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E&P 2025, 49 (2-3) marzo-giugno p. 137-150
DOI: https://doi.org/10.19191/EP25.2-3.049

Mal di sbarre. La salute (im)possibile nelle carceri italiane
Bar sickness. The (im)possible health in Italian prisons
Riassunto
Il contesto carcerario italiano presenta numerose criticità dal punto di vista delle condizioni di vita e di salute delle persone detenute. Ciò avviene nonostante una legislazione nazionale e un framework normativo e di linee guida internazionale ribadiscano l’importanza del rispetto del diritto alla salute in carcere come elemento essenziale dei percorsi di reinserimento sociale della pena che vada oltre il mero dispositivo punitivo.
I dati a disposizione mettono in luce un quadro di grande sofferenza sociosanitaria, che investe in particolare l’ambito della salute mentale, e di cui la perdurante “epidemia” di suicidi che interessa le carceri italiane non è che la punta di un iceberg di determinanti detentivi di malattia ancora poco esplorati dal punto di vista della salute pubblica.
Le difficoltà materiali e logistiche dell’attuazione di progetti di ricerca negli istituti penitenziari sono amplificate dal contrasto di priorità tra istanze di custodia e necessità assistenza, nonché dalla scarsa conoscenza dei bisogni di salute delle persone detenute da parte del mondo medico-scientifico. Ciononostante, gli sforzi di implementazione di progetti di sanità pubblica volti alla prevenzione, alla presa in carico, alla cura e alla continuità delle cure non mancano e mostrano risultati spesso positivi, in particolare quando è garantito il diretto coinvolgimento delle comunità che vivono e lavorano carcere.
La seguente riflessione “auto-etnografica” da parte di un professionista della salute che lavora in ambito penitenziario cerca di evidenziare questi aspetti e le contraddizioni che caratterizzano la vita in carcere, dove le sbarre sono solo l’ultimo elemento simbolico di una costrizione fisica e sociale con radici culturali discriminatorie e criminalizzanti molto più profonde.
Abstract
The Italian prison context presents many critical issues about living and health conditions of people living in prison (PLP). This occurs despite a national legislation and an international regulatory and guideline framework that underline the importance of respecting the right to health in prison as an essential element of the social reintegration target that goes beyond the mere punitive device. Available data highlight a picture of great socio-health suffering, which particularly affects the area of mental health, and of which the ongoing ‘epidemic’ of suicides that affects Italian prisons is only the tip of an iceberg of detention determinants of illness that are still little explored from the perspective of public health. Material and logistical challenges of implementing research projects in prison are amplified by the conflict of priorities between custody requests and the need for assistance, as well as by the poor knowledge of the health needs of PLP by the medical-scientific world. Nevertheless, the efforts to implement public health projects aimed at prevention, care, treatment, and continuity of care are not lacking and often show positive results, especially when the direct involvement of the communities that live and work in prison is guaranteed.
The following ‘auto-ethnographic’ reflection by a health professional who works in the penitentiary sector seeks to highlight these aspects and the contradictions that characterize life in prison, where the bars are only the last symbolic element of a physical and social constraint with much deeper discriminatory and criminalizing cultural roots.
Introduzione
C’è un rumore che è caratteristico del carcere, che difficilmente si può udire altrove, che ne riempie l’aria a ogni ora e che è connaturato alla vita stessa negli istituti penitenziari: il suono metallico della doppia mandata dei cancelli e delle pesantissime porte di ferro denominate “blindi”, quelle che chiudono anche le sbarre lasciando la possibilità di luce e aria solo a uno spioncino. Da medico infettivologo che ormai da alcuni anni lavora in carcere dovrei essermi abituato a quel rumore, ad associarlo a qualcuno che va fuori, mentre probabilmente qualcuno resta rinchiuso dentro. E allora, in uno dei rari istituti penitenziari italiani definiti “modello”, mentre un agente chiude con la doppia mandata il blindo di una cella adiacente all’infermeria, un foglio attaccato malamente con nastro adesivo con su scritto “stanza di isolamento”, allora mi chiedo: ma cosa ci fa dietro questo suono e questa barriera di metallo una persona di 71 anni, allettata, disfagica, con una bombola d’ossigeno, assolutamente non autosufficiente, e per di più colonizzata da un enterococco resistente alla vancomicina? Perché non è in una stanza d’ospedale, magari piantonato? Cos’è che pesa così tanto da far pendere la bilancia sul lato della detenzione più che su quello del rispetto della dignità e del diritto alla salute?
Potranno sembrare domande retoriche, magari anche provocatorie. In realtà sono domande reali, inevitabili. Perché il lavoro del medico in carcere non può mai risolversi alla semplice clinica, alla valutazione d’urgenza o alla visita ambulatoriale settimanale. Dopo aver lavorato per diversi anni in Africa subsahariana per Medici Senza Frontiere, posso affermare con cognizione di causa che quello delle carceri italiane è un contesto “umanitario”: le condizioni sociali, le restrizioni ambientali e il peso dello stigma e delle strumentalizzazioni politiche del momento mettono effettivamente a rischio il rispetto dell’"essere umano”, spesso sepolto sotto la percezione personale e sociale dell’“essere carcerato”.1 E allora, come medico umanitario, so bene che alla clinica, alla prevenzione, alla garanzia dell’“equivalenza delle cure” di cui spesso si parla parlando di carcere, è necessario associare le altre due caratteristiche proprie della medicina umanitaria: la capacità di analisi, anche attraverso la ricerca e la difficilissima raccolta di dati, dell’impatto di quei determinanti sociali della salute che in carcere sono macigni e quasi tutti etero-diretti. E poi la capacità di utilizzare le competenze professionali e i risultati della ricerca per fare advocacy sui decisori politici e istituzionali, affinché quelle condizioni arrivino nell’agenda politica e si possa provare a migliorare qualcosa in maniera strutturale e non sporadica.
