Negli ultimi decenni, il dibattito sul cambiamento climatico ha trovato un punto di riferimento nei report periodici pubblicati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). In realtà, si può dire che sia stata la stessa creazione di questo organismo delle Nazioni Unite a inquadrare il problema e, quindi, a catalizzare e plasmare la discussione sulle sue cause e conseguenze, anche in riferimento alla salute. L’IPCC, infatti, è divenuto la principale sede di valutazione della ricerca scientifica sul clima e si pone come soggetto autorevole, sia per il suo carattere intergovernativo sia per il complesso di procedure affinate nel tempo per rafforzarne l’obiettività. Tuttavia, non è superfluo soffermarsi su alcuni tratti di fondo di questa istituzione e chiedersi che cosa sappiamo davvero dell’IPCC.1

Costruzione del concetto di cambiamento climatico

Nato nel 1988 dalle negoziazioni tra la World Meteorological Organization (WMO), lo United Nations Environment Programme (UNEP) e i governi nazionali – a partire dagli Stati Uniti – l’IPCC è stato il frutto di una concezione del clima che a quel tempo stava assumendo caratteristiche globali.2 Gli studi sulla circolazione generale dell’atmosfera, condotti negli anni precedenti, avevano contribuito a rafforzare l’idea di un sistema climatico interconnesso, che includeva atmosfera, biosfera, idrosfera e geosfera, legate da rapporti vicendevoli.3,4 A questa nuova sensibilità, rispondeva il progetto di un organismo di consulenza che avesse una scala globale analoga e che fornisse ai governi informazioni scientifiche sul cambiamento climatico, sui suoi impatti e sulle opzioni di mitigazione e adattamento.

Da subito, nei tre Working Group (WG) in cui si articola l’IPCC, si è riscontrato un predominio delle geoscienze, espresso anche dalla letteratura scientifica vagliata nei report. Un primato simile è allo stesso tempo causa e risultato del modo in cui è stato costruito e inquadrato il tema del cambiamento climatico. Effettivamente, fin dagli anni Ottanta, ha prevalso un metodo geofisico incentrato sui trend di mutamento del clima e la concentrazione di gas serra, che ha relegato in secondo piano le relazioni tra clima e società.5,6 Questo approccio ha ristretto la profondità interpretativa del fenomeno, eludendo considerazioni più ampie legate ai sistemi economici e ai contesti sociali, alle agende politiche, ai valori e alle preoccupazioni locali.7 Come vedremo, anche il delicato tema della salute è emerso solo progressivamente, acquisendo rilievo nel corso degli anni.

L’attenzione agli aspetti geofisici è stata certamente funzionale al rispetto di uno dei principi dell’IPCC, vale a dire quello di attenersi a un operato policy-relevant, ma non policy-prescriptive, cioè che valuti le conoscenze scientifiche rilevanti per le scelte pubbliche, ma senza indicare specifiche azioni normative.8 Questo intento poggia su una demarcazione tra l’ambito dei fatti – propri della scienza – e quello dei valori – che entrano in gioco nelle scelte politiche – e permette alle organizzazioni “di confine” come l’IPCC di fissare uno spartiacque tra ciò che è scienza e ciò che invece ne esula.9,10

L’immagine pubblica dell’IPCC, dunque, è quella di un luogo di consenso e di un organismo neutrale, sganciato da considerazioni di indole politica e rivolto unicamente alla valutazione dei fatti scientifici. È appunto questa visione a essere messa in dubbio dalla riflessione dei Science and Technology Studies (STS) (vedi box qui sotto), che mira a decostruire le narrazioni per mettere in luce la vera natura della dialettica tra scienza e politica, specie nel contesto degli advisory system o sistemi di consulenza scientifica. In tal senso, l’IPCC è un oggetto di studio particolarmente interessante, proprio per il suo posizionamento al confine tra ricerca scientifica e decisioni di policy. Un confine che – a dispetto dei propositi – si rivela tutt’altro che impermeabile e che merita di essere esplorato per indagarne le porosità ed evidenziare le relazioni tra i suoi due versanti.11

