Editoriali minuti di lettura
E&P 2020, 44 (5-6) settembre-dicembre Suppl. 2, p. 23-25
DOI: https://doi.org/10.19191/EP20.5-6.S2.098
Malattie Trasmissibili
Pandemia e filiera della carne. Uno sguardo ecosistemico sull’organizzazione delle società contemporanee
COVID-19 pandemic and meat supply chain. An eco-systemic view on the organization of contemporary societies
Riassunto
Tra i molti suoi effetti, la pandemia ha prodotto l’occasione per uno sguardo sistemico, ed ecosistemico, sull’organizzazione delle società contemporanee, consentendo di evidenziare le intricate connessioni tra specie animali selvatiche e animali d’allevamento, zoonosi, globalizzazione della mobilità di merci e persone, stili di vita alimentari e patologie croniche, inquinamento e crisi ecologica.
Tra i molti suoi effetti, la pandemia ha prodotto l’occasione per uno sguardo sistemico, ed ecosistemico, sull’organizzazione delle società contemporanee, consentendo di evidenziare le intricate connessioni tra specie animali selvatiche e animali d’allevamento, zoonosi, globalizzazione della mobilità di merci e persone, stili di vita alimentari e patologie croniche, inquinamento e crisi ecologica. Nell’analisi delle complesse relazioni dei fattori ambientali e socioculturali che compongono il background della pandemia, il ruolo giocato da produzione, commercio, manipolazione e consumo di carni (e animali d’allevamento e selvatici) nell’innescare e poi talora favorire il diffondersi del virus pone però quesiti rilevanti e non prorogabili. Ma, a dispetto dell’iniziale avvio delle infezioni in uno wet market – mercati dove animali selvatici impiegati nella gastronomia cinese vengono condotti ancora vivi per essere uccisi – e successivamente del moltiplicarsi di focolai di infezioni negli allevamenti industriali intensivi e nell’industria della carne in molti Paesi, il tema è stato comunicato sommessamente e accomunato alle criticità poste da attività di logistica, trasporto e spedizione di merci.
Per quanto riguarda gli wet market, già alla fine di febbraio la Cina è intervenuta con un provvedimento normativo per bandire gli usi alimentari e il commercio, sovente illegale, di fauna selvatica,1 dal momento che già in passato altre infezioni zoonotiche erano partite dai medesimi luoghi. La previsione legislativa, tuttavia, non solo deve affrontare, e difficilmente potrà estirpare, pratiche culinarie secolari, ma soprattutto ha tralasciato di vietare l’utilizzo di tali animali, e delle sostanze da essi estratte, nella medicina tradizionale cinese, che ne fa largo impiego.2,3
La promiscuità tra specie domestiche e selvatiche, e l’assenza di controlli igienico-sanitari negli wet market, sono stati da tempo identificati come un rischio latente per le pandemie. Inoltre, nelle linee guida sugli spostamenti internazionali pubblicate in gennaio, l’OMS aveva già suggerito di evitare il consumo di prodotti animali crudi o parzialmente cotti, come pure la manipolazione di carni, latte o organi animali crudi.4 I precedenti di trasmissione di patologie attraverso queste vie sono numerosi e includono, con elevata probabilità, la manipolazione e il consumo di carni crude di scimmie in Africa quale causa scatenante della trasmissione di HIV.5
Alcuni studi hanno però documentato come il consumo di animali selvatici (cd. bush animals) rivesta una funzione importante nell’alimentazione di molte popolazioni che vivono in condizioni di indigenza in Paesi emergenti.6 In tali contesti misure puramente proibitorie potrebbero di fatto incentivare traffici illegali e determinare un aumento non controllato di infezioni zoonotiche. Inoltre, si osserva, non solo le carni selvatiche, ma tutti i sistemi alimentari fondati sul consumo di carne pongono minacce sanitarie.7
Evidenze scarse
Nella Interim Guidance del 7 aprile, FAO e OMS, tuttavia, hanno giudicato scarse le evidenze di trasmissione del virus SARS-CoV-2 attraverso il contatto con il cibo. Il COVID-19 resta, nelle definizioni internazionali, una patologia che si diffonde attraverso l’apparato respiratorio. Inoltre, anche se il virus può persistere per ore o giorni su differenti superfici, il suo riprodursi necessita di un ospite umano o non umano vivo.8 Le posizioni più recenti adottate da talune agenzie governative hanno introdotto un atteggiamento di rafforzata prudenza, suggerendo, pur in assenza di specifiche evidenze, l’applicazione di particolari misure precauzionali di igiene e sicurezza nel trattamento del cibo. La trasmissione del virus attraverso la carne è improbabile, ma non impossibile. Alimenti di origine animale possono essere contaminati da persone infette o essere toccate da mani non lavate e prive di protezioni.9
Il potere dell’industria della carne
Ma l’impatto causale che gli allevamenti intensivi e l’industria della carne hanno svolto e possono ancora esercitare nella diffusione del virus resta cospicuo e dipende dagli specifici caratteri di tale industria. L’editoriale scritto da Middleton, Reintjes e Lopes per il British Medical Journal nel luglio scorso10 sintetizza mirabilmente le criticità del settore produttivo e le ragioni che ne hanno fatto la sede ideale per la diffusione della pandemia.
