Sono un epidemiologo tardivo: ho cominciato a esserlo a 40 anni. Sono anche un autodidatta: non ho mai seguito un corso formale di epidemiologia.
Prima, a seconda del contesto, mi qualificavo anatomopatologo oppure ricercatore in cancerogenesi sperimentale. Mi è sempre piaciuto quantificare (provengo da una famiglia di matematici): l’anatomia patologica mi frustrava perché basata su reperti qualitativi, rispetto ai quali mi pareva che fosse difficile liberarsi da una componente soggettiva, poco trasmissibile agli altri. La cancerogenesi sperimentale mi affascinava, ma era un sogno irraggiungibile nella scala di valori dell’università italiana degli anni Sessanta (chi vuole trovarne conferma, legga Il laboratorio di Renzo Tomatis). Ho cominciato a rivedere la mia personale scala di valori con il 1968, quando la mia fragile cultura umanista mi fece avvicinare al movimento dei lavoratori e alle sue parole d’ordine: priorità della prevenzione, rifiuto della delega ai tecnici e validazione consensuale. Alcuni di questi concetti erano stati presi in prestito dal movimento studentesco. Gli studenti non avevano le idee molto chiare sulla prevenzione, ma questo è irrilevante. I lavoratori cercavano alleati nel milieu medico e gli studenti cercavano appoggio dai professori di idee più larghe. Così divenni «un compagno docente».

Con il senno di poi, il rischio che correvo era quello di perdere «il rigore scientifico». Ma diversi episodi in quegli anni – e l’in- contro con Giulio Alfredo Maccacaro – mi convinsero che il rigore scientifico non era un argomento interno al mondo della ricerca e che, anzi, spesso stava dalla parte dei più deboli. L’epidemia di cancro della vescica all’IPCA di Ciriè mi aprì gli occhi. Non era stata l’accademia bensì alcune delle vittime (come Gino Franza e Albino Stella, che sicuramente non erano stati a Harvard) a riconoscere l’esistenza dell’epidemia e a portarla all’attenzione dell’opinione pubblica e della magistratura. Io conoscevo bene la nocività per le cavie delle amine aromatiche, ma non ero stato capace di informarmi che venivano usate industrialmente e avevano prodotto una strage a pochi chilometri da casa mia. Indubbiamente, all’inizio, il mio coinvolgimento è stato più emotivo che culturale. Ma si verificò un buon equilibrio con altre mie attività: avevo iniziato a collaborare con le IARC nel programma della valutazione degli indizi di cancerogenicità degli agenti ambientali e a fare alcune semplici analisi dei dati del locale registro tumori. In quegli anni feci amicizia con alcuni studenti che successivamente divennero miei collaboratori (e attualmente sono i miei successori). Credo che io li attraessi perché identificavano nelle cose che io facevo qualcosa relativamente vicino ai loro ideali di medicina preventiva e «diversa». Il mio primo collaboratore, nel 1978, sussisteva grazie ad una borsa di studio creata – con i loro onorari – da avvocati e consulenti della parte civile del processo IPCA.

Ho la fama, giustificata, di avere creato la prima scuola di epidemiologia dei tumori in Italia, ma non saprei spiegare in che modo ciò sia avvenuto, né se il merito sia mio, oppure del fatto che mi sono incontrato con le persone giuste nel momento giusto nel posto giusto (ero anche incoraggiato dal preside della mia facoltà, rara avis universitaria, che riconosceva che l’epidemiologia è una scienza). Nei tre decenni in cui i miei allievi mi considerarono loro leader, si sono talora lamentati per la mia mancanza di strategia. In realtà però siamo stati capaci di integrare la mia capacità di identificare argomenti di ricerca con la loro competenza metodologica (acquisita – fino a un certo momento – in giro per il mondo) e l’ampiezza del gap generazionale ha contribuito a evitare che venisse posta in discussione la mia autorità.

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