Gli STS dimostrano che è impresa ardua, se non impossibile, distinguere nettamente le verità della scienza – reali o presunte – dalle decisioni normative. I due campi sono strettamente intrecciati in quello che la studiosa Sheila Jasanoff ha descritto come un processo di reciproca co-produzione, ben diverso dall’idea di una scienza speaking truth to power, capace di produrre fatti automaticamente recepiti dai policymaker.12 È la natura stessa dell’IPCC a mettere in tensione sia l’ideale di neutralità e indipendenza della scienza sia quelli di completezza, obiettività, apertura e trasparenza fissati nei principi guida dell’organismo.13 Non si tratta solo di una questione teorica, dal momento che, in più occasioni, l’IPCC si è visto ricordare il suo dovere di rispondere e la sua responsabilità nei confronti di organismi politici. Inoltre – come si illustrerà in un prossimo articolo – episodi controversi come il climategate del 2010 hanno fatto emergere criticità e conflitti di interesse anche sul fronte degli esperti.

L’assetto dell’IPCC è il risultato della convergenza di volontà e preoccupazioni di varia origine, a cominciare da quelle dei governi. Sono gli Stati partecipanti a stilare le liste dalle quali sono selezionati gli scienziati autori dei report e sono i loro delegati a formare l’assemblea plenaria del panel, deputata all’approvazione dei documenti.14 Naturalmente, il profilo degli esperti contribuisce a orientare il risultato dei lavori dell’IPCC e, a tal proposito, sono identificabili alcune tendenze radicate, solo parzialmente corrette nel corso del tempo.15 Se resta problematica la rappresentanza geografica – ancora sbilanciata verso i Paesi più ricchi – un altro punto decisivo è quello della specializzazione disciplinare degli autori.16

Ciò vale anche per la sezione relativa alla salute umana, presente in ciascuno dei sei assessment report (AR) fino a oggi pubblicati. Peraltro, nonostante siano trascorsi solo pochi decenni dal primo AR del 1990, si stanno già facendo sentire gli effetti di una mancanza di tracciabilità delle informazioni, che ostacola l’individuazione delle discipline di volta in volta chiamate al tavolo. È però interessante presentare qualche dato, per tentare di ricostruire il percorso della salute nella storia dell’IPCC (tabella 1).

Costruzione del concetto di salute nei report IPCC

In sintonia con l’indirizzo geofisico dominante, anche il modello di salute costruito nel primo AR era di tipo fisico e si fondava su un concetto di ambiente inteso soprattutto come deposito di inquinanti di origine antropica.17 In quell’occasione, il WG2 – dedicato agli impatti del cambiamento climatico – riservò alla salute solo un paragrafo all’interno di un capitolo più vasto sulle attività umane, che trattava anche di insediamenti, energia, trasporti e industria.18 La consapevolezza dei rischi era ancora scarsa, così come la comprensione dei modi in cui le alterazioni dei sistemi ecologici potevano riverberarsi sulla salute umana. Quelle poche pagine si proponevano, però, di discutere gli impatti acuti, cronici ed ecotossicologici del cambiamento climatico attraverso una ricognizione dei suoi esiti diretti e indiretti. Basandosi su un piccolo nucleo di studi, gli epidemiologi dell’IPCC valutarono gli effetti delle alte temperature e dell’inquinamento di aria e acqua, ma anche le conseguenze del riscaldamento globale sulla diffusione di malattie trasmesse da vettori o quelle dell’esposizione ai raggi UV-B causata dalla riduzione dell’ozono stratosferico.

Significativamente, il problema della salute umana fu introdotto nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC), adottata nel 1992 in occasione della Conferenza di Rio. L’art. 1, infatti, annovera la salute tra le aree sulle quali il cambiamento climatico può produrre effetti avversi, mentre l’art. 4 impegna i firmatari a minimizzarne gli impatti anche sulla salute pubblica. Non si può dire, comunque, che la questione sia stata al primo posto nell’attività dell’IPCC e – come sottolinea l’OMS – nessun documento ufficiale dell’UNFCCC ha riconosciuto esplicitamente un legame tra riduzione dei gas serra e ricadute benefiche sulla salute delle persone.19

Forse anche in seguito alle indicazioni dell’UNFCCC, già nel secondo AR – pubblicato nel 1995 – la salute si guadagnò il diritto a un capitolo autonomo.20 I suoi autori poterono estendere l’analisi degli effetti del cambiamento climatico, anche a livello di comunità e popolazioni, e li giudicarono seri, molteplici e – seppur in via probabilistica – prevalentemente negativi. Tuttavia, gli esperti notavano che gli studi utili alla loro valutazione quantitativa erano ancora relativamente pochi, nonostante il notevole incremento della letteratura presa in considerazione.