Secondo gli Autori, i molteplici focolai di COVID-19 scoppiati negli ambienti di trattamento della carne sono giustificati da numerosi fattori interconnessi. I luoghi in cui si processano le carni presentano condizioni favorevoli al virus, che prospera alle basse temperature e con umidità relativa molto alta o molto bassa. Le superfici metalliche dei tavoli di lavorazione consentono la sopravvivenza del virus molto a lungo. Negli impianti si mescolano polveri, feci, sangue e piume, che l’uso di getti d’acqua tende a diffondere sottoforma di aerosol. Gli addetti agli impianti devono spesso parlare a voce alta a causa del rumore delle apparecchiature – ciò che determina un maggior rilascio di gocce di saliva potenzialmente infetta. Gli ambienti sono sovraffollati e il distanziamento fisico risulta difficile.
Vi sono poi altre cause che richiederebbero maggiori indagini (perché sono ancora oggetto di controversie nella comunità scientifico-istituzionale): la persistenza nell’aria del virus in ambienti chiusi e il ruolo svolto dai sistemi di filtraggio nella diffusione di agenti patogeni.11 A ciò si devono aggiungere i fattori sociodemografici: la giovane età di molti lavoratori, spesso con infezioni asintomatiche; la precarietà salariale e lavorativa, che spinge i dipendenti a non rivelare i propri sintomi; contratti di lavoro con orari eccessivamente lunghi o con mansioni eccessivamente faticose; la presenza di lavoratori immigrati ospitati in abitazioni sovraffollate e prive di attrezzatura igieniche adeguate.
Condizioni strutturali inerenti a un settore complesso si intersecano così con elementi descritti dagli Autori come trascuratezza sociale e normativa. L’insieme di queste circostanze ha scatenato una pletora di cluster di infezioni un po’ dappertutto nel mondo. Dai primi casi emersi in Germania a seguito di nuove infezioni importate in Cina dall’Europa,12,13 ai molteplici piccoli focolai sul territorio italiano,14 fino alle estese e numerose esplosioni di COVID-19 negli allevamenti bestiame in South Dakota, Nebraska15,16 e di pollame in diverse parti degli Stati Uniti.17
Ma la questione va oltre. Un’indagine pubblicata in agosto da ProPublica, la nota organizzazione americana di giornalismo investigativo,18 ha ricostruito la lunga storia delle richieste avanzate dalle agenzie governative statunitensi FDA e CDC e dai Dipartimenti dell’agricoltura (USDA) e degli affari interni (DOI) per allertare l’industria della carne sui possibili effetti di una pandemia e per indurla a produrre piani di preparazione, risposta e contenimento. A partire dal 2006 – a margine di una sempre temuta pandemia di influenza e dopo che si erano manifestati casi di influenza aviaria (H5N1) nel 2005, e con la successiva diffusione, nel 2009, dell’influenza suina (H1N1) – numerosi documenti e piani di emergenza del governo americano avevano identificato nella meat industry un luogo sensibile sia dal punto di vista sanitario sia in relazione a una eventuale crisi degli approvvigionamenti (legata alla possibile elevata quantità di operatori malati). In risposta a ciò, e a fronte di ripetute indagini e richieste, i rappresentanti del settore avevano sempre rinviato l’adozione di misure di protezione, invocando la non impellenza del rischio e confidando nella propria capacità di contenimento di eventuali focolai.
Nel giugno scorso, tuttavia, dopo che tra marzo e aprile numerose aziende del settore erano state costrette a denunciare focolai di COVID-19, il CEO di Smithfield Foods, la più grande azienda di lavorazione dei suini nel mondo, difendeva il settore dalle accuse di alcuni membri del Congresso statunitense di non aver agito prontamente a fronte dell’emergenza pandemia, reclamando che lo scenario pandemico costituiva un evento “senza precedenti e di cui nessuno poteva avere esperienza”.18
L’indagine di ProPublica suggerisce che, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, le risposte vadano ricercate nel potere dell’industria della carne, nella sua posizione privilegiata nel mercato alimentare, nella mancanza di azioni governative efficaci, nella superficiale convinzione degli operatori del settore di poter mantenere il controllo della situazione.
Ma si possono avanzare anche altre considerazioni. Si tratta, in primo luogo, della prospettica crescita di allevamenti e produzioni (già) intensive, tesa al mantenimento o a un’ulteriore riduzione dei costi, che dovrebbero estendere il consumo di carni a più ampie fasce di popolazione nei Paesi emergenti, ma con prodotti di bassa qualità. Malgrado le indicazioni verso un minore, e migliore, consumo di carni rosse e/o altamente processate proposte nel 2015 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC)19 e, nel 2019, la possibilità di un consumo di carne anche pari a zero della EAT-Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems,20 la spinta verso la qualità, che ormai coincide anche con la sostenibilità e la sicurezza del sistema alimentare, ha finora riguardato nicchie colte e consapevoli di consumatori nei Paesi economicamente più avanzati. La pandemia sta però inducendo cambiamenti significativi nelle scelte alimentari. Molti consumatori che concepiscono le proprie scelte alimentari anche come espressione di una cittadinanza responsabile, e non come mero atto di consumo, hanno avvertito che il distratto riferimento dei media all’industria della carne non rispecchia la serietà della questione. E sono molti gli studi che stanno ora analizzando e facendo previsioni sui futuri trend alimentari, dal momento che si rileva già un decremento del consumo di carni e una crescita dell’interesse non solo per verdura e frutta, ma anche per fonti proteiche alternative.21-23
La scelta di alimenti plant-based, che sovente imitano aspetto e sapore della carne, stanno conquistando un mercato che si rivolge non tanto a vegetariani o vegani, ma soprattutto a chi intende ridurre il proprio consumo di carne. E insieme a queste nuove produzioni e scelte di acquisto si moltiplicano anche gli studi volti a valutare gli impatti ambientali, economici ed etici di una possibile svolta su larga scala delle abitudini alimentari.24
A fronte di cambiamenti così significativi negli stili di vita, l’industria della carne sembra focalizzarsi sullo sviluppo tecnologico in chiave principalmente “difensiva”, con piccoli aggiustamenti che toccano segmenti ridotti della produzione e senza un più ampio sguardo di insieme. In tal senso, per esempio, si possono leggere taluni interventi di gene editing, come nel caso dell’ablazione delle corna dei bovini. La decornazione genetica è volta a produrre animali che, nascendo privi di corna, non possono ferirsi o ferire altri animali. Tali pratiche, garantite come limitate e precise, e giustificate anche in chiave etica come fonte di maggior benessere animale, sono di fatto rivolte all’intensificazione dell’allevamento, con una coabitazione dei bovini in spazi sempre più limitati.25,26 Il gene editing negli animali da zootecnia, peraltro, ha già evidenziato effetti inattesi per la salute degli animali27 e potenziali rischi per la salute umana, come nel caso di trasmissione non intenzionale di un gene di resistenza agli antibiotici.28
Una complessità strutturale da non sottovalutare
A uno sguardo d’insieme, sono numerosi i fattori che rendono l’industria della carne un “luogo” di vulnerabilità sanitaria e socio-economica nelle società contemporanee. La sottovalutazione delle intrinseche complessità strutturali del settore, la fallace convinzione di una “preparazione” (preparedness) organizzativa e normativa a fronte di annunciate pandemie, un modo di intendere lo sviluppo tecnologico come mero “technological fix” di piccoli segmenti della catena industriale compongono una quadro preoccupante e obsoleto. La fine del “sogno cartesiano”29 di una modernità tecnoscientifica in grado di garantire certezza, controllo e sicurezza esige una robusta epistemologia dell’incertezza per ripensare tutta la filiera produttiva e distributiva.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Data di sottomissione: 20.09.2020
Data di accettazione: 27.09.2020
Bibliografia e note
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