La stessa terminologia del carcere che stenta a cambiare ce lo ricorda: in ambito anglosassone, la riflessione sulla necessità sempre più impellente di una sanità pubblica person-centered comincia a condizionare anche il linguaggio relativo alle carceri: ormai è considerato inaccettabile l’utilizzo di termini quali prisoner o inmate, a favore di un più adatto people/person in prison o people/person living in prison.2 E in italiano? La differenza tra “detenuti” e “carcerati” sembra essere più una sottigliezza linguistica, ma la realtà è che si fa grande fatica a mettere in primo piano la parola “persona” che tanto spesso diventa invisibile nel mondo delle sbarre e delle doppie mandate. Dedico questa riflessione sulla salute in carcere, per quel che può servire, dedico a quelle persone, a coloro che vivono (o muoiono) in carcere, a coloro che sopravvivono al carcere, a coloro che rendono il carcere un luogo vivo.
Le premesse, disattese
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»: questo il dettato dell’art. 27 della Costituzione. Bellissimo, si dirà. Ma c’è di più. La legge dello Stato italiano che regolamenta la vita in carcere, l’Ordinamento Penitenziario (Legge del 26.07.1975, n. 354) riconosce il diritto alla salute delle persone detenute, come tra l’altro richiesto limpidamente dall’art. 32 della Costituzione, che, con il termine “individuo” incastonato nel primo comma, garantisce l’accesso alle cure a chiunque, a prescindere da provenienza e da status giuridico. Viene sancito il principio di equivalence of care per le persone detenute rispetto alla popolazione libera: è un concetto fondamentale che ispira i principali documenti internazionali sulla salute delle persone in detenzione (in particolare, le cosiddette Mandela Rules delle Nazioni Unite)3 e che ha caratterizzato la riforma dell’Ordinamento Penitenziario italiano (Decreto Legislativo 230/1999), con il passaggio di responsabilità della medicina penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello della Salute (e quindi al Sistema Sanitario Nazionale, SSN). Il punto è che tale nobile principio resta sulla carta se dal punto di vista sostanziale non vengono intraprese misure che garantiscano l’equivalence of outcome delle problematiche sanitarie per le persone in detenzione:4 nonostante tali principi, infatti, negli ultimi decenni le condizioni di salute delle persone in carcere a livello globale si sono confermate nettamente peggiori rispetto alla popolazione libera, con molti ambiti di intervento per la sanità pubblica ancora scoperti.5
Ma il problema origina fuori dalle carceri. La riflessione di Bauman sulle cosiddette “vite di scarto” ha fatto emergere una constatazione molto semplice per quanto cruda: se la società capitalistica globalizzata sancisce che alcune persone sono dei “rifiuti umani” in quanto non integrate nei processi di produzione e consumo, ci devono essere delle “discariche sociali” atte a rimuoverle dal consesso sociale e dalla retorica del decoro.6 Tra queste discariche sociali si instaura un vero e proprio meccanismo di “vasi comunicanti”: persone detenute in carcere che magari provengono anche dai servizi per le dipendenze o che frequentano i drop-in o altre realtà per le persone migranti considerate irregolari, che al momento della scarcerazione vengono magari inviate nei centri di permanenza per il rimpatrio forzato (CPR) eccetera. Il carcere rappresenta l’esempio emblematico di “discarica sociale” strutturata, però, con intenti punitivi e, almeno sulla carta (costituzionale), di “reinserimento sociale”. A tal fine, si configura anche come un esempio di istituzione totale che, nel momento in cui detiene la persona privandola della libertà, ne condiziona anche ogni aspetto della vita.7
Insomma, dalle proclamazioni di diritti e principi si sprofonda rapidamente in un contesto di degrado, disuguaglianze e violazione di quegli stessi diritti. E alla fine nelle carceri italiane entra più marginalità che criminalità. Un vero e proprio cortocircuito tra art. 3 e art. 13 della Costituzione, tra disuguaglianze, privazione della libertà e incapacità cronica dello Stato di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Costituzione, da tenere a mente, quando si parla di carcere).
Ma, per comprenderlo appieno, bisogna vedere i numeri.
Numeri, numeri!
Due sono i dati essenziali per inquadrare il contesto carcerario, uno l’iceberg, l’altro la sua punta, ogni anno di volume maggiore: il tasso di sovraffollamento e il numero di suicidi. L’Associazione Antigone presenta annualmente un report che assume sempre di più le caratteristiche di un bollettino di “emergenza sanitaria normalizzata” (figura 1): quello del 2025 dal significativo titolo Senza respiro,8 documenta che le persone detenute al 30 aprile di quest'anno sono 62.445 a fronte di 51.280 posti, con un tasso medio di affollamento del 121,8%, di questi posti, però, 4.495 posti non sono disponibili, per cui il tasso di sovraffollamento “reale” sale al 133%, con un’ampia eterogeneità a livello nazionale e punte di sovraffollamento superiori al 200% in alcuni istituti particolarmente critici.9
Ma per provare a comprendere di cosa è fatto l’iceberg della detenzione in Italia, andrebbero considerati tanti altri dati; proviamo a vederne qualcuno.
Figura 1. Serie storica delle presenze nelle carceri italiane. Anni 1991-2024. Fonte: Associazione Antigone. Senza respiro. XXI rapporto sulle condizioni di detenzione. Maggio 2025.
Fonte: Associazione Antigone. Senza respiro. XXI rapporto sulle condizioni di detenzione. Maggio 2025.
■ Le donne in carcere sono 2.703, il 4,3% dei presenti; numeri evidentemente molto bassi, da contestualizzare in quello che è praticamente l’emblema del patriarcato, «uomini in divisa che puniscono e sorvegliano uomini in cella», per dirla con Foucault.10 E le questioni di genere ovviamente entrano in carcere, dove il problema delle persone transgender viene affrontato, ma con enormi difficoltà (per esempio, è impensabile l’assegnazione della cella in base al sesso dichiarato, per cui vale solo il sesso biologico). Secondo l’associazione Antigone, nel 2024 nelle carceri italiane c’erano 72 persone transgender, una definizione che le istituzioni carcerarie hanno difficoltà a maneggiare e che si riferisce nello specifico a chi ha intrapreso un percorso di transizione di genere: 69 donne recluse nelle cosiddette “sezioni protette”, due in una sezione cosiddetta “promiscua” e una in isolamento, un paradossale “isolamento di genere”, dovuto all’incapacità del carcere patriarcale di saper gestire le differenze di genere della società contemporanea.11 In generale, sembra esserci una volontà istituzionale di vedere le persone in carcere come esseri asessuati: ma il sesso in carcere c’è, spesso di tipo omosessuale e non necessariamente legato alla violenza. Ciononostante, in Italia è, per esempio, impossibile fare proposte di prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse con la distribuzione di condom associata a incontri di formazione e sensibilizzazione, come fatto in altri Paesi con buoni risultati.12 Una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 10/2024) ha riconosciuto il diritto all’affettività in carcere. Detto in maniera meno romantica, dovrà essere garantito il diritto di avere momenti di contatto con persone dall’esterno senza la sorveglianza della polizia: il punto è che quasi nessun istituto penitenziario italiano è al momento attrezzato e, accanto alle prime esperienze (per esempio, nel carcere di Parma), gli aneddoti raccontati dalle persone detenute parlano di tanta frustrazione, qualche bacio rubato nei bagni e rapporti affettivi che spesso vengono distrutti dall’esperienza carceraria.
■ Le persone straniere nelle carceri italiane sono 19.660, il 31,6% del totale. Questo è uno dei numeri più strumentalizzati a livello politico, perché sembra mettere in evidenza una maggiore propensione al crimine delle persone migranti (la percentuale attuale della popolazione straniera in Italia è di circa il 9%).13 Oltre alla ovvia constatazione sociologica di una prossimità agli ambiti criminali delle persone marginalizzate in contesti di necessità (da cui spesso provengono le persone migranti “irregolarizzate” dalla normativa italiana sull’immigrazione), andrebbe valutato il tasso di detenzione delle persone straniere che, al netto dell’aumento della popolazione straniera immigrata, è passato dallo 0,7% all’attuale 0,3%.14 Un utile cambio di prospettiva può suggerire che la iper-rappresentazione della popolazione migrante in carcere è legata a dinamiche di marginalizzazione e criminalizzazione delle persone migranti, anche attraverso metodologie di intervento delle forze dell’ordine che hanno portato degli organismi indipendenti a parlare di profilazione razziale.15 Non per niente a livello internazionale si va diffondendo il concetto di crimmigration per spiegare questi fenomeni, alla base dei quali agisce il razzismo strutturale che si è fatto istituzionale.16
■ Più del 40% della popolazione detenuta nel 2024 aveva più di 50 anni: il sistema penitenziario sembra non essere preparato a una vera e propria ondata di persone anziane detenute sempre più a lungo e con bisogni medici e assistenziali sempre maggiori.17 Accanto all’immunosenescenza precoce evidenziata in ambito detentivo, restano le criticità di gestione delle patologie cronico-degenerative e la difficoltà di dialogo con il sistema giudiziario per la segnalazione di eventuali incompatibilità con la detenzione di persone dovute proprio a problemi di salute legate alla vecchiaia.18 Per non parlare degli strumenti di prevenzione, per esempio i programmi di screening tumorali, che troppo spesso non riescono a superare le mura del carcere. La persona di cui ho scritto all’inizio di questa riflessione è una delle tante non autosufficienti inchiodate a un letto antidecubito in carcere, dove inevitabilmente lo standard di cure non può essere assicurato a causa di un’intensità assistenziale inadeguata alle richieste. Anche il carcere “non è un paese per vecchi”, per citare McCarthy; eppure, mentre le case circondariali si riempiono di persone detenute straniere sempre più giovani, intere sezioni di alcune grandi case di reclusione italiane assomigliano a reparti di geriatria.19
■ Almeno il 25% delle persone detenute in Italia ha un problema di dipendenza, dalle dipendenze “di ritorno” di eroina e crack alle farmacodipendenze sempre più diffuse, fino alle nuove droghe sintetiche. Il carcere è il campo di battaglia dove si constata la sconfitta della cosiddetta war on drugs,20 dal momento che gli strumenti di riduzione del danno si riducono alle terapie sostitutive con oppioidi e, in mancanza di prospettive sociali di rientro che non siano semplici porte girevoli, le persone tossicodipendenti si trovano troppo spesso a fare la spola tra SerD (Servizi per le Dipendenze), carcere e sistemi di comunità assistenziali al collasso.21
■ Nelle carceri italiane, l’incidenza di tubercolosi (TB) è pari a 122,4 per 100.000 persone,22 praticamente quella di un Paese come la Nigeria: questo dato non è una curiosità infettivologica, bensì l’effetto su persone vulnerabili della restrizione in contesti sovraffollati e spesso degradati. Certo molte di queste persone provengono da Paesi dove la tubercolosi è endemica, ma molti (anche italiani) riferiscono che l’unico posto dove possono essere entrati in contatto con la TB è proprio il carcere. Ciò è confermato dai numeri altissimi di trattamenti di TB latente avviati in carcere,23 cui non corrisponde un sistema efficace di raccolta dati che permetta di comprendere appieno l’effetto degli interventi sanitari su prevenzione, presa in carico e trattamento delle malattie infettive (non per niente il dato il dato relativo all’incidenza è aneddotico e del 2016, e da allora non risulta rilevabile un altro dato a livello nazionale).
