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  1. Servizio interaziendale di epidemiologia, AUSL e IRCCS Arcispedale Santa Maria Nuova, Reggio Emilia

Faccio due premesse.

Prima premessa. Queste due pagine non hanno nessuna pretesa di completezza. Ho solo tentato di trovare qualche punto in cui il mio pensiero potesse aggiungere qualcosa. Aggiungere qualcosa implicitamente vuol dire che presume di avere qualcosa di nuovo da dire, nuovo rispetto a quello che penso sia già patrimonio comune. Più provo ad esplicitare l’obiettivo di queste due pagine più mi sembra velleitario e presuntuoso, ciononostante non mi astengo, potete trarne la giusta conclusione.

Seconda premessa. So di essere un epidemiologo. Ma non saprei definire cos'è un epidemiologo.

Posso definire l'epidemiologia, ma non so dire cosa fa un epidemiologo (nonostante anni di esercizio a ogni riunione familiare, prima cercando di spiegarlo a vecchi zii ora a giovani nipoti). So che quello che faccio è in parte un tentativo di produrre conoscenza epidemiologica. Sono certo anche che una parte non trascurabile di ciò che faccio non sia epidemiologia (e non mi riferisco all'attività housekeeping di ragioneria, amministrazione e impapocchio legale per convivere con la legislazione sulla privacy).

L'epidemiologia ha una specificità più di metodo che di argomento. Il contributo dell'epidemiologo non può essere compiuto se non come supporto metodologico in un contributo più ampio e multidisciplinare.

Non possiamo portare i nostri contributi ai decisori, indipendentemente dalle altre componenti della comunità scientifica, lasciando che i decisori si districhino nelle incertezze e contraddizioni, nel migliore dei casi, o scelgano le conclusioni più comode, nel peggiore. Dobbiamo contribuire a costruire un contributo della comunità scientifica comune, che abbia risolto le contraddizioni con metodo scientifico e le abbia sintetizzate in un'unica incertezza, frutto della valutazione di triangolazioni convergenti o meno.

In quanto epidemiologi, non abbiamo nessuna primigenia nel dare consigli ai decisori. Possiamo dare un contributo, ma per farlo dobbiamo far entrare l'epidemiologia negli studi qualitativi, antropologici, economici, clinici... ed aprire gli studi epidemiologici alle altre discipline. 

Dopo queste premesse, seguo il tracciato dato dagli editori e provo a dare qualche spunto rispondendo ai quattro quesiti.

Quali sono le domande di ricerca prioritarie che l’epidemiologia italiana dovrebbe affrontare?

Quando l’obiettivo è così ampio (fermare la crisi del SSN), lo spettro di possibili soluzioni non definibile a priori e le soluzioni stesse non mutualmente esclusive, esplicitare le domande prioritarie può portare a restrizioni del campo d’azione che, invece di aumentare l’efficienza della ricerca, ne limitano le potenzialità

Può essere utile invece mappare la ricerca esistente e possibile, senza definire confini precisi. Comprendere dove si collocano le diverse esperienze, identificare le aree inesplorate e i motivi di queste carenze (limiti epistemologici, mancanza di dati…). La mappatura potrà essere anche impietosa nell’evidenziare le mode, la futilità, la pigrizia della nostra comunità nell’esplorare le aree di ricerca e nell’usare i dati, ma non avrà la presunzione di definire a priori le domande di ricerca prioritarie e forse darà qualche chance in più di identificare le relazioni da studiare e le plausibili soluzioni da valutare.

Quali sono le potenzialità e i limiti degli attuali sistemi di valutazione della qualità di assistenza in relazione alle domande di ricerca?

I sistemi di monitoraggio della qualità dell’assistenza non nascono per la ricerca, né per comprendere i nessi causali fra organizzazione e outcome. Nei casi più virtuosi, sono disegnati sulla base di una conoscenza consolidata di questi nessi causali e necessariamente li danno per acquisiti per essere interpretati ed «actionable».

Possiamo sperare di registrare le conseguenze della crisi del SSN che stiamo postulando sui processi attraverso alcuni degli indicatori di cui disponiamo. Se la latenza fra riduzione delle risorse ed effetto sulla salute è breve e saremo in grado ridurre il rumore di fondo, potremo osservare qualche impatto sugli esiti… ma stando al loro costrutto, gli indicatori possono solo aiutare a monitorare i fenomeni nel tempo.

