citato sopra è la base del ciclo della performance, a cui, ci ricorda Claudio Maffei, sono tenuti tutti i livelli delle organizzazioni sanitarie. In grande sintesi, quindi, la programmazione sanitaria in Italia prevede che vengano definite centralmente le prestazioni considerate essenziali al diritto per la salute; le Regioni e le Aziende Sanitarie sono tenute a garantirle e il ciclo della performance ne assicura la qualità.

Ma quali sono i criteri con cui sono state definite queste prestazioni essenziali? Il DPCM 29/11 2001 "Definizione dei livelli essenziali di assistenza" è poco informativo su questo aspetto; il solo criterio a cui fa riferimento è quello economico, cioè il tetto della quota del bilancio dello Stato da assegnare al soddisfacimento dei LEA. Certo, lo stesso DPCM descrive il lungo processo di elaborazione e approvazione della lista, che, a partire dal Ministero della Salute e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, arriva all’approvazione finale da parte della Conferenza Stato-Regioni.

Questo aspetto è, a mio parere, essenziale; alla base della creazione della lista LEA non vi è una formale analisi dei bisogni di salute della popolazione italiana, ma unicamente un accordo fra i principali portatori di interessi pubblici sulle prestazioni da erogare. Questo approccio è stato perfezionato intorno alle prestazioni di diagnosi e di cura e, limitatamente a queste, è probabilmente il miglior sistema a oggi possibile.

Vorrei far notare che questo approccio è stato creato per gestire problemi che, normalmente, presentano una soluzione semplice e direttamente associata, come è usualmente la prestazione di diagnosi e di cura rispetto a una patologia, mentre potrebbe non essere adatto a problemi di salute rilevanti e prioritari per i quali, però, non vi è una soluzione semplice a essi direttamente associata. Fra questi vi sono molti problemi di sanità pubblica, come il tabacco, la sedentarietà, la cronicità o, più in generale, le malattie non trasmissibili.

Per questo tipo di problemi, non per tutta la prevenzione, il sistema di garanzia LEA è probabilmente inadatto. Per chiarire meglio questa riflessione propongo questo confronto: la diagnosi precoce del tumore della mammella è oggetto di un LEA specifico ed è inserito nel nuovo sistema di garanzia, mentre la prevenzione e la cessazione dell’uso tabacco no. La differenza non sta certo nella loro rilevanza epidemiologica, visto che il tabacco è indicato dal Global Burden of Disease come maggior contributore di DALY, ma nella presenza di una tecnologia specifica, come lo screening mammografico per la prima, che non esiste per il tabacco. Il problema del tabacco deve essere affrontato con un insieme complesso di strumenti, che va dagli interventi scolastici e famigliari a quelli normativi e alla tassazione. La differenza non sta neppure nell’esistenza di prove di efficacia, di ottima qualità sia per lo screening mammografico sia per gli interventi sul tabacco, tanto che questi ultimi sono inseriti fra i best buys dall’OMS. Quello che li differenzia è la presenza (diagnosi precoce tumore della mammella) o l’assenza (tabacco) di una soluzione semplice facilmente inseribile in un LEA.

Per concludere questo ragionamento, la programmazione sanitaria basata su liste di interventi essenziali, che diventano diritti esigibili per il cittadino di cui garantire anche l’equa distribuzione territoriale, di fatto scotomizza i problemi di salute che non sono risolvibili da un singolo intervento e che richiedono approcci più complessi. Il problema è che fra questi ultimi vi sono molti problemi che sono prioritari, in quanto determinano una quota rilevante dei DALY per l’Italia e che contribuiscono a minare la sostenibilità del nostro SSN.

Per questo tipo di problemi è necessario che la programmazione sanitaria sia basata sulla definizione di obiettivi di salute dedotti dall’analisi dei bisogni che permetta di orientare le azioni del sistema sanitario verso quelli che Saracci chiama i “determinati comuni”, che sono per definizione esclusi dall’attuale approccio programmatorio basato su livelli essenziali di assistenza, orientati ad affrontare «ciascun effetto e malattia individualmente». Partire dagli obiettivi di salute, almeno per la prevenzione collettiva e la sanità pubblica, permetterebbe di identificare strategie complesse composte da interventi non solo sanitari e socioassistenziali, ma anche normativi, che potrebbero determinare un impatto molto più rilevante sulla salute dei cittadini. Se gli interventi scolastici di prevenzione dell’uso del tabacco e la disponibilità di ambulatori per la cessazione fossero accompagnati da campagne mediatiche, da aumenti di prezzo, divieti di pubblicità diretta e indiretta (per le sigarette non tradizionali), divieti di uso in spazi specifici, come avvenuto negli scorsi anni in Francia, l’impatto sulla prevalenza di fumatori sarebbe certamente rilevante.

Cambiare un sistema consolidato di governance del SSN sembra un'impresa impossibile. Oggi, però, potrebbe essersi aperta una finestra di opportunità: la coscienza diffusa che l’emergenza COVID sia stata fronteggiata principalmente con un’arma da retroguardia – l’ospedale – anziché con quella che quella privilegiata – la prevenzione – è probabilmente la ragione per cui il PNRR indica la necessità, attraverso «un disegno di legge alle Camere, di un nuovo assetto istituzionale per la prevenzione in ambito sanitario, ambientale e climatico, in linea con l’approccio “One-Health» che la Missione 6 del PNRR prevede entro la prima metà del 2022.

