Ho cominciato ad appassionarmi di epidemiologia durante la scuola di specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, dove l'epidemiologia (così mi è stato insegnato) era considerata uno strumento indispensabile per la sanità pubblica e, come lettura essenziale per l'esame, veniva suggerito il numero monografico 5-6 di Epidemiologia e Prevenzione (allora senza "&", col nome che campeggiava su una copertina occupata da un istogramma a canne d'organo celesti), quello dal titolo Introduzione all'Epidemiologia di Michael Alderson. Ero approdato all'Istituto di Igiene di Catania per caso nei primi anni Ottanta, vi ero ripiegato dopo aver lasciato un reparto di geriatria, il cui direttore mi aveva assegnato una tesi sperimentale di laurea sulla terapia del diabete con insulina umana (all'epoca si usava ancora quella suina).

In realtà avevo un precedente, un paio di anni prima avevo frequentato le lezioni del prof. Massimo Gaglio che insegnava patologia medica con un "taglio epidemiologico": membro del comitato redazionale della rivista fondata da Giulio A. Maccacaro, aveva collaborato con lui per la collana Medicina e Potere edita da Feltrinelli, scrivendo alcuni libri che io avevo letto dopo aver superato il suo esame.

Agli inizi della mia carriera lavorativa, in un dipartimento di prevenzione, consolidai le mie conoscenze negli anni Novanta con alcuni corsi presso l'Istituto Superiore di Sanità (fondamentale quello di epidemiologia di campo all'interno del piano nazionale di formazione per la lotta contro l'infezione da HIV), e poi mi avviai a dirigere l'osservatorio epidemiologico di un'ASL.

Ora che sono da poco in pensione, pur non seguendo alcuna attività lavorativa, continuo a occuparmi di epidemiologia (lettura, scrittura, chiusura di qualche piccolo progetto in corso, scambio di opinioni con colleghi etc.). Perché l'epidemiologia, almeno per me, è una forma mentis, un modo di occuparmi della salute della gente, anche attraverso la lettura di una curva epidemica o di una mappa geografica di distribuzione, si tratti di una malattia o meglio ancora di un fattore di rischio. Ed è una chiave di lettura trasversale, in grado di costruire ponti tra varie discipline, e non solo scientifiche: penso semplicemente alle indagini sui fattori di rischio, che passano attraverso la conoscenza geografica delle varie culture presenti nel mondo e nel nostro Paese, senza la conoscenza delle quali la nostra scienza epidemiologica rischia di restare sterile, lontana dalla strada pratica della prevenzione.

Dunque, come succede per tante altre cose nella vita, faccio l'epidemiologo un po' per caso e un po' per predisposizione individuale: mi piaceva molto la ricerca, ma il prezzo che avrei dovuto pagare (seguendo il professore di geriatria) era così alto che mi toccò ripiegare su una tesi compilativa di Igiene su Yersinia enterocolitica.

Ora che è tempo (ma non solo) di bilanci, sono soddisfatto della mia scelta, quella di un epidemiologo di campo che per 35 anni si è occupato di sanità pubblica, e solo di tanto in tanto ha fatto qualche ricerca un po' più sofisticata, quando il tempo e le epidemie, vere o false, lo permettevano. E ai colleghi, soprattutto quelli giovani, se posso permettermi un suggerimento, raccomando di leggere l'ultimo capitolo dell'Alderson, quello sugli "Studi sui servizi sanitari": ce n'è tanto bisogno, circondati come siamo da modelli organizzativi che finora hanno saccheggiato il territorio come in un film western, dove il pistolero duro che tutela la legge non basterà a difenderci dalle nuove epidemie, senza una rete multidisciplinare di professionisti appositamente addestrati per affrontarle. 

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