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E&P 2022, 46 (3) maggio-giugno, p. 126-129
DOI: https://doi.org/10.19191/EP22.3.034
Pace; Guerra
Etica ed epidemiologia della guerra
Ethics and epidemiology of war
Con questo articolo di Pirous Fateh-Moghadam si apre un'ampia riflessione sulla pace, che verrà ripresa e ampliata sul prossimo numero della rivista. Invitiamo tutte e tutti a intervenire aggiungendo ulteriori argomentazioni e riflessioni.
La guerra di aggressione russa all’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 ha evidenziato con brutale chiarezza che guerre e militarismo continuano a rappresentare una seria minaccia alla salute pubblica e all’integrità ambientale in Europa, come nel resto del mondo.
Di fronte a militarismo e guerra ci possono essere due differenti posizionamenti. Il rifiuto pacifista, assoluto e categorico, oppure un atteggiamento possibilista, che ritiene necessario procedere a una valutazione specifica prima di formulare un giudizio a favore o contro. È relativamente a questo secondo approccio che l’epidemiologia e la sanità pubblica possono contribuire maggiormente applicando i propri strumenti di analisi e di valutazione dei rischi, al pari di quanto avviene abitualmente nei confronti di altri determinanti della salute.
Nel dibattito sull’attuale guerra in Ucraina e sulla decisione circa il tipo di supporto da dare o non dare alla nazione aggredita, ha pesato molto il concetto di “guerra giusta”. Risulta quindi importante fornire qualche elemento per una riflessione critica attorno a questo concetto, al termine della quale emergerà anche il punto di innesto e il ruolo dell’epidemiologia e della sanità pubblica nel processo di valutazione.
Sant’Agostino e San Tommaso D’Aquino
I riferimenti storici, richiamati anche nel dibattito pubblico italiano, in questo ambito sono Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso D’Aquino (1225-1274). Nella fase di declino dell'Impero Romano l'Editto di Tolleranza dell'imperatore Costantino del 313 cambiò la posizione dei cristiani nella società romana e sollevò la domanda all’interno della comunità cristiana se fosse permesso prendere parte a guerre e quindi uccidere, domanda alla quale Sant‘Agostino rispose nella tradizione della giurisprudenza romana. Le sue opinioni sparse furono successivamente sistematizzate da Tommaso d'Aquino. Per Sant’Agostino è possibile partecipare alla guerra se questa rispetta alcuni criteri dello Ius ad bellum. Auctoritas (la guerra deve essere dichiarata da un'istituzione che ne ha diritto); Iusta causa (far cessare un’ingiustizia), con chiara definizione di motivi e obiettivi; Intentio recta (esclude annessioni di territori o vantaggi materiali). Altri requisiti sono: guerra ultima ratio; la proporzionalità rispetto all’obiettivo della guerra; il rispetto dello Ius in bello, che dopo la seconda guerra mondiale venne codificato dai diversi protocolli delle convenzioni di Ginevra. I civili non devono costituire bersagli in azioni militari; le azioni militari devono essere nettamente distinte da azioni umanitarie; la scelta delle armi deve essere tale da permettere una netta distinzione tra combattenti e non; esistono precisi standard che stabiliscono le condizioni della resa, la detenzione e il trattamento dei prigionieri.
La tecnologia militare: non siamo più nel medioevo
Uno dei punti centrali da considerare nel riesame critico dell’antico concetto di guerra giusta è rappresentato da una valutazione dell’evoluzione della tecnologia militare dal medioevo ad oggi. Non occorre entrare nei particolari per poter affermare con certezza che la differenza con la situazione odierna sia abissale, non solo dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo. Condurre una guerra oggi è completamente diverso rispetto all’epoca romana o al medioevo, periodi nei quali questi criteri sono stati concepiti. Pertanto, invece di trasferire meccanicamente delle considerazioni emerse da un contesto che si distingue in maniera eclatante da quello attuale, come ha fatto per esempio Vito Mancuso[1] per prestare una stampella teologica alla decisione governativa di invio di armi, sarebbe valsa la pena di interrogarsi su cosa avrebbe detto Sant’Agostino se confrontato con il potenziale bellico attuale, con le tecnologie impiegate e con le prevedibili conseguenze che ne scaturiscono. I due filosofi avrebbero continuato a parlare di auctoritas, iusta causa e intentio recta di fronte a strategie e tecnologie militari che hanno invariabilmente l’obiettivo di distruggere deliberatamente l’ambiente fisico e sociale di un intero paese o territorio, provocando vittime soprattutto tra la popolazione civile, che per giunta continua a essere colpita ben oltre la fine delle ostilità per i numerosi effetti indiretti delle guerre[2]? Avrebbero mai preso in considerazione che l’uso (o la minaccia dell’uso) di armi nucleari, anche se in difesa, potesse essere considerato “giusto”? Avrebbero ritenuto applicabile il concetto di “difesa” all’uso di armi nucleari che, palesemente e per loro stessa natura, violano tutti i principi della proporzionalità, della protezione dei civili, della distinzione tra combattenti e non?
La guerra giusta: solo una possibilità, non un obbligo
È fondamentale ricordare inoltre che in ogni caso, per il diritto internazionale e per i due filosofi menzionati, il rispetto dei criteri della guerra giusta rende ammissibile, ovvero non sanzionabile, l’uso della guerra. È questo chiaramente il caso dell’Ucraina, che si difende legittimamente da una aggressione che viola il diritto internazionale. Ma il fatto che la guerra difensiva sia permessa non significa, ovviamente, che sia da considerare sempre la migliore scelta nel contesto dato. Anche per Sant’Agostino significa solo che il fedele cristiano che partecipa a una tale guerra non deve temere di finire all’inferno, cosa totalmente diversa da una raccomandazione proattiva, da un imperativo etico in favore del ricorso, della partecipazione e del sostegno alla guerra, che sembra invece essere l’interpretazione tanto fuorviante quanto diffusa nel dibattito attuale.
Un doveroso aggiornamento di un antico concetto
Invece di limitarsi ad esaminare, in maniera più o meno strumentale, antichi concetti è opportuno includere nei propri ragionamenti anche delle considerazioni più recenti sull’etica della guerra. A tale proposito risulta particolarmente interessante il contributo di Henry Shue all’Oxford Handbook of Ethics of War[3]. Nel capitolo da lui curato, Shue riprende e sviluppa il suo ragionamento attorno a due termini – ‘il male contrastato’ e ‘il male creato’. Il male che nasce da una guerra può essere chiamato il ‘male creato’, mentre il male che una guerra intende scongiurare può essere chiamato il ‘male contrastato’. I mali che le guerre stesse creano, per la loro natura e per le tecnologie impiegate, sono sufficientemente gravi da ritenere che l'unica 'giusta causa' possibile sia la prevenzione di mali ancora più grandi. Per 'male', si intendono violazioni dei diritti individuali fondamentali (come il ferimento o l’uccisione arbitraria) o danni gravemente ingiusti (come la distruzione selvaggia dell'ambiente), non semplicemente esiti negativi sul piano impersonale.
La domanda successiva è: quali mali sono da annoverare tra quelli creati dalla guerra? Su questo punto Shue specifica che “la valutazione della proporzionalità dovrebbe consistere in giudizi complessivi su tutto il male che ci si può ragionevolmente attendere se si sceglie la guerra”, quindi indipendentemente da quale parte belligerante il male viene inflitto. “E’ sufficiente una sola parte per avere un massacro o un'invasione, ma due parti per avere una guerra”, afferma Shue. Se si sceglie la guerra, si deve mettere in conto che saranno commessi tutti i mali di quella guerra, qualunque essi siano.
Cinque categorie di danni da mettere in conto
I danni complessivi possono essere suddivisi in almeno tre (più due) categorie:
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il male che ci si potrebbe aspettare di infliggere di prima mano a se stessi - non intenzionalmente ma prevedibilmente;
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il male che ci si potrebbe aspettare che altri, che si dovrebbe proteggere, soffrano per mano di terzi (la popolazione civile sottoposta ai bombardamenti avversari che senza guerra non sarebbero avvenuti); e
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il male che ci si potrebbe aspettare che altri, che non si ha il dovere di proteggere, soffrano per mano di terzi (persone obbligate ad arruolarsi come soldati dalla legge o dalla povertà o altrimenti costrette a partecipare a un conflitto di cui non sanno quasi nulla: non hanno la stessa responsabilità dei loro comandanti, ma vengono feriti e uccisi in maniera indiscriminata).
A queste tre categorie principali vanno aggiunte altre due:
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l’inquinamento e i danni all’ambiente e
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una ‘contingenza morale’, un quantum aggiuntivo di male probabile oltre ai mali specifici. Questa categoria comprende i massacri e crimini di guerra, i soldati impazziti, episodi crudeli e fuori controllo che sono endemici al caos della guerra e che diventano tanto più frequenti quanto più a lungo dura il conflitto. Già Clausewitz affermava che la guerra tende - per sua natura - a intensificarsi ed ad andare fuori scala e anche in Ucraina, dopo diverse settimane di conflitto, siamo diventati testimoni di diversi esempi di massacri agghiaccianti.
Occorre sottolineare che non si tratta di fare una valutazione della colpa o della responsabilità, ma di una valutazione complessiva per capire quale scelta provoca meno danni e sofferenze. Perché, a differenza di quanto i belligeranti tendono a far credere, una scelta tra guerra e non guerra esiste sempre, anche per chi si deve difendere da un attacco. Nella conta occorre quindi includere tutti i danni ingiusti che si stima possano verificarsi, compresi i danni ingiusti per i quali il proprio avversario è direttamente da biasimare, sia legalmente che moralmente.
Questa valutazione è da fare ex-ante, per giungere alla decisione migliore, ma anche durante una guerra in corso, per poterla eventualmente fermare al fine di evitare un ulteriore sbilanciamento verso il male creato. A questo si aggiunge la valutazione della proporzionalità di ogni singola azione bellica all’interno della guerra (ius in bello). Essendo il bilanciamento nelle singole azioni solitamente piuttosto equilibrato con margini molto stretti, sarebbe del tutto possibile che ogni singolo attacco nel corso di una guerra soddisfi il criterio di proporzionalità, ma che la guerra nel suo complesso fallisca grossolanamente nel soddisfare lo standard della proporzionalità perché i mali creati complessivi sono comunque superiori al male contrastato.
Le riflessioni di Shue non prendono in considerazione il rischio di una escalation del conflitto oltre le parti belligeranti iniziali, né la possibilità dell’impiego di armi nucleari, due elementi che possono tuttavia essere inseriti senza problemi nelle categorie di bilanciamento proposte.
Il ruolo dell’epidemiologia e della sanità pubblica
Tutte le categorie di possibili danni da mettere in conto nel bilanciamento etico sono categorie di impatto sulla salute, diretti o indiretti, e sull’ambiente. In questo contesto l’epidemiologia e la sanità pubblica hanno un ruolo fondamentale: contribuire a colmare il vuoto informativo per rafforzare il potere decisionale dell’intera società nella valutazione dell’opportunità della partecipazione diretta o indiretta a una guerra. Non solo prima che venga compiuta la scelta, ma anche nel proseguo per poter correggere il corso intrapreso.
Inoltre un ragionamento analogo può essere applicato per valutare l’opportunità delle scelte belliciste anche in periodo di pace (dall’investimento in armamenti, al commercio di armi, al mantenimento di un esercito e di un sistema militare in generale), che possono essere viste di per sé come fattori di rischio per la salute pubblica e l’integrità ambientale e anche in quanto fattori che rendono più probabili future guerre.
All’interno dell’Associazione italiana di epidemiologia dal 2004 al 2010 è stato attivo un gruppo di lavoro specifico, che si era posto esattamente questi obiettivi, partendo dalla consapevolezza che bellicismo, guerre e conflitti armati rappresentano importanti fattori di rischio per la salute pubblica mondiale, provocando malattie, morti e devastazioni ambientali evitabili. Dopo aver esaminato gli effetti dei maggiori conflitti militari della storia recente a partire dalla seconda guerra mondiale, si è arrivati alla conclusione che le caratteristiche comuni dei conflitti armati condotti da eserciti moderni - in particolare: la mancanza di limiti di spazio, di tempo e giuridici; l’impossibilità di discriminare tra obiettivi militari e civili; gli effetti indiretti a lungo periodo, responsabili degli enormi danni e sofferenze a carico delle popolazioni civili; e la sempre possibile evoluzione in guerra atomica - sono tali per cui nessun fine umanitario può giustificare il ricorso alla guerra.
Applicando il ragionamento di Shue, possiamo dire che il male creato tipicamente supera il male contrastato. Quindi, insieme al rispetto per la libertà di scelta dei mezzi di difesa di una nazione aggredita (che è indipendente dal proprio giudizio sulla bontà della scelta), l’unico atteggiamento possibile è quello dell’opposizione al proprio coinvolgimento nella guerra, nell’impegno per la prevenzione e il sostegno alla resistenza nonviolenta, al ricorso a forze di interposizione e a favore della diplomazia e del disarmo. Nel risultato pratico finale le due posizioni iniziali, quella pacifista a quella possibilista, si avvicinano quindi, fino a sovrapporsi.
Tuttavia permane il compito della professione sanitaria di sorvegliare e documentare gli effetti sanitari del militarismo, delle guerre e dei fattori causali associati; di disseminare e divulgare più ampiamente possibile tali informazioni; e di impegnarsi politicamente nell’organizzazione e sostegno di azioni di promozione della pace e di prevenzione di conflitti armati. Analogamente agli altri ambiti di sanità pubblica, anche nella prevenzione della guerra possono essere distinti tre livelli di attività:
- la prevenzione primaria: prevenire lo scoppio di guerre o fermare una guerra cominciata;
- la prevenzione secondaria: prevenire e ridurre al minimo le conseguenze su salute ed ambiente di una guerra in atto;
- la prevenzione terziaria: trattamento delle conseguenze della guerra (tra cui l’accoglienza dei profughi).
Per un mondo pacifico, clima-resiliente con salute e benessere per tutti
Non si tratta di contrapporre il valore della “salute”, meglio preservata dall’assenza di guerra, al valore della “libertà” o della “democrazia”, da difendere attraverso la guerra. La libertà e la democrazia sono elementi essenziali per il raggiungimento della salute, definita come benessere fisico, psichico e sociale. La presenza diffusa di malattia e morte, dovuta alla guerra, impedisce non solo l’impegno a favore della promozione della salute, ma anche lo stesso esercizio della libertà e la partecipazione democratica che si prefigge di difendere. Democrazia e libertà possono inoltre anche essere difese efficacemente attraverso azioni alternative alla guerra. Non a caso la carta di Ottawa[4], a cui l’intera comunità di sanità pubblica si ispira, cita “la pace” come il primo dei prerequisiti fondamentali per la salute. Seguono l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l'equità. Tutti fattori egualmente danneggiati e distrutti dalla guerra, con effetti che solitamente perdurano per decenni anche dopo la cessazione delle ostilità.
Per evidenziare una prospettiva per il futuro vorrei, infine, cogliere uno stimolo fornito da Mancuso quando nel suo articolo ricorre, però in maniera fuorviante, al concetto hegeliano della Aufhebung. Il concetto della Aufhebung, se applicato in maniera autentica, potrebbe invece indicare una via di uscita definitiva dal circolo vizioso della violenza nel quale, ci pare, Mancuso crede di essere condannato a rimanere in eterno con fasi alternanti di guerre e periodi di pace.
In tedesco, il verbo aufheben ha tre significati: raccogliere, superare e custodire. Il processo della Aufhebung implica la realizzazione contemporanea di tutti e tre i significati per raggiungere una situazione nuova, inedita. Quindi questo processo non permette affatto di oscillare nelle proprie preferenze tra guerra e pace a seconda della convenienza politica del momento come suggerisce Mancuso.