■ Più del 55% delle celle negli istituti penitenziari italiani non ha una doccia che non sia in comune nelle sezioni.24 E non si tratta solo di rispetto della privacy, ma di un problema legato alla promiscuità coatta e dei rischi associati alla violenza intrinseca dei contesti detentivi.25 Ma addirittura il 31,6% delle carceri italiane detiene ancora persone in celle che non garantiscono 3 metri quadrati calpestabili per individuo, il minimo accettabile per non incorrere in una palese violazione dell’art. 3 della Corte Europea dei Diritti Umani su tortura e trattamenti inumani e degradanti.26,27 E così, nello stesso carcere di Rebibbia, dove Papa Francesco nei giorni di Natale 2024 ha aperto una Porta Santa, nella sezione femminile mancano le porte ai bagni.28
■ Ancora un ultimo numero, di sicuro non meno importante: 610 le presenze negli Istituti Penali per i Minorenni (IPM) a febbraio 2025.29 Dall’approvazione del cosiddetto “Decreto Caivano” (decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123), il giro di vite nei confronti dei minori, in particolare in termini di custodia cautelare per i vari reati previsti dal decreto, ha visto un aumento del 48% delle persone detenute in IPM. Per la prima volta in Italia ci sono carceri minorili interessate da criticità di sovraffollamento e la situazione è quella di un deragliamento dalla prospettiva di giustizia minorile come fiore all’occhiello della riabilitazione. Oggi molti IPM sembrano le sezioni delle carceri definite “giovani adulti”, sono caratterizzati da ghettizzazione (più del 50% dei ragazzi detenuti sono di origine straniera), abuso di psicofarmaci e farmacodipendenza, difficoltà di reintegro dopo la scarcerazione.30,31
■ E i suicidi, la punta dell’iceberg? ll 2024 si è confermato un anno record, con 91 persone che si sono tolte la vita al 31.12.2024 (25 sono già i suicidi nel 2025 al mese di aprile) (figura 2).32,33 Ma il punto è che, di tutti questi suicidi avvenuti in custodia dello Stato, di questi «suicidati dalla società», come direbbe Artaud,34 a noi non arriva che un numero, in cui ogni singolo è un punto, anonimo, presto dimenticato.
Figura 2. Suicidi nelle carceri italiane. Anni 1992-2024. Fonte: Associazione Antigone. Senza respiro. XXI rapporto sulle condizioni di detenzione. Maggio 2025.
Certo, il confronto con la popolazione generale è impressionante: le persone detenute in carcere hanno un tasso di suicidi di 12 ogni 10.000 persone, contro circa 0,7 ogni 10.000 della popolazione libera.35 E i suicidi non sono che l’estremo di uno spettro di violenza autoriferita che va dal semplice taglio alle fratture agli arti autoprocurate: il numero di eventi autolesivi e di autolesionismo nelle carceri italiane è in progressivo aumento e riguarda pericolosamente anche le carceri minorili.36
Almeno proviamo ad andare a fondo, sempre con l’aiuto di Antigone: tra le persone detenute suicidate nel 2024, due erano donne, 15 con età inferiore ai 25 anni, 43% straniere, almeno 20 senza fissa dimora, almeno 36 disoccupate, almeno 32 in attesa di primo giudizio. E poi c’è il dato sul quando avviene il suicidio: il 19% dei casi nei primi 10 giorni, proprio a significare l’impatto del trauma detentivo e l’incapacità sostanziale dei sistemi di prevenzione suicidaria messi in atto dagli istituti penitenziari. Altrettanti suicidi avvengono poi negli ultimi tre mesi di detenzione, e qui la spina traumatica non può che essere il ritorno in società da parte di persone che con la carcerazione hanno perso qualsiasi appiglio di rete sociale.37
Un dato senz’altro disarmante, quello delle persone che si uccidono quando entrano in carcere o poco prima di uscirne: a significare lo shock della carcerazione, certo, ma anche lo shock del ritorno a un vita spesso percepita come interrotta e senza appigli.38 E, non da ultimo, ci sono i suicidi tra il personale della polizia penitenziaria: dal 2019, si sono tolti la vita 35 agenti, con un tasso di suicidio di circa 7 persone all’anno, senz’altro il maggiore tra le forze dell’ordine e sicuramente uno dei maggiori in ambito professionale in Italia. Nonostante la mancanza di studio sulla correlazione tra questi suicidi e il lavoro in carcere, è indubbio che il lavoro nel contesto di detenzione, in particolare per le dinamiche di violenza assistita, agita e subita, non possono non avere effetti sul personale oltre che sui detenuti.39
Ma quali sono i problemi di salute principali delle persone detenute nella loro quotidianità in carcere? Lo chiarisce bene un grafico che riassume i dati relativi agli istituti penitenziari della regione Emilia-Romagna nel 2017 (figura 3).40
Eccolo qua:

Su PubMed non mancano gli studi sulle condizioni di salute nelle carceri italiane, ma, se si ottengono più di cento risultati relativi all’HIV, per lo specifico dei problemi di dipendenza scendono a 37, per le cure odontoiatriche forse 3. Allora o è sbagliato il grafico precedente o lo scollamento tra sanità pubblica e salute in carcere è ancora grande e profondo, da colmare. Ci sarebbe da ribadire l’importanza della raccolta dati, della ricerca quantitativa e qualitativa. Ma poi ci si deve scontrare con il moloch del carcere e se, come accaduto negli ultimi anni e nelle ultime settimane, dei provvedimenti governativi su “media” e “massima sicurezza” (che di certo non vi vengono spiegati in quanto come sanitari comunque siete “ospiti” del sistema)41 non permettono al personale di custodia di garantire lo spostamento di detenuti, personale, altri detenuti eccetera… puoi avere il progetto più bello del mondo e risolutivo delle criticità detentive globali, ma resterai seduto in un ufficio spoglio, appeso all’ennesimo diniego del direttore del carcere: «In questo momento è proprio impossibile dottore, ma vede in che condizioni siamo». Come ebbe a dire la Prof. Emma Plugge, esperta britannica di prison health durante una conferenza a Londra un paio di anni fa, «Doing research in prison is damn hard. But it’s damn necessary».42 Perché lo iato tra epidemiologia, demografia, sociologia e “vita” delle persone detenute si riempie con “maledetti” dati, con numeri, con testimonianze… con la capacità insperata che a volte ha l’epidemiologia di dare voce a chi cerca di parlare, ma con parole che si perdono prima di raggiungere le orecchie di chi decide.
Questi aspetti non parlano solo del carcere e, nello specifico, dei suicidi e dell’autolesionismo tra le persone detenute. Parlano del personale (anche quello non di custodia) che lavora in carcere e che spesso assiste inerme alla violenza strutturale dello stesso. Parlano del dramma del rientro in società che, ben al di là della retorica del reinserimento sociale, è fatto di mancanza di un tetto, disoccupazione, disgregamento delle reti sociali, dipendenza, violenti percorsi di rimpatrio forzato per le persone migranti che magari durante la carcerazione hanno perso il permesso di soggiorno (il 16% della popolazione totale dei CPR proviene direttamente dal carcere, in un continuum detentivo che per le persone migranti non lascia spazio a nessuna possibilità di ritorno alla società, ma solo di espulsione).43 Come può esserci continuity of care per le necessità di salute in un sistema in cui per molte persone il carcere rappresenta una cesura insanabile della continuity of social life?44 E parlano di recidiva e di ritorno in carcere, secondo il modello delle cosiddette porte girevoli, ampiamente analizzato a livello internazionale, e che ha ripercussioni di salute evidenti, come rappresentato nella figura 4, che mostra la “porosità” del carcere alle patologie infettive.45

Domandine, goccine
Meglio fare una pausa da questi numeri e pensieri asfissianti. Andiamo in una sezione del carcere dove non regna il suono delle doppie mandate, negli uffici medici e amministrativi, e saliamo sulla scrivania del coordinatore sanitario, come quella del direttore: questo piano di legno è ingombro di fogli, burocrazia, firme da mettere distrattamente. Ma il taglio più comune è quello di A5 prestampati, intestati “Ministero della Giustizia”, una riga per il nome del detenuto e quattro introdotte da “richiede…”, e a fine pagina la DECISIONE firmata dal Direttore: queste scrivanie sono i regni e i troni delle “domandine”, attraverso cui le persone detenute avanzano ogni tipo di richiesta, dall’acquisto di un paio di mutande nuove alle richieste reiterate di valutazione medica specialistica. Dietro al diminutivo grottesco del suo nome, così intrinseco al meccanismo infantilizzante delle persone detenute (gli “spesini” passeranno due volte a settimana con le liste della spesa, meglio ricordarsene se non vuoi arrenderti ogni giorno al cibo del carcere), la domandina è strumento di controllo e di “burocrazia totalitaria”,46 e vedere i medici alle prese con queste richieste, in un sistema che avvertono come improprio, mi fa porre una domanda: chissà se Goffman e Basaglia avevano in mente uno strumento così piccolo e acuminato quando hanno descritto i meccanismi deumanizzanti delle istituzioni totali.47
Scendo di nuovo le scale, torno nell’infermeria del carcere “modello”: un ragazzo è circondato da infermieri con un taglio profondissimo sull’avambraccio. «Un lago di sangue», dicono gli agenti che lo hanno portato a braccio, con affanno. Si riferiscono alla cella. La sirena del 118 comincia a sentirsi in lontananza. Nell’ambulatorio accanto al mio sento un uomo gridare con la psichiatra: «IO STO MALE! CHE CI FACCIO CON UN TAVOR?». È da questi scampoli di vita in carcere che capisco quanto l’abuso degli psicofarmaci, il perpetuarsi delle “goccine” nei fogli di terapia delle persone detenute, un dato di fatto evidenziato dalle inchieste e da chiunque abbia esperienza di carcere,48 è il drammatico punto di incontro di interessi contrastanti, ma convergenti: la fatica da parte di dirigenti penitenziari e di sanitari di gestire un carcere sempre più sovraffollato e “discarica sociale”; trattamentali sempre più allo stremo, spesso inadeguati; l’esigenza di avere un carcere considerato dalla politica punitivo ma “sicuro”, che si staglia ogni giorno sulle forze dell’ordine; la disperazione delle persone detenute, la grande maggioranza che non riesce a trovare un orizzonte di vita in quello che dovrebbe essere lo strumento riabilitativo delle loro vite. Al punto di convergenza ci sono le “goccine”, in un coacervo di dilemmi deontologici, perpetuazione di farmacodipendenze e violenza.
