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E&P 2023, 47 (3) maggio-giugno, p. 116-117
DOI: https://doi.org/10.19191/EP23.3.A637.045
Sanità Pubblica
Dove sta andando il sistema salute-sanità e quale contributo può dare l’epidemiologia: suggerimenti dal 47° Convegno AIE
Where the health care system is headed and what contribution epidemiology can offer: tips from the 47° Congress of the Italian Epidemiological Association
L’epidemiologia fornisce evidenze fattuali sulla salute e i suoi determinanti per informare le decisioni di politica sanitaria e per misurare l’impatto sulla salute delle stesse. Quali sono le domande di ricerca per l’epidemiologia oggi, nello scenario di un sistema sanitario nazionale che sembra essere sempre più in sofferenza? L’Associazione italiana di epidemiologia ne ha discusso in un’apposita sessione del suo 47° Convegno con esperti di diverse discipline.
La sessione ha esaminato le sfide per la salute e la sanità che la società italiana sta attraversando, così come possono essere lette da diverse prospettive: la statistica ufficiale, l’innovazione tecnologica, i divari geografici dell’autonomia differenziata, l’universalismo in affanno. Il tutto revisionato criticamente dallo sguardo della storia della sanità e dallo sguardo gestionale. Alla luce di questi stimoli, gli epidemiologi si dovrebbero chiedere se sono capaci di intercettare queste nuove sfide con conoscenze utili a tracciare i problemi e a valutare le risposte.
Dalla statistica ufficiale esposta da Alessandro Solipaca, emerge un quadro epidemiologico confortante rispetto a tutti gli indicatori di salute. La speranza di vita, quella libera da limitazioni funzionali, la salute soggettiva, la morbosità e la multimorbilità stanno continuando a migliorare, nonostante il crescente invecchiamento. L’unica eccezione è l’attesa riduzione dell’aspettativa di vita causata dalla pandemia, che è già in corso di rimbalzo. Altrettanto rassicuranti sono il dato relativo agli esiti di salute nelle macroaree del Paese che testimonia il lento avvicinamento, negli ultimi 4 anni, dei divari geografici di salute a svantaggio del Mezzogiorno e la mancata accentuazione (quando non una riduzione su scala assoluta) delle disuguaglianze sociali nella salute; questo nonostante la crisi economico-finanziaria, la pandemia e le minacce dell’inflazione.
Questi fatti sollevano prime importanti domande all’epidemiologia. È vero che in Italia esiste una sorta di resilienza sia al logoramento della salute sia alle disuguaglianze di salute di fronte alle crisi attraversate in questi anni? E se è vero, quali ne sono i determinanti? È la protezione dal rischio cardiovascolare dovuta alla dieta mediterranea ancora diffusa e poco disuguale? Probabile, ma di questo fatto le politiche non avrebbero particolare merito. Lo stesso potrebbe valere per il ruolo protettivo della rete famigliare, peculiarità italiana ancora diffusa e uniforme, nonostante le politiche poco incoraggianti per la famiglia. Potrebbe essere l’universalismo del servizio sanitario nazionale (SSN)? Questo ruolo protettivo sarebbe certamente meritevole, ma al tempo stesso è contraddetto dalle stesse statistiche ufficiali Istat poco incoraggianti, che mostrano la stagnazione o la riduzione delle risorse finanziarie e di competenze destinate al SSN e l’erosiva progressione del ruolo del privato con disuguali impatti sulla rinuncia alle cure. Si tratta di segni preoccupanti di disarmo del SSN che, però, si scontrano con le notizie positive del Programma nazionale esiti che ci ha mostrato proprio negli ultimi dieci anni un miglioramento degli esiti a livello nazionale, seppure con una preoccupante variabilità intraregionale spesso maggiore della variabilità tra regioni.
Cosa significherebbe questo disallineamento tra andamento positivo degli esiti di salute e apparente ritirata del SSN? Un problema di latenza? Potrebbe non essere trascorso abbastanza tempo tra l’indebolimento sul fronte dei livelli essenziali di assistenza (LEA) e l’impatto sulla salute? O le minacce al SSN riguarderebbero solo i livelli di assistenza che hanno meno impatto sulla salute (forse inappropriati), con la conseguenza che i livelli di tutela sulla salute rimarrebbero a saldo positivo? Ecco domande di ricerca importanti per l’epidemiologia italiana, domande ancora inevase. Per esempio, i LEA sospesi con la pandemia sono un vero e proprio esperimento naturale che l’epidemiologia potrebbe valorizzare, perché il suo prima e dopo quasi sperimentale potrebbe far capire se alcuni LEA siano effettivamente benefici o no. Analogamente, solo l’epidemiologia potrebbe gettare luce sui livelli di tutela effettiva che sono garantiti dai Livelli Essenziali di Prestazione fuori dalla sanità. Ma per farlo l’esercizio dell’epidemiologia dovrebbe diventare concretamente “esigibile”, con una buona diffusione di adeguate competenze e un idoneo accesso ai dati. Solo allora le manovre di riforma dell’autonomia differenziata potrebbero trovare una metrica con cui misurarsi, cioè che la revisione dei LEA o dei livelli essenziali di prestazione (LEP) deve dimostrare di non peggiorare, anzi di migliorare, l’impatto finale sugli esiti di salute. Introdurre la condizionalità dell’impatto sulla salute diventerebbe allora la sfida epidemiologica alle riforme e all’innovazione.
