Riassunto

Quando l’11 dicembre 2015 il quotidiano Avvenire ha pubblicato l’articolo del demografo Blangiardo dal titolo «Attenti ai morti», molti di noi, usi all’analisi dei dati di mortalità, sono rimasti basiti. Abbiamo subito pensato che ci si trovasse davanti a un errore di registrazione: 45.000 morti in più in soli otto mesi non si erano mai osservati e qualcuno li ha addirittura paragonati ai morti della Prima guerra mondiale, evocando così un evento che forse – come si vedrà in seguito – ne è la spiegazione, ma meno evidente di quanto si possa pensare.

Quando l’11 dicembre 2015 il quotidiano Avvenire ha pubblicato l’articolo del demografo Blangiardo dal titolo «Attenti ai morti», molti di noi, usi all’analisi dei dati di mortalità, sono rimasti basiti. Abbiamo subito pensato che ci si trovasse davanti a un errore di registrazione: 45.000 morti in più in soli otto mesi non si erano mai osservati e qualcuno li ha addirittura paragonati ai morti della Prima guerra mondiale, evocando così un evento che forse – come si vedrà in seguito – ne è la spiegazione, ma meno evidente di quanto si possa pensare.

La prima notazione su quanto successo è relativa al pressoché totale silenzio dei sistemi di monitoraggio sanitario. A posteriori, alcuni hanno fatto notare che loro «l’avevano detto», ma di sicuro quanti sono preposti alla vigilanza sanitaria, dal Ministero a tutte le altre istituzioni regionali e locali, non avevano sufficientemente preso in seria considerazione l’accaduto. Se i sistemi di monitoraggio non si attivano immediatamente per un aumento di tale entità, a che servono? Ora gli epidemiologi stanno studiando, analizzando, interpretando quanto successo, ma l’epidemiologia può essere solo una epidemiologia ex post, anzi, tardivamente ex post? A livello internazionale qualcuno se ne era accorto subito e aveva pubblicato una nota già a marzo 2015, ma nel pool degli autori non compariva nessun italiano e l’articolo era rimasto muto sulle riviste.1

La seconda notazione concerne quanto successo dopo, appena la notizia è rimbalzata: le facili interpretazioni si sono moltiplicate, alcune colpevoli di leggerezza, altre della voglia di usare la notizia per accusare qualcuno; ci sono state voci, per la verità, che hanno invitato alla prudenza nell’interpretazione dell’accaduto ponendo solo ipotesi relative alle possibili cause, ma anche avvertendo di quali potevano essere i pericoli di fraintendimento. L’Istat, per esempio, ha fatto un comunicato, peraltro forse un po’ scarno, in cui criticava quanti proiettavano i 45.000 decessi dei primi otto mesi sull’intero anno 2015 ipotizzando che potessero diventare 60.000 per un incremento lineare, ma rimandava ogni altra analisi chiarificatrice a quando fossero disponibili dati completi.

I dati ufficiali dell’Istat oggi sono abbastanza aggiornati per quanto riguarda il numero complessivo di decessi – che viene pubblicato con circa solo tre mesi di distanza dall’accaduto – ma la distribuzione per età dei deceduti è molto più tardiva e, purtroppo, la disponibilità delle informazioni sulle cause di morte ha un ritardo medio che supera i due anni. Molte Regioni, però, hanno anagrafi degli assistiti e sistemi di rilevazione della mortalità (i ReNCaM, Registri nazionali delle cause di morte) che perlopiù producono informazioni molto più tempestive, il che fa riflettere sulla questione se i sistemi informativi debbano o meno essere solo unificati al centro oppure siano più efficienti se anche attivi a livello regionale e locale.

I dati mensili Istat riportano un notevole eccesso di decessi rispetto al 2014 nei mesi di gennaio-marzo e poi nel mese di luglio; quest’ultimo è un evento di più facile lettura e peraltro già segnalato da chi si occupa di monitorare gli effetti delle ondate di calore. Il luglio 2015 è stato un mese eccezionale sul versante meteorologico e qualcuno ha suggerito che i sistemi di attenzione e prevenzione potrebbero non aver funzionato al meglio anche a causa delle ristrettezze economiche dei servizi sanitari dovute alla crisi economica, ma l’ipotesi non ha ancora una conferma. L’eccesso comunque più importante in senso numerico è stato sicuramente quello dei mesi invernali.