Nel terzo, quarto e quinto AR, comparsi tra il 2001 e il 2014, il tema della salute beneficiò di uno spazio in moderata crescita, mentre aumentarono in modo ragguardevole le fonti citate.21,22 Gli esperti del WG2 si soffermarono con attenzione sempre maggiore sugli impatti diretti del cambiamento climatico e su quelli indiretti, determinati da cambiamenti ambientali ed ecologici. Ma cominciarono ad ampliare il loro sguardo in chiave interdisciplinare, occupandosi della salute delle persone colpite da degrado ambientale, crisi economiche e migrazioni forzate. Nel terzo rapporto erano elencate alcune conseguenze sulla salute già verificabili, mentre altre restavano collocate in un orizzonte futuro più o meno definito.

Gli impatti del clima sulla salute sono stati dimostrati con crescente chiarezza nei report che si sono succeduti, ma l’IPCC ha dovuto trovare un modo per gestire l’incertezza che circonda molte delle sue previsioni. A partire dal terzo AR, si decise di comunicare il grado di affidabilità (confidence level) delle affermazioni attraverso una scala, che fu applicata anche al capitolo sulla salute umana. Come riportato dal WG2, le incertezze discendono in questo caso dalla densa trama di fattori che determinano salute e benessere. Infatti, è difficile descrivere le influenze ambientali e biologiche sulla salute abbracciando contemporaneamente gli aspetti ecologici e sociali, ma una quota di imprecisione è insita anche negli scenari usati per delineare il cambiamento climatico. Inoltre, non si deve dimenticare che quest’ultimo è solo uno dei molti elementi ambientali che condizionano la salute umana, la quale dipende altresì dall’efficacia dei sistemi sanitari e delle misure di prevenzione.14 Proprio per questi motivi, gli autori invitavano ad attenersi al principio di precauzione, dando priorità al rafforzamento della sanità pubblica e alle misure di adattamento, specie nei Paesi più fragili.

Prima di approfondire il contenuto dell’ultimo rapporto IPCC, il sesto, è utile fare alcune osservazioni sulla provenienza disciplinare dei suoi autori, comparandoli con quelli del precedente AR5. Sebbene non esaustiva, la specializzazione si dimostra, infatti, un elemento cruciale per il framing del tema della salute. Gli interessi di ricerca rappresentati nell’AR5 ruotavano intorno all’epidemiologia e ai rapporti tra ambiente e salute, con alcuni innesti da materie come la zoologia e la parassitologia. È però nell’AR6, pubblicato nel 2022, che si è assistito a un sostanziale rinnovamento, con un allargamento quantitativo e qualitativo dell’expertise. Scorrendo la lista degli autori, si osserva sì il consueto ruolo dell’epidemiologia, ma anche l’intervento di esperti di clima e migrazioni umane, risk management, agricoltura, strategie di adattamento e resilienza delle comunità o, ancora, di psicologia.

Non stupisce, perciò, che la sezione sulla salute dell’AR6 costituisca una svolta anche sul piano dei contenuti. Il capitolo – che con il titolo Health, Wellbeing and the Changing Structure of Communities introduce concetti che travalicano la sola salute fisica – si è nettamente ampliato, così come la sua bibliografia.23 Ciò dipende dalla recente esplosione delle ricerche sul cambiamento climatico, ma anche da un’inedita attenzione a nuove prospettive.24 Gli autori, infatti, hanno scelto uno sguardo sistemico, esaminando i determinanti sociali della salute, accendendo i riflettori sul peso delle disuguaglianze e avviando una discussione sulle connessioni tra clima e benessere mentale.25 In quest’ultimo campo rientrano sia gli impatti sulle capacità cognitive, le abilità di apprendimento e la possibilità di partecipare nella società sia un elemento indiretto come l’ansia per i rischi del riscaldamento globale (eco-anxiety).26 Il fatto che questi temi siano arrivati all’attenzione dell’IPCC, benché etichettati come low confidence, segnala il riconoscimento di una dimensione universale della salute, che dovrebbe richiedere cura anche nella programmazione degli interventi di adattamento al cambiamento climatico.