Ma insomma, va proprio tutto male?
Di certo provvedimenti come il famigerato disegno di legge 1660 (il cosiddetto ddl sicurezza), convertito irritualmente in decreto legge e quindi pienamente operativo dal 4 aprile 2025, non faranno che peggiorare la situazione, tra l’altro prefigurando uno stato di “emergenza securitaria” inesistente. L’abolizione dell’obbligo di differimento della pena per le donne in stato di gravidanza o con figli di età inferiore ai tre anni (come da art. 146 del codice penale), che su decisione del giudice dovranno/potranno essere detenute negli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM), che però sono solo cinque sul territorio nazionale e conservano diversi aspetti della vita detentiva (banalmente, la presenza delle sbarre e comunque tutto il condizionamento di vita dovuto alla privazione della libertà); al di là degli evidenti rischi di salute che il contesto detentivo pone per la gravidanza49 e per i bisogni dei bambini nei primi anni di vita,50 viene palesemente violato il diritto a una maternità dignitosa e sicura, sancito dalle regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute (Regole di Bangkok del luglio 2010),51 richiamando, tra l’altro, l’interesse superiore del minore rispetto all’esercizio del potere punitivo. L’introduzione, poi, del reato di rivolta in carcere e nei CPR, con pene pesantissime e che si applica anche alle forme di resistenza passiva (in cui, per esempio, potrebbe rientrare anche lo sciopero della fame), di fatto rappresenta un bavaglio al diritto di protesta:52 riferendosi all’“uomo in rivolta” di Camus, Basaglia in più occasioni ha ribadito che togliere alle persone ristrette la possibilità di urlare, battere i pugni, protestare in un contesto di istituzione totale significa di fatto annichilire l’ultimo pezzo di umanità che preservi l’individuo dalla deumanizzazione.53 E nelle sezioni e nei bracci delle case circondariali e di reclusione di tutt’Italia già si avverte il senso di paura mista a rabbia e odio, quando anche solo il gesto della “battitura delle sbarre”, utilizzato da secoli per far sentire in maniera non violenta il dissenso e la disperazione, può portare a un aggravio di pena da uno a cinque anni.
Carcere su carcere su carcere… un sovrapporsi di “strati” di carcere sotto cui si decide di nascondere gli indesiderati. Quando le discariche sociali scoppiano, c’è bisogno di tappeti.
Proprio come la recente proposta di affrontare il problema del sovraffollamento con 16 “blocchi detenzione trasportabili e smontabili”: in pratica, dei container da 2 milioni di euro l’uno (gli stessi usati per realizzare i CPR in Albania, per intenderci) che dalla stampa filogovernativa sono stati presentati come «prefabbricati in calcestruzzo, standardizzati e trasportabili, dotati non solo di celle 6 metri per 5, compreso un bagno di tre metri quadri, ma anche mini spazi comuni per biblioteca, barberia, sala psicologo e palestre, oltre a impianti di sicurezza avanzati, ciascuno progettato per accogliere 24 detenuti e aumentare la capienza delle carceri di appena 384 posti, al costo di circa 83.000 euro l’uno».54 Al di là della questione dei costi esorbitanti e dell’inefficacia manifesta di misure di questo tipo per contrastare il problema del sovraffollamento carcerario, lo strumento del container mette seriamente in discussione gli spazi adibiti alla vita individuale e sociale della persona detenuta, nonché la qualità degli spazi stessi, non implicando per esempio l’incremento di personale non di custodia per rispondere alle necessità della popolazione detenuta. Infine, offre una dimostrazione “plastica” della visione deumanizzata che le istituzioni hanno oggi delle persone detenute: di fatto, item in eccesso da ridistribuire, come in una simulazione o in videogame, con strumenti modulari, prefabbricati, trasportabili, consumabili.
E sì, non ci sono tante cose positive da dire dentro al carcere
Se non che fuori, nel mondo senza sbarre, le cose funzionano meglio. Basti pensare alle cosiddette “misure alternative” alla detenzione che, a differenza di quanto si pensa, riguardano al momento molte più persone di quelle che galleggiano in carcere. A febbraio 2025 erano 95.315 le persone condannate o in giudizio che stavano scontando misure alternative alla detenzione o di comunità:55 un segno che è possibile agire fuori dal contesto carcerario, e il Garante Nazionale dei detenuti calcola che circa il 30% della popolazione detenuta potrebbe avere accesso a misure alternative alla detenzione;56 una percentuale che da anni il “Libro Bianco sulle Droghe” ricava anche riduzione di accessi in carcere che si avrebbe con misure di decriminalizzazione dell’uso di droghe e dalla presa in carico sanitaria e non carceraria delle persone tossicodipendenti (tematiche evidentemente siderali rispetto alla pubblica opinione in questo momento storico).57
L’effetto più impressionante delle misure alternative è sulla recidiva: ritorna in carcere il 19,2% delle persone alle misure alternative rispetto al 68,5% delle persone detenute.58 E tra i circa 20.000 detenuti che riescono (a fatica) ad accedere a un contratto di lavoro il tasso di recidiva è del 2%.59 Sembra che il carcere abbia un effetto magnetico: più si sta dentro, più si rischia di tornare dentro. Perché le dinamiche di marginalizzazione e l’impossibilità di mettere in atto strategie di integrazione sociale inevitabilmente mettono in moto quelle “porte girevoli” che, come già accennato, sono il dramma della scarcerazione per migliaia di persone dopo un’esperienza detentiva.