È con questa metrica che l’epidemiologia potrebbe contribuire a presidiare i pericoli dell’autonomia differenziata che – ha ricordato Stefania Gabriele nel suo intervento durante la sessione dedicata – rischia di rompere il delicato equilibrio tra un peso fiscale sopportato dagli individui secondo la capacità contributiva e il beneficio ricavato dalla spesa pubblica goduto a prescindere dalla residenza solo in base al bisogno di salute. La spesa pro-capite risulta più uniforme, sul territorio, rispetto alle entrate, che, ancorate alle basi imponibili, riflettono l’intenso divario territoriale nella condizione economica. Proprio per questo, l’intervento pubblico è essenziale per rafforzare l’equità, assicurando una maggiore uniformità sul territorio nazionale di servizi e prestazioni (che sono appunto LEA e LEP).
Questo rinnovato ruolo di custode della conoscenza sull’impatto sulla salute sarebbe anche il modo con cui l’epidemiologia potrebbe concorrere a smentire o confermare le preoccupazioni che vengono dalla lista ben documentata di allarmi o situazioni critiche con cui Marco Geddes concludeva la sua rassegna delle minacce all’universalismo in sanità. Bisogna che l’epidemiologia si impegni a dimostrare in che misura la salute nelle sue diverse accezioni è colpita da queste trasformazioni della società e del sistema sanitario. Tra l’altro, in tempi di pandemia, proprio la trasparenza sui dati d’impatto sulla salute si è dimostrata il principale fattore di garanzia e di fiducia del pubblico verso le politiche, conferendo all’epidemiologia un ruolo inedito di promozione di coesione sociale.
Però, per raccogliere questa sfida, l’epidemiologia dovrebbe saper sviluppare in modo più creativo le proprie misure operative di salute, imparando a tenere in conto tutte le sfumature di valore della salute, richiamate da Amerigo Cicchetti nella sua rassegna sul value based HTA e dallo sguardo storico di Chiara Giorgi sui valori dell’universalismo. Servirebbe una nuova stagione di creazione di misure che sappia sbrogliare la matassa ancora troppo vaga e composita degli indicatori del benessere equo-sostenibile (BES) della statistica ufficiale, senza però cadere nell’eccessiva semplificazione dei soli indicatori di garanzia dei LEA. L’epidemiologia ha da tempo imparato a studiare il modo con cui si affermano, si accumulano e interagiscono diversi meccanismi a impatto sulla salute. Per questa ragione, l’epidemiologia avrebbe una capacità inedita di interrogare, con le sue metriche di salute che si dipanano lungo il corso di vita, i diversi LEP che sono in gioco nelle spinte all’autonomia differenziata: non solo sanità, ma anche famiglia, scuola, lavoro, casa, ambiente, previdenza e assistenza. Sabina Nuti ha ricordato che, a queste metriche di salute e di efficienza allocativa, si dovrebbero aggiungere le metriche dell’efficienza produttiva per presidiare le innovazioni di processo senza le quali le innovazioni di contenuto non accadono.
Per fare tutto questo, servirebbe anche uno spazio di finanziamento della ricerca epidemiologica e di sanità pubblica che, invece, è molto carente. La ricerca sanitaria finanziata col fondo sanitario nazionale, purtroppo, seppur disegnata per rispondere a quesiti come quelli sopra descritti, è sempre più orientata ad affrontare quesiti più pertinenti alla ricerca di base. Perfino i recenti bandi per la ricerca nell’ambito delle attività del PNRR hanno fissato talmente tanti requisiti e vincoli, particolarmente penalizzanti per la ricerca applicata, da rischiare di trasformare questa opportunità in un’occasione persa.
Per concludere, l’epidemiologia dovrebbe ricordarsi e ricordare alla società che il suo marchio di fabbrica (stimare l’impatto di salute delle decisioni) dovrebbe diventare il nuovo LEA/LEP che precede e dà legittimazione a tutti i LEA/LEP, per meglio fungere da garanzia dell’universalismo.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Ringraziamenti: gli Autori desiderano ringraziare Alessandro Solipaca, Stefania Gabriele, Amerigo Cicchetti, Marco Geddes da Filicaia, Maria Chiara Giorgi e Sabina Nuti per i loro contributi alla sessione avvenuta durante il Convegno AIE che hanno stimolato le riflessioni di questo editoriale.
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