È stato facile, allora, dare immediatamente la colpa di tutto l’incremento all’influenza, sia indicando una maggiore probabile virulenza dell’agente patogeno nel 2015, sia sospettando una minore efficacia del vaccino distribuito sul ceppo virale in questione, sia, infine, riferendosi a una preoccupante diminuzione della copertura vaccinale più volte denunciata e innescata da una coincidenza tra inoculazione vaccinale e decesso in alcuni soggetti, coincidenza assolutamente spiegabile in termini probabilistici.

L'effetto Prima Guerra Mondiale ridimensiona il fenomeno

Ciò che invece si è tardato a mettere in luce è che, oltre all’aumento dei decessi, in questi anni si è registrato un incremento degli individui in tarda età, ossia coloro che costituiscono la maggior parte di chi è a elevato rischio di decesso. L’aumento non è stato prodotto solo da una progressiva maggiore longevità, ma soprattutto da qualcosa di molto remoto, cioè dagli effetti della Prima guerra mondiale, ma in modo assai diverso da quello paventato. Tra il 1917 e il 1920 vi è stata, infatti, una forte denatalità dovuta sia alla morte o all’assenza dei possibili padri sia all’ovvio clima di insicurezza sociale. La situazione è stata poi aggravata da una maggiore mortalità infantile dovuta all’epidemia di influenza spagnola – tra l’altro, i membri di questa stessa coorte attorno ai vent’anni sono stati chiamati alle armi per la Seconda guerra mondiale e molti di loro sono stati sacrificati. La conseguenza è che nella popolazione italiana c’è da allora una ferita demografica notevole, come indicato nella figura 1, che rappresenta la situazione al 2002 per i nati prima degli anni Trenta e in cui si è indicata la stima del numero di soggetti mancanti rispetto a un’ipotesi di interpolazione lineare tra gli estremi del periodo di denatalità.

Il transito di questi soggetti nel periodo da noi considerato ha portato i sopravvissuti che nel 2009 avevano tra gli 89 e i 92 anni ad avere nel 2015 tra i 95 e i 98 anni di età, e ciò fa sì che numericamente gli ultranovantenni del 2015, per lo più facenti parte delle coorti successive al 1920, siano il 40% in più degli ultranovantenni del 2009. È allora evidente che se c’è un 40% in più di soggetti a rischio di manifestare un evento, cioè il decesso, ci si deve anche aspettare che ci sia un 40% in più di eventi, cioè di decessi.

Le analisi effettuate su alcuni dati di mortalità di fonte regionale e sui dati dei decessi ospedalieri di fonte SDO hanno evidenziato che il fenomeno viene ampiamente ridimensionato se si opera questa correzione, cioè se si tiene conto delle variazioni non solo dei decessi, ma anche dei soggetti a maggior rischio di morire.

Le analisi in corso sulla mortalità intraospedaliera, che per prudenza saranno pubblicate appena completate, sembrano con buona affidabilità suggerire che per quanto riguarda l’inverno 2014-2015 la mortalità sia stata in linea con la media degli anni precedenti, ma superiore a quella del 2014, che è stato un anno particolarmente favorevole, con un tasso di mortalità alquanto inferiore. Peraltro, analizzando i dati ospedalieri sembra potersi affermare che sono cresciuti i soli decessi per patologie respiratorie, ma questa quota costituisce tutt’al più un decimo dell’eccesso che sembrava doverci essere. Diverso è l’eccesso di morti nel mese di luglio, per le quali la correzione demografica risulta meno rilevante e le cause sembrano più facilmente attribuibili all’ondata di calore che tutte le statistiche meteorologiche, ma anche il nostro personale ricordo, confermano. Anche altre analisi su base regionale piemontese vanno in questa direzione.2

I dati dei morti devono servire ai vivi

Da tutta questa esperienza si possono ricavare tre riflessioni importanti: la prima riguarda i sistemi di vigilanza e monitoraggio, la seconda completezza, qualità e tempestività dei dati, la terza la correttezza dei metodi di analisi e di interpretazione statistica.