Applicare in maniera autentica la Aufhebung alla coppia guerra e pace, significa:
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riconoscere l’esistenza (in tutti gli individui e nella nostra società) della pulsione alla violenza, dello stimolo a reagire in maniera violenta, bisogna esserne consapevoli (raccogliere); ma
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superare questa tendenza riconoscendo, grazie alla razionalità, che questo porta solo a un circolo vizioso nel quale si genera ulteriore violenza; tuttavia non scordare mai che questa tendenza fa parte del nostro essere, proprio per poterla contrastare efficacemente anche in futuro e quindi
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custodirla, e di conseguenza realizzare dei freni culturali e strutturali che impediscano a queste pulsioni di esprimersi (disarmo, tanto per cominciare).
Il risultato finale è uno stato del tutto nuovo rispetto alle condizioni di partenza: prima la pace era interrotta periodicamente da guerre (o viceversa). Una condizione in cui la guerra era in qualche maniera il risultato della pace. “La guerra cresce dalla loro pace come il figlio dalla madre. Ha in faccia gli stessi lineamenti orridi”, nelle parole di Bertolt Brecht. Dopo la Aufhebung, invece, neanche la pace è più quella di prima, è diversa e non genera più guerra. Assomiglia a quello che Papa Francesco[5] ha chiamato “un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo”, un modello di cura già in atto, secondo Bergoglio, ma purtroppo “ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare”. Indicazioni preziose anche per la pratica politica quotidiana alla quale gli operatori sanitari sono chiamati a contribuire, non solo in quanto cittadini, ma anche nell’esercizio della loro professione.
9 aprile 2022, Pirous Fateh-Moghadam
Bibliografia
- Vito Mancuso, Sono contrario alla guerra ma le armi vanno inviate, La Stampa, 6.3.2022
- Ho approfondito in maggiore dettaglio questo aspetto in: Pirous Fateh-Moghadam, La guerra in Ucraina: un punto di vista sanitario, Il Punto - Confronti su medicina e sanità, 18.3.2022, https://ilpunto.it/la-guerra-in-ucraina-un-punto-di-vista-sanitario/ e in Pirous Fateh-Moghadam, Guerra, terrorismo e salute, in Osservatorio italiano sulla salute globale, Rapporto 2004 “Salute e globalizzazione”, Feltrinelli 2004, pagine 39-54
- Henry Shue, Last Resort and Proportionality, in Seth Lazar, Helen Frowe (editors), The Oxford Handbook of Ethics of War, Oxford University Press, 2018, pp 260-276
- WHO, The Ottawa Charter for Health Promotion (1986), https://www.who.int/teams/health-promotion/enhanced-wellbeing/first-global-conference
- Il monito del Papa: una pazzia l’aumento del 2% della spesa per le armi, “mi sono vergognato”, La Stampa, 24.3.2022
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1.
Cambiare la metafora: la guerra come malattia e la pace come salute
L'analisi di Pirous Fateh-Moghadam è un esempio di come sia efficace capovolgere l'abusata metafora bellica applicata alla malattia (la pandemia come "guerra" e il coronavirus come "nemico"); piuttosto applicando alla guerra la metafora della medicina, così come si potrà applicare alla pace la metafora della salute. Sebbene gli steccati disciplinari non aiutino il dialogo tra scienze naturali e scienze sociali, è chiara la corrispondenza tra, da un lato, la prevenzione secondaria e terziaria della medicina e la prevenzione che noi sociologi chiamiamo situazionale e, dall'altro, tra la prevenzione primordiale e primaria, che noi chiamiamo strutturale. Il problema da risolvere è che, a parità di danno, mentre la malattia è un pericolo (cioè un evento nella stragrande maggioranza dei casi inintenzionale), la guerra è una minaccia, cioè un evento sostanzialmente intenzionale (nella fattispecie di ordine politico). Ciò determina il colossale accentramento di risorse umane, finanziarie e scientifiche a scopo di distruzione. Dal 1945 ne osserviamo sgomenti gli esiti, consapevoli sia della complessità ma anche dell'assoluta urgenza dello sforzo necessario ad arginarne le cause e gli effetti.
Fabrizio Battistelli, Archivio Disarmo e Dipartimento di Scienze sociali ed economiche, Sapienza Università di Roma