E sulla salute, qualche nota positiva?
Si potrebbe provare ad analizzare la lezione della pandemia di COVID-19: com’è andata in carcere in Italia? Tutto bene? Da una parte è indubbio il successo della medicina detentiva italiana nell’aver evitato disastri e tragedie sanitarie, com’è accaduto in altri Paesi, dove si è arrivati a parlare di veri e propri “progetti necropolitici” in riferimento all’abbandono sanitario delle persone detenute.60 Inoltre, i servizi sanitari in carcere sono stati spesso i primi e gli unici a raggiungere le fasce di popolazione definite hard to reach in termini di COVID-19 detection e soprattutto di vaccinazione (durante le campagne vaccinali contro COVID-19 del 2021, nelle carceri di Milano più del 90% delle persone detenute ha effettuato la prima dose di vaccino proprio all’ingresso in carcere, non avendo avuto altre occasioni di presa in carico dalla sanità pubblica in libertà).61 Una situazione che ha confermato l’inesorabile attualità per le persone che finiscono in carcere della cosiddetta “legge dell’assistenza inversa di Hardt”: chi ha maggiore bisogno di cure ne riceve di meno.62
Ma, al di là di tutti gli sforzi preventivi e di contenimento, le misure intraprese sono state essenzialmente di tipo restrittivo nei confronti delle persone detenute, con riduzione degli spazi sociali e di apertura al mondo libero, nonché con un ricorso amplificato delle misure di isolamento (overisolation).63,64 Gli effetti di tali misure sulla salute mentale delle persone detenute in Italia sono stati profondi e sono ancora in atto, come mostrano studi a livello regionale,65 e meriterebbero maggiore attenzione a livello nazionale. Uno degli aspetti meno indagati, per esempio, riguarda la possibilità di elaborazione del lutto per le persone in detenzione, a prescindere dallo specifico della pandemia di COVID-19, una missione che sembra impossibile nel panorama culturale attuale.66
La riflessione sulle lessons learnt della pandemia di COVID-19 è parte essenziale del Progetto europeo “RISE-Vac – Reaching the hard-to-reach: Increasing access and vaccine uptake among the prison population in Europe”,67 che si è concluso nel 2024 (vd. questo dossier di E&P pp. 151-152).Si è trattato di un consorzio che, riunendo le realtà di assistenza sanitaria in carcere di sei Paesi europei, ha sviluppato focus sulle migliori strategie di prevenzione per la popolazione carceraria intesa come underserved population: partendo dall’analisi dello status quo sulle vaccinazioni in carcere in diversi Paesi europei, sono stati sviluppati dei model of care per incrementare le coperture vaccinali, considerando le specificità dei contesti sociali determinati dalla detenzione.68 Uno di questi è stato sviluppato con l’implementazione di specifici ambulatori vaccinali nelle carceri di Milano che, oltre alla fornitura delle vaccinazioni previste dalle schedule nazionali e specifiche per il carcere, hanno intrapreso progetti di sensibilizzazione e health empowerment con le persone detenute relative a specifiche vaccinazioni, quella contro Mpox durante l’epidemia del 2022 o quelle contro HBV e HPV in una strategia di prevenzione del cancro.69 Parte integrante del Progetto RISE-Vac è stato poi un assessment della vaccination hesitancy della popolazione detenuta e del personale che lavora in carcere, che ha fatto emergere la stretta interrelazione tra health literacy e vaccination acceptability: al di là di pregiudizi, teorie del complotto e anatemi vari che hanno imperversato negli scorsi anni, le persone detenute e del personale che dimostravano di conoscere meglio le questioni legate alle vaccinazioni erano quelle più propense ad accettare l’offerta vaccinale, fornendo chiari indirizzi di intervento per i programmi di sanità pubblica.70
Anche nel contesto di un progetto finanziato dall’Unione Europea le difficoltà sono state tantissime, a partire dalla raccolta dati e per finire (o cominciare?) con le mancate connessioni con la medicina territoriale. Si può proporre il carcere come hub vaccinale, come Casa della salute e come provider di assistenza sociale, si possono perseguire programmi verticali di microeliminazione dell’epatite C o di altre patologie “interessanti” per la ricerca e l’industria farmaceutica… Ma la realtà di ogni giorno parla ancora di luoghi di custodia a carattere meramente punitivo e in cui troppe persone con problemi di salute non vengono prese in carico adeguatamente.
E allora ribadiamo ancora una volta: il concetto di equivalence of care (e possibilmente di equivalence of outcome) può essere raggiunto solo garantendo alle persone detenute l’appartenenza alla comunità, per esempio, evitando percorsi di salute ermeticamente chiusi al SSN, in una sorta di autarchia carceraria che è l’antitesi di quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione. Da questa considerazione dovrebbe emergere la richiesta di advocacy di avere il carcere in ogni tavolo di policy relativo alla sanità pubblica, nonché una maggiore sensibilizzazione sulle questioni del carcere a livello sociale. La “trasparenza delle mura del carcere” diventa essenziale sulle questioni di tutela della salute.
Conclusioni (?)
People-centered approach for prison medicine.
People in prison are part of our communities.
People in prison have a right to health.
Good prison health is good public health.
Questi alcuni dei mantra dell’Organizzazione Mondiale della Sanità relativi alla salute in carcere, almeno dal 2007.71 Quanto sono stati ascoltati, presi in considerazione e implementati negli ultimi 18 anni? Difficile a dirsi, sicuramente disuguaglianze e sofferenza cumulativa sono ancora comuni in carcere in Europa.72
Cosa può fare la ricerca di sanità pubblica per il carcere in Italia? Di certo non sarebbe utile l’ennesima case series sulla microeliminazione dell’epatite C o il conteggio metodico e “da rosario” dei suicidi, destinati all’anonimato del numero. Oppure bizzarre proposte di intervento sugli stili di vita, suggerendo di smettere di fumare e di mangiare più frutta fresca a persone che stentano a trovare un orizzonte di vita. Può, invece, contribuire a migliorare (o far iniziare) sistemi e metodologie di raccolta dati efficaci e condivisi, nel rispetto dei diritti delle persone detenute; può fornire evidenze qualitative sulle loro condizioni di vita e coinvolgerli in progetti di ricerca partecipata. Il potenziale di ricerca quantitativa e qualitativa può essere usato come mezzo fondamentale di advocacy e lobbying rivolto ai decisori politici, per portare in agenda le questioni di salute delle persone detenute ben al di là della furia del panpenalismo di questi anni (sarebbe per esempio impensabile una commissione d’inchiesta parlamentare sull’epidemia di suicidi in carcere, come strumento di “attacco all’iceberg”, pur partendo dalla punta?) nell’ambito dei diritti e della considerazione di queste persone come parte integrante della società, anche prima del tanto proclamato reinserimento sociale.
La crisi dei servizi territoriali (per esempio, quelli per le dipendenze) associata al panpenalismo governativo degli ultimi anni porta ad aggravare sempre più il sovraffollamento carcerario, che a sua volta, con il meccanismo della recidiva, mette in moto un circolo vizioso di marginalizzazione, criminalizzazione e detenzione. Possiamo spingerci ad affermare che è in atto anche in Italia una mass incarceration73 come quella che affligge gli Stati Uniti? Per certo anche da noi si avverte il bisogno di una abolition medicine che si opponga al paradigma della detenzione come risoluzione dei problemi sociali, focalizzando l’interesse dei decisori politici sul rafforzamento delle infrastrutture sociali e sanitarie per affrontare i problemi della fasce della popolazione più marginalizzate.74 Il carcere è uno dei luoghi dove attualmente maggiormente si esercita quella che Farmer definiva “violenza strutturale”,75 in cui persone provenienti da contesti non raggiunti dai servizi sociosanitari si ritrovano nel paradosso di incontrare, magari per la prima volta, alcune briciole di diritto alla salute (screening, vaccinazioni eccetera), ma nel contempo inglobati dal complesso detentivo come determinante sociale massimo di malattia, cui si può solo “sopravvivere”.76
Per dirla con Bourdieu, in carcere si instaura uno scarto incolmabile tra tattiche quotidiane di sopravvivenza e possibilità di strategie sociali a lungo termine.77 La presenza di servizi che dovrebbero garantire il diritto di salute può rappresentare un’opportunità di scampo da questo contesto di vita tutta etero-diretta (dalle manette alle sentenze, fino alle domandine).
Insomma, la ricerca e la pratica della sanità pubblica hanno eccome un ruolo nella realizzazione del motto «there is no public health without prison health»: affinché non resti un vuoto slogan da congresso, è indispensabile far emergere con forza e chiarezza che sì, il carcere può essere un luogo di cura e di opportunità; ma solo se se ne riconosce l’attuale dannosa disfunzionalità e patogenicità.
E qui direi che potrei chiudere questa lunga, sconclusionata riflessione.
Non fosse che pochi giorni fa, nel carcere “modello” in cui lavoro, una donna che seguo da tempo per infezioni delle vie urinarie recidivanti (l’ultimo dei suoi problemi), in una notte tra domenica e lunedì, si è impiccata. “L’ultimo dei suoi problemi”, quello infettivologico, quante volte l’avrò detto, segnalando la necessità di ulteriori valutazioni psichiatriche, della disperazione manifestata a ogni incontro, della fiducia in me probabilmente sentita come tradita, dei musi storti di agenti e colleghi e direttori ogni volta che si nominava il suo nome, sempre volti a colpevolizzare, a sminuire, a costruire muri.
Lei si è uccisa, un altro numero nella clessidra, e il senso di nausea da allora non mi abbandona.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
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- Dal 2022, alcuni provvedimenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) hanno modificato in termini restrittivi le modalità di garanzia di ore che le persone possono trascorrere fuori dalla cella, nei circuiti della media e recentemente anche della massima sicurezza, implicando un maggiore impegno della polizia penitenziaria per la tutela della sicurezza negli ambienti detentivi. Per approfoddire: Studio del garante nazionale sull’applicazione sperimentale delle nuove direttive per il circuito di media sicurezza. Settembre 2023. Disponibile all’indirizzo: https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/f42fde92c8255b4a6c57f6e8223f7d8b.pdf
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