Per quanto riguarda sistemi di vigilanza, crediamo sia necessario valutarne bene la sensibilità, ma ancor più il legame istituzionale tra la fase di rilevazione, quella di comunicazione e quella di decisione sanitaria. La prima fase spesso risulta eseguita in modo sufficientemente corretto, ma poi la comunicazione si perde nelle remore degli uffici e non raggiunge soprattutto la popolazione; ciò che è ancor più grave, il decisore spesso non valuta l’importanza dei segnali a lui inviati o non è capace di tradurli in indicazioni operative. In conclusione, i sistemi di vigilanza devono essere riprogettati perché sia garantita la comunicazione tempestiva delle evidenze e soprattutto siano previste e standardizzate le procedure che il decisore deve seguire a seconda di ciò che i sistemi di vigilanza hanno evidenziato.

In merito ai dati, invece, i problemi sono indubbiamente legati alla tempestività, ma ancor più alla loro qualità. Se, per esempio, si confrontano i dati di popolazione comunicati da Istat e quelli delle anagrafi comunali o di quelle sanitarie regionali, si riscontrano differenze molto significative che vanno al di là di quelle che ci si aspetterebbe in funzione delle differenti specifiche delle anagrafi stesse. Quando esisteva la sola fonte Istat non sorgevano i dubbi che invece oggi nascono, in quanto rapportando i decessi alle popolazioni Istat o alle popolazioni di altre anagrafi si producono scenari che possono risultare molto differenti. Spesso non si è data molta rilevanza alle precisione della frequenza di soggetti nelle popolazioni anziane, ma per le analisi sanitarie queste sono essenziali. Per quanto concerne la tempestività, è indispensabile avere a breve termine la disponibilità di informazioni, anche se provvisorie e parziali, ma sufficienti per avviare interventi preventivi senza ritardi esagerati.

Infine, è importante che si utilizzino i metodi di analisi corretti. È pur vero che spesso si è ritenuto che tra anni tra di loro non più lontani, per esempio, di un lustro, le popolazioni non cambiassero di molto, per cui utilizzare la popolazione di un anno o di un altro produceva poca differenza. Ma nel caso dei decessi del 2015 così non è, come si è prima dimostrato. Pensiamo, perciò, che nei sistemi di vigilanza e di monitoraggio il calcolo degli eventi attesi dovrebbe essere sempre stimato a priori nella misura più accurata possibile in modo che, nel momento in cui si conta ciò che è successo, si possa subito dire se si è in presenza o meno di una situazione di allarme.

Da ultimo, comunque, è lecito sperare in un approfondimento ulteriore per capire meglio quanto abbia o meno funzionato la prevenzione vaccinale o l’attenzione ai rischi dovuti alle ondate di calore. Perché analizzare i decessi è utile solo se se ne traggono informazioni utili ad attivare strumenti adeguati per cercare di prevenire gli eventi che potrebbero essere evitati. Come dice il titolo di questa rivista, l’epidemiologia non può e non deve disgiungersi dalla prevenzione e oggi l’attenzione forse dovrebbe concentrarsi su come rendere più efficace quella “&”.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Bibliografia

1. Mølbak K, Espenhain L, Nielsen J et al. Excess mortality among the elderly in European countries, December 2014 to February 2015. Euro Surveill 2015;20(11):pii=21065. Disponibile all’indirizzo: http://www.eurosurveillance.org/ViewArticle.aspx?ArticleId=21065.

2. Costa G, Migliardi A, Alesina M et al. L’eccesso di mortalità nel 2015, fatti e spiegazioni dei dati piemontesi. EpiCentro 2015. Disponibile all’indirizzo: http://www.epicentro.iss.it/problemi/mortalita/pdf/EccessoMortalità2015Piemonte.pdf

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