Questo «nuovo assetto istituzionale per la prevenzione« potrebbe essere lo strumento per dare alla prevenzione strumenti originali di governance, con al vertice della piramide proprio l’analisi dei bisogni di salute al fine della definizione di obiettivi di salute. Dando per scontato il ruolo (almeno co-) primario dell’epidemiologia, in interazione con altre figure (vd. Giorgi Rossi), in questo nuovo assetto, AIE ed E&P devono giocare questo ruolo.

Il tronco della piramide

Marina Davoli ci ricorda i numerosi fallimenti delle forme organizzative con cui l’epidemiologia, fin dalla sua legge istitutiva, è stata incardinata nel SSN: osservatori epidemiologici, agenzie di sanità pubblica, ora le aziende zero. Radice di questi fallimenti è il rapporto ambivalente del decisore rispetto alle evidenze: «I dati sono essenziali per la programmazione, ma solo se supportano decisioni già prese». Per questo mi astengo dal discutere questo aspetto dell'epidemiologia e passo direttamente alla base della piramide.

La base della piramide

I decisori che possono fruire del dato epidemiologico per prendere decisioni informate sono collocati a tutti i livelli della piramide decisionale. Ma il livello che in assoluto, a mio parere, è il più debole è quello più basso, quello cioè delle Aziende Sanitarie. Pur non necessitando di competenze né di capacità di ricerca sofisticate, è essenziale che queste possiedano sia competenze di lettura sia di produzione di dati epidemiologici; le competenze di lettura e interpretazione di dati sia locali sia generali sono necessarie al fine di informare le decisioni di programmazione e di gestione dell’Azienda. Ma anche le competenze di produzione sono importanti, perché se i fenomeni sanitari sono a scala aziendale o sub-aziendale, l’analisi locale è assicurazione di maggiore capacità interpretazione e probabilità di essere utilizzati.

La funzione epidemiologica a livello aziendale è, però, oggi drammaticamente assente nella maggior parte delle regioni, a parte poche eccezioni. In moti casi, revisioni organizzative l’hanno introdotta in passato, ma sono state spesso non implementate o non mantenute nel tempo.

Affinché questa funzione epidemiologica locale, che qualcuno chiama “di staff”, sia efficace, richiede almeno quattro requisiti:

  • la presenza di una Unità di Epidemiologia a livello di tutte le aziende, sia ospedaliere sia territoriali, dotata delle risorse di personale necessarie per elaborare i dati utili a livello locale (per esempio, per la costruzione della stratificazione della cronicità, per l’elaborazione degli indicatori oncologici, per la valutazione della popolazione esposta a situazioni di inquinamento). Come sottolineato da molti contributi a questo dibattito, la formazione di questi professionisti è un aspetto cruciale, per il quale l’AIE non può astenersi dallo svolgere un ruolo di coordinamento;
  • l’accesso a tutti i dati di interesse epidemiologico necessari relativi alla popolazione specifica. Questo requisito essenziale è oggi nella maggior parte dei casi non garantito; mi riferisco, per esempio, alla base dati della mortalità nominativa, cui le aziende sanitario non hanno normalmente accesso;
  • un efficace coordinamento di tutte le Unità di Epidemiologia delle aziende sanitarie del territorio di riferimento, al fine di mantenere un livello elevato di qualità e di omogeneità nell’offerta;
  • la formazione dei dirigenti del SSN e dei candidati alle direzioni aziendali, con l’obiettivo di promuovere processi decisionali informati da evidenze scientifiche ed epidemiologiche;

Senza espormi nel dare un parere sulle modalità di organizzazione della rete regionale delle Unità di Epidemiologia, ritengo che possano esistere almeno due modelli: il modello “democratico”, in cui ogni nodo della rete ha un ruolo specifico (per esempio, una specializzazione) mentre non vi è una unità sovraordinata, e il modello “centralizzato”, in cui una unità a livello regionale assicura il coordinamento della rete, assumendosi però compiti chiari di supporto delle altre unità. Il modello, però, è meno importante dell’obiettivo, che è quello rendere disponibile in ogni Azienda sanitaria quel “pensiero epidemiologico” citato da Marina Davoli, che faciliti processi decisionali aziendali informati da evidenze epidemiologiche.

In conclusione, in questo contributo ho cercato di riflettere intorno all’opportunità che il PNRR offre per un nuovo assetto della prevenzione e sul ruolo che l’epidemiologia potrebbe avere, in particolare nell’effettuare l’analisi dei bisogni di salute legati alla prevenzione. Ma anche sulla necessità che tutte le aziende sanitarie abbiano le competenze minime per supportare le direzioni aziendali nella produzione, lettura e interpretazione di dati. Ambedue queste funzioni sono a mio parere essenziali per ridare ruolo all’epidemiologia in un SSN riformato.

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