Cosa sono gli STS?

Science and Technology Studies (STS ) indica un campo di ricerche sociologiche su scienza e tecnologia nel loro esplicarsi e interagire con la società. Gli STS sono caratterizzati da grande interdisciplinarità, con una confluenza di interessi e prospettive disciplinari molto diversi. Il nucleo originario di riflessione si lega alla cosiddetta “svolta sociologica” negli studi di filosofia e storia della scienza a partire dall’inizio degli anni Sessanta del Novecento. A partire dagli scritti di Thomas Kuhn1 sulle comunità scientifiche come gruppi sociali impegnati a rafforzare – e non a falsificare, come secondo Popper gli scienziati dovrebbero fare – teorie scientifiche condivise (paradigmi) e dal lavoro della Sociology of Scientific Knowledge (SSK)2 sulla scienza come attività sociale, plasmata da condizioni e strutture sociali. Mentre la filosofia della scienza si era fino ad allora concentrata su come gli scienziati “devono” fare scienza e sulla demarcazione tra scienza e non scienza, la svolta sociologica guarda a come gli scienziati “fanno” scienza. La produzione scientifica non è soltanto rappresentazione oggettiva della realtà, ma è anche l’esito di una “costruzione sociale” della conoscenza.

Sheila Jasanoff, tra i maggiori studiosi di STS, ha applicato tale prospettiva alle dinamiche tra scienza, diritto e policy, in particolare attraverso il concetto interpretativo di co-produzione. Con questa espressione, Jasanoff si riferisce ai reciproci adattamenti e costruzioni di senso che intervengono nelle decisioni giuridiche e politiche informate dal sapere scientifico. Il valore di questa analisi dipende, secondo Jasanoff, dalla sua aderenza a ciò che di fatto accade nelle relazioni tra scienza, diritto e policy. Aprire le “scatole nere” che saldano valutazioni scientifiche e normative rende più trasparente la comprensione di quali dati e teorie scientifiche sono state considerate rilevanti ai fini di una decisione di policy (vedi anche Epidemiol Prev 2022;46(4):233-35). «In quali termini concettuali dovremmo discutere le relazioni tra l’ordinare la natura attraverso la conoscenza e la tecnologia e l’ordinare la società attraverso potere e cultura?»3

In questa prospettiva esiste un “parallelismo essenziale” tra scienza e democrazia, nel senso che entrambe si fondano su «un impegno verso la ragione e la trasparenza, un’apertura allo scrutinio critico, uno scetticismo verso pretese che sostengono troppo nettamente i valori dominanti, una volontà di ascoltare le opinioni contrarie, una disponibilità ad ammettere incertezza e ignoranza, e un rispetto per le evidenze acquisite attraverso le migliori pratiche esistenti».4

Referenze

  1. Kuhn T. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi, Torino, 2009 (ed. orig. 1962).
  2. Collins HM. Sociology of Scientific Knowledge. In: Wright JD (ed). International Encyclopedia of the Social & Behavioral Sciences (Second Edition). Elsevier 2015; pp. 308-12.
  3. Jasanoff S (ed). States of Knowledge: The Co-Production of Science and Social Order. London, Routledge, 2004; p. 14.
  4. Jasanoff S. The Essential Parallel Between Science and Democracy. Seed Magazine, February 17, 2009.

 

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Finanziamenti: articolo pubblicato nell’ambito del Bando PRIN 2022 PNRR, Progetto “Coping with Climate Change. Method, reasons and procedure for science-based policy making”. Codice Progetto: P2022B9P5H. CUP: J53D23018810001. Finanziato dall’Unione europea – Next Generation EU. PNRR per la Missione 4, Componente 2, Investimento 1.1. Avviso 1409/2022.

Bibliografia

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  3. United Nations. United Nations Framework Convention on Climate Change, 1992, art. 1. Disponibile all’indirizzo: https://unfccc.int/resource/docs/convkp/conveng.pdf
  4. Miller C. Climate science and the making of a global political order. In: Jasanoff S (ed). States of Knowledge: The Co-production of Science and the Social Order. London, Routledge, 2004; pp. 46-66.
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  9. Guston D. Boundary Organizations in Environmental Policy and Science: An Introduction. Sci Technol Hum Values 2001;26(4):399-408.
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