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  1. ex Direttore sanitario Istituto nazionale di ricovero e cura per anziani - INRCA, IRCCS, Ancona

Prima di rispondere alle 4 domande proposte dalla Associazione Italiana di Epidemiologia occorre fare dal mio punto di vista alcune premesse. Per definire l’intreccio  tra crisi del SSN e ruolo della epidemiologia bisogna partire dalla interpretazione che si da’ di questa crisi. I punti di vista sono molti e su alcuni fattori quasi tutti sembrano concordare: il sottofinanziamento, la carenza nella programmazione delle risorse umane e nella loro valorizzazione, la crescente privatizzazione e la convivenza di troppi modelli regionali a fronte di un grosso divario tra i livelli di assistenza garantiti dalle diverse Regioni. Per gli ultimi due di questi fattori, ma soprattutto per la privatizzazione, è difficile distinguere se essi siano più effetti o cause della crisi. 

Il mio personale punto di vista, uno dei tanti possibili, è quello di chi conosce bene  o comunque direttamente la macchina della sanità nel suo funzionamento “concreto”. In particolare conosco bene la macchina nel suo funzionamento regionale e nella interfaccia tra livello regionale e livello centrale. Questo punto di vista mi ha fortemente radicato nella convinzione che vi sia un enorme problema nella qualità delle politiche sanitarie regionali e nella qualità del monitoraggio che di queste politiche fa il livello centrale. Il governo e la gestione della sanità passano attraverso una  lunga serie di processi  che tutti  assieme concorrono a definire la qualità dei servizi erogati. Di questi processi sono importanti le regole, ma sono altrettanto importanti le azioni sul campo. Faccio alcuni esempi. Il progressivo trasferimento di risorse dal livello ospedaliero al livello territoriale passa attraverso la razionalizzazione delle reti ospedaliere e lo sviluppo di modelli organizzativi e assistenziali innovativi come le Case della Comunità e la telemedicina. Le “regole” per questo progressivo trasferimento ci sono tutte da anni a partire dal Decreto Ministeriale 70 del 2015 sul riordino della assistenza ospedaliera e dal Piano Nazionale della Cronicità del 2016, ma ciononostante i ritardi di alcune Regioni sono enormi, mentre in altre il percorso è già decisamente avviato. 

Date queste considerazioni la mia ipotesi è che mediamente la sanità pubblica funzioni male non tanto per la scarsa qualità delle sue “regole” quanto per la scarsa qualità degli interpreti nei  ruoli più importanti: la politica ai vari livelli, il Ministero e i suoi organi, gli apparati tecnici regionali e il cosiddetto management, l’Università. Ma il peso  negativo  maggiore lo esercita la politica che influenza direttamente le scelte di tutti gli altri interpreti. Della validità di questa ipotesi sono testimonianza non solo la mancata declinazione operativa di tutti gli atti di indirizzo centrale (oltre ai già citati DM 70 e Piano  Nazionale della Cronicità’ c’è ne sono molti altri: il Piano  Nazionale Demenze, gli atti di indirizzo su telemedicina, cure palliative e tanti altri ancora), ma anche gli incredibili ritardi nei programmi di edilizia sanitaria e di digitalizzazione (vedi il fascicolo sanitario elettronico) e tanto altro ancora. E allora in una sanità pubblica che funziona spesso male e qualche volta malissimo che cosa aspettarsi da qualche punto percentuale in più di finanziamento della sanità? Peraltro  la crisi  della sanità pubblica appare un di cui della crisi generale del sistema pubblico in Italia, come quella della scuola e della ricerca per fare due esempi di una banalità di cui mi vergogno.

In uno scenario come quello che ho descritto che spazio c’è per la epidemiologia? Adesso posso rispondere alle quattro questioni sulle domande di ricerca prioritarie, le potenzialità e i limiti degli attuali sistemi di valutazione della qualità della assistenza, gli indicatori e/o le attività di ricerca epidemiologica da promuovere e i vincoli nella loro realizzazione. In realtà le quattro questioni si sovrappongono e quindi abbozzerò una risposta sintetica che le ricomprende tutte.

Il principale contributo che l’epidemiologia  può dare alla gestione della crisi del SSN è nella elaborazione e sperimentazione di modelli di valutazione e monitoraggio sia della erogazione di quelli che chiamiamo per comodità Livelli Essenziali di Assistenza  (LEA) che dei processi di innovazione organizzativa che vengono introdotti per migliorarli. Infatti, oggi vi è una notevole confusione su cosa siano i LEA e certamente non sono strumenti di monitoraggio adeguati gli indicatori del Nuovo Sistema di Garanzia, il sistema ufficiale di monitoraggio adottato dal Ministero. Vi sono altre iniziative in atto come il Programma Nazionale Esiti (PNE)  e gli indicatori del Portale Statistico dell’Agenas, come vi sono analisi e rilevazioni ad hoc periodiche o una tantum  come quella del Rapporto Salute Mentale annuale o quelle sui consultori e sui  Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità. Si tratta di un insieme disperso di dati e analisi che non influiscono sulle politiche sanitarie  nazionali e regionali, ma al massimo ne registrano i limiti, quando non vengono snaturati come sta avvenendo con le troppe classifiche ospedaliere originate dal PNE (si potrebbