Sono arrivato all’epidemiologia quando si approdava a questo lido, caratterizzato dal profilo che oggi gli conosciamo, indirettamente e con un viaggio a tratti casuale. Non succedeva così solo in Italia, era la stessa cosa un po’ ovunque, forse con l’eccezione degli Stati Uniti dove l’esistenza di scuole di Sanità Pubblica forniva la possibilità di formazione e percorsi più lineari, anche se in larga parte svolti lungo le strade tradizionali dell’igiene classica e della microbiologia.

Mi sono iscritto a medicina dopo qualche esitazione rispetto alla fisica. Alla fine del luglio del quarto anno, quando Pavia dormiva nella calura mi sono imbattuto del tutto casualmente in una bacheca universitaria recante l’annuncio di sostanziose borse di studio del comitato nazionale per l’energia nuclare (CNEN) per tesi sperimentali presso l’Istituto di genetica. Ho fatto domanda, sono stato intervistato a Roma (con viaggio pagato dal CNEN!) e sono stato selezionato. Sicuramente i due anni e mezzo trascorsi presso l’Istituto di genetica, allora il più avanzato e aperto d’Italia, hanno avuto un ruolo determinante nelle mie scelte successive.

Lì ho ascoltato per la prima volta Giulio Maccacaro che teneva un brillante corso di genetica microbiologica (a un accademico parruccone che aveva espresso in un congresso dubbi sulla «sessualità» nei batteri Maccacaro aveva risposto: «professore, se per sesso lei intende quello con le mutandine rosa, certo non esiste nei batteri; ma se si intende scambio di DNA, certo esiste»).

Dopo la mia tesi in immunogenetica dei gruppi sanguigni ho deciso che prima di tutto dovevo imparare a fare il medico e sono emigrato verso la Clinica Medica dell’Università di Pisa, a quei tempi il riferimento italiano in nefrologia (ovunque gli studenti la studiavano sulle «Nefropatie mediche» di Gabriele Monasterio), dove il CNEN sosteneva un moderno centro di medicina nucleare.

In breve tempo mi sono trovato a essere il consulente statistico per i colleghi della clinica. E sono stato promosso sul campo a redattore delle dispense di statistica del conteggio radioattivo, di cui conservo ancora una copia (inclusi un paio di strafalcioni), argomento su cui ho anche tenuto un paio di lezioni a uno dei primi corsi della «Biometric Society». Mi sono reso presto conto che per essere inserito con una reale competenza specifica in un ambiente clinico mi era necessario andare al di là delle nozioni di statistica apprese a Pavia. Era allora appena uscita la prima edizione del volume «Sequential medical trials» di Peter Armitage: in mancanza di contatti più diretti gli ho scritto, in un inglese più che precario, manifestando l’intenzione di passare un periodo di formazione a Londra. Ne ho ricevuto una lettera nel più perfetto stile inglese: «per quanto posso capire dalla sua lettera eccetera eccetera» e mi raccomandava all’(allora) dottor Richard Doll a Londra. È così che mi sono trovato alla fine del 1964 in un istituto dove ho scoperto che accanto ai clinical trials, l’oggetto della mia formazione, si faceva una ricerca in cui non mi ero mai imbattuto nel mio percorso precedente: la ricerca epidemiologica. Era il momento in cui Doll e Hill pubblicavano i risultati del primo follow-up dello studio sul fumo di tabacco e salute condotto sui medici inglesi. Tutto quello che è venuto dopo è nato lì, nell’unità di Richard Doll in Gower Street a Londra: la convinzione che l’epidemiologia – combinando intrinsecamente l’interesse scientifico con la valenza sociale – era la via che cercavo, la rinuncia alla clinica dopo quattro anni di attività, e la mia successiva carriera tutta in ambito epidemiologico in istituti diversi, Biometria a Milano con Giulio Maccacaro, il CNR di Pisa e l’International Agency for Research on Cancer.

Mi rimane ancor oggi un po’ di nostalgia per l’attività clinica e il contatto con i pazienti che non sono riuscito a combinare con il lavoro in campo epidemiologico.

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