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  1. Dipartimento di igiene e sanità pubblica, Università di Torino

I motivi di crisi del SSN dovrebbero essere oggetto di attenzione e studio da parte di diverse scienze e discipline (economia sanitaria, sociologia, giurisprudenza, epidemiologia e sanità pubblica…), ognuna col suo punto di vista e i suoi metodi. Chiedersi in che misura l’epidemiologia stia facendo il suo dovere per studiare questi motivi di crisi è corretto,  ma rischia di trascurare la natura intrinsecamente interdisciplinare delle domande di ricerca e dei metodi che servono. La prima raccomandazione sarebbe dunque di procedere in fretta in questo esame di coscienza monodisciplinare per portarne i risultati subito ad un tavolo multidisciplinare, che sarebbe il più appropriato per questo scopo.

La prima delle quattro questioni poste dall’AIE è quella che fa la differenza, perché sono le domande di ricerca ritenute rilevanti che poi dettano i modelli di valutazione, gli indicatori, i metodi e i vincoli da considerare per sviluppare adeguate risposte. Ed è proprio sulla rilevanza delle domande di ricerca  che si potrebbero trovare le principali differenze e integrazioni tra discipline.

La vocazione propria dell’epidemiologia sarebbe di misurare il beneficio di salute che deriva dalle decisioni che si prendono sui determinanti di salute, il cui effetto sulla salute è intermediato dalla esposizione ad un fattore di rischio/protezione e al relativo intervento che lo manipola nella prevenzione e nella cura, intervento la cui regolazione si intreccia con la determinazione del diritto alla prestazione. Cosa vuol dire stimare la “beneficialità” delle scelte in questa congiuntura storica di esistenza del SSN, la cui natura universalistica è messa in crisi dall’autonomia differenziata, dalla spinta alla privatizzazione e ancora prima dal definanziamento legato alla sostenibilità del debito pubblico? Stimare la beneficialità marginale di una scelta rispetto ad un’altra sarebbe fondamentale per rendere più informate  queste decisioni.

Un caso evidente è quello della definizione di diritti esigibili. Nella nomenclatura dei diritti la nostra costituzione per operazionalizzare l’esigibilità di un diritto ha introdotto il concetto di livello essenziale di prestazione LEP (in sanità di livello essenziale di assistenza LEA) ad indicare la decisione pubblica di rendere disponibile un intervento (sanitario LEA o non sanitario LEP) che sia ritenuto indispensabile per garantire un livello di tutela del benessere corrispondente al diritto da soddisfare in modo uniforme.

È evidente a tutti quanto sia di attualità questo passaggio nel momento in cui la disciplina della cosiddetta autonomia differenziata si scontra proprio con questo vincolo, di garantire cioè l’uniformità della fruizione dei diritti attraverso la piena disponibilità di LEP e LEA, magari anche con formule differenziate di produzione (più o meno privato accreditato ad esempio), ma comunque prima di procedere ad una differenziazione  di LEP e LEA oltre a quelli essenziali. Questo vincolo richiede che si definisca la lista dei LEA/LEP e i cosiddetti costi standard, al fine di stimare il fabbisogno necessario per la determinazione del finanziamento relativo (il Fondo Sanitario Nazionale per la sanità e altrettanto per la scuola, la non autosufficienza, la povertà, il lavoro, la casa…), un fabbisogno che va contemperato con la disponibilità di fondi per la spesa pubblica. Chi ha provato a definire LEA e LEP  si è scontrato con molte difficoltà, a cominciare dalla assenza di una metrica comune con cui misurare comparativamente la beneficialità dei diversi LEA e LEP.

Infatti senza una unità di misura comune è già difficile mettere a confronto i diversi LEA in sanità, ognuno dei quali può agire in modo diverso su dimensioni non comparabili della salute (da quella della sopravvivenza a quella della limitazione funzionale a quella soggettiva della sofferenza). L’esercizio di stima della beneficialità diventa ancora più complicato nel caso dei LEP che agiscono su dimensioni ancora diverse del benessere della persona come quelle educative o lavorative o abitative. Di solito in sanità questa sfida viene affrontata con le misure composite di impatto come ad esempio i DALY, che elaborano le conoscenze disponibili sulla causalità nella relazione tra fattori di rischio/protezione e esiti di salute per stimarne l’impatto in termini di anni di vita persi o guadagnati in condizioni di limitazione funzionale. Si tratta di una metrica comune che permetterebbe di comparare l’impatto relativo dei diversi fattori di rischio/protezione e quindi degli interventi che ne regolerebbero l’esposizione (LEA). E’ così che nella programmazione dei LEA della prevenzione si potrebbe ad esempio stimare comparativamente il ritorno dall’investimento che si ricava da un intervento di cessazione del fumo rispetto ad un programma di promozione dell’esercizio fisico in un luogo di lavoro. Però chi lavora a sviluppare gli applicativi per fare queste stime sa quanto sia impegnativo raccogliere queste prove di causalità, ad esempio  sull’efficacia del centro antifumo o del gruppo del cammino, su cui fondare queste stime comparative di impatto. Questo è  tanto più difficile su alcuni LEA che sono stati finora poco studiati, ad esempio le molte prestazioni di esami strumentali e di visite specialistiche che caratterizzano il macro LEA della assistenza specialistica ambulatoriale. Tra le maglie di questo macro LEA si trovano i margini più importanti dell’inappropriatezza, ma sarebbe molto difficile misurare comparativamente la beneficialità in DALY degli esami strumentali e delle visite specialistiche usate maggiormente. La pandemia ha costituito un eccezionale esperimento naturale in cui da un giorno all’altro si sono sospese gran parte delle prestazioni di specialistica ambulatoriale, ad eccezione di quelle in urgenza; purtroppo si è persa l’occasione per studiare l’impatto  su diversi esiti di salute di questa improvvisa sospensione di un macro LEA.

Ancora più difficile è trovare una misura comune per comparare il beneficio marginale degli investimenti nei diversi LEP fuori dalla sanità. L’Istat con le sue misure di BES (Benessere Equo e Sostenibile) ha provato ad elaborare in modo composito un indicatore complessivo di benessere che abbraccia tutte le dimensioni sanitarie e non del benessere oggettivo e soggettivo. La relazione annuale sul BES in teoria avrebbe un impatto importante per guidare le scelte perché è il fondamento della relazione di accompagnamento della legge di bilancio dello stato. Ma degli indicatori di ogni dimensione del BES e dell’indicatore composito non è mai stato fatto un uso comparativo.

Tra l’altro tutte queste piste di metriche comuni per stimare la beneficialità potrebbero avvalersi della buona esperienza italiana nella misura delle disuguaglianze sociali in salute; questo arricchimento farebbe della salute disuguale una metrica comparativa molto operativa, perché il benchmarking sociale di solito è molto eloquente nella comunicazione e serve a creare allarmi su disuguaglianze più pronunciate che diventano occasioni di audit e correzione

Una prima conclusione è che la madre di tutte le domande di ricerca per l’epidemiologia italiana sarebbe come arricchire le misure di impatto in modo da disporre di una metrica comune per mettere a confronto i benefici ricavabili dai diversi LEA/LEP, in modo più o meno uguale. Una informazione di questo tipo avrebbe un valore importante per aiutare a operazionalizzare il concetto di “essenzialità” nella definizione dei LEA/LEP che sarebbero da salvaguardare nel processo di autonomia differenziata, nella competizione con il privato e nella deriva del definanziamento. Temo che nel momento in cui verrà chiesto all’epidemiologia di dire a quali LEA rinunciare per cause di sostenibilità finanziaria, l’epidemiologia non saprebbe stimare quali tagli avrebbero meno conseguenze sfavorevoli.

Altre domande di ricerca ancora orfane riguardano i cambiamenti demografici e le implicazioni per i bisogni di salute e di assistenza. In particolare l’invecchiamento è stato finora trattato come una giaculatoria che si recita nell’introduzione di ogni profilo epidemiologico ma poi viene trattato con superficialità. Intanto sono state trascurate le transizioni demografiche legate ai grandi fenomeni di boom o sboom demografico. 15 anni fa si rimase sorpresi dalla generazione dei baby boomer del dopo-guerra/dopo-spagnola della prima guerra mondiale i cui sopravvissuti entrarono di colpo nella fascia dei grandi anziani (ultra 85 anni) aumentando improvvisamente del 30-40% la popolazione di suscettibili  che abbiamo imparato a conoscere ai tempi delle pandemie influenzali e ondate di calore sulle barelle dei pronto soccorso che erano programmati per una popolazione meno fragile. Fra un paio di anni entreranno tra i superanziani la più piccola coorte dei baby sboomer della seconda guerra mondiale, e finalmente fra sei sette anni la grande coorte dei baby boomer del secondo dopo guerra; sarebbe utile fare qualche esercizio di valutazione di impatto. Tra queste valutazioni di impatto rimane ancora incerta la risposta da dare al più grande quesito posto dall’invecchiamento: siamo in presenza di una compressione o di una espansione della morbosità/non autosufficienza (cioè con l’invecchiamento aumentano i malati cronici e la non autosufficienza o si sposta solo in avanti l’età di esordio lasciando inalterata la vita vissuta con malattie croniche e non autosufficienza)?  I dati Istat sembrano suggerire che siamo in presenza di una espansione della morbosità (che però sarebbe vera solo per le malattie neurodegenerative mentre sarebbe solo una anticipazione diagnostica della gran parte della  morbosità cronica con un effetto di compressione della morbosità severa) e di una compressione della non autosufficienza. Ma in altre popolazioni europee sembra prevalere l’espansione. Bisognerebbe dire una parola definitiva su questo dilemma, perché dalla risposta dipende molta della sostenibilità del nostro welfare sanitario e sociale. Tornando alla consistente coorte dei baby boomer del secondo dopoguerra rimane ancora poco chiaro quale sarà l’impatto sulla salute anziana di questa generazione di italiani che per la prima volta hanno vissuto l’infanzia col frigorifero, una alimentazione più igienica, una società meno disuguale e che mostrano negli ultimi decenni una crescita della longevità più sana e meno disuguale: quale impatto potrebbe avere sul fabbisogno di servizi questa nuova resilienza della salute dei nuovi anziani? Sempre restando nella fascia di assistenza dei grandi anziani rimane incerta la definizione degli obiettivi di cura dei malati più fragili; la disponibilità di tecnologie e competenze inedite nei nostri ospedali permette di aumentare artificialmente la sopravvivenza di anziani dalla salute molto compromessa mentre non sono disciplinate le regole di fermata dell’assistenza specialistica; si sta così creando una fascia di inappropriatezza non determinabile legata alla mancata definizione degli obiettivi di cura che riguardano i grandi anziani.

Una terza categoria di domande di ricerca che sono orfane dell’epidemiologia sono quelle che riguardano le innovazioni nella assistenza territoriale che di solito avvengono senza l’accompagnamento di una adeguata capacità di ricerca e valutazione. Le Case della Comunità con gli Ospedali di Comunità e le Centrali Operative Territoriali sono un’importante finestra di opportunità aperta su molti sforzi di riorganizzazione e di sperimentazione intorno ai temi della cronicità e della sanità di iniziativa su cui l’epidemiologia avrebbe molto da contribuire: la stratificazione del rischio, la modulazione dei PDTA ai diversi livelli della piramide della cronicità compresa la prevenzione e l’autocura, il ruolo del welfare generativo di comunità, l’epidemiologia di campo in mano a nuove figure come gli infermieri di famiglia e di comunità. In questo ambito sarebbe utile che l’epidemiologia fosse coinvolta a investire in nuovi sistemi di indagine che sfruttino gli esperimenti naturali che l’introduzione di innovazioni permettono di studiare se disegnate in modo appropriato.

A proposito di stratificazione del rischio bisogna ricordare quanto sia limitante la modalità italiana di interpretazione e gestione della riservatezza nel trattamento dei dati del Nuovo Sistema Informativo Sanitario a livello nazionale e regionale.

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