Per comprendere cause distali, confrontare soluzioni e ipotizzare nessi causali nuovi, gli indicatori esistenti devono essere utilizzati oltre il loro costrutto. Ciò necessita di un quadro concettuale per studiare i mediatori e controllare i confondenti, di un disegno di studio per costruire la falsificabilità necessaria per interpretare i risultati, e, quasi sempre, di integrare più fonti, correnti e raccolte ad hoc, sui processi e sugli esiti.   

Quali indicatori e/o attività di ricerca epidemiologica sarebbe importante promuovere per introdurre l’approccio di popolazione nella misurazione della qualità e degli esiti dell’assistenza sanitaria?

Gli indicatori di qualità dell’assistenza sono costruiti per rispondere a specifiche funzioni (in genere monitorare l’implementazione di una raccomandazione o di una policy).

Molti degli indicatori che utilizziamo hanno mostrato poca actionability e rimangono più utili a compilare classifiche che a indirizzare le policy o gli interventi per migliorare la qualità monitorata.

Oltre gli indicatori, le basi dati utilizzate per erogare, gestire, programmare e rendicontare l’assistenza (e in genere, dopo molti passaggi che ne peggiorano l’accuratezza, per calcolare gli indicatori) sono fonti di informazione con enormi potenzialità. Se usate con conoscenza dei processi concreti che legano gli eventi per come accadono (una visita, una diagnosi, un consulto, un intervento) alla registrazione (come l’evento si trasforma in un record o in una variabile in un record) possono generare nuova conoscenza.

Questa enorme disponibilità di dati al momento non ci permette però di superare la conduzione di studi ad hoc.

Quali sono i vincoli principali alla realizzazione di queste attività?

Un problema che deve essere risolto è la legittimazione del trattamento dei dati raccolti dalle aziende sanitarie. Un primo punto da chiarire è la definizione di uso primario dei dati raccolti nei sistemi informativi. La qualità dell’assistenza può essere disgiunta dalla sua erogazione? Possiamo considerare i sistemi di quality assurance necessari per erogare l’assistenza come esterni al contratto terapeutico e facoltativi? Il paziente può fidarsi di un sistema che non è in grado di contare i suoi errori? Questo chiarimento potrebbe legittimare una buona parte dei trattamenti dati legate alle questioni qui considerate, oppure sancire la fine della qualità in sanità.

Definire il confine fra una quality assurance (QA) actionable e la ricerca sui sistemi sanitari e sulla loro efficacia è difficile. Capire quando la valutazione di un comitato etico aggiunge valore è però un’operazione utile e che riduce l’autoreferenzialità delle nostre attività.

Né la QA, né la ricerca sull’efficacia di servizi sanitari e delle loro caratteristiche organizzative può mantenere la sua utilità se la raccolta dati non è universale, cioè se la legittimità del trattamento dei dati si basa sul consenso e non applica l’eccezione prevista dal GDPR per la sanità pubblica. Infatti, entrambe si basano sulla capacità del sistema di raccogliere informazioni sui processi e gli esiti precoci di chi accede in modo differenziale ai servizi sanitari. La differente modalità di accesso comporta per definizione una differente probabilità di fornire il consenso. Dunque non sarà mai possibile distinguere le differenze fra modalità di organizzazione ed erogazione dei servizi dovute alla differente qualità o efficacia del modello dalle differenze indotte dalla differente probabilità di raccogliere il consenso. Senza considerare il costo della raccolta del consenso e i comportamenti opportunistici che potrebbe indurre negli erogatori.

A partire dagli spunti presenti nel lancio dell’iniziativa e nell’editoriale di E&P, ho provato a inserire le varie tematiche in un di quadro concettuale usando un modello comunemente usato per inquadrare i possibili effetti delle azioni su complesse catene causali, il DPSEEA. I determinati, gli effetti e le azioni che ho provato a posizionare sono quelli che, più o meno esplicitamente, compaiono sono citati nei due testi che hanno dato il via al dibattito, ma l’esercizio è solo abbozzato e se mai potrà essere utile, lo sarà se porterà a ragionare anche su qualcosa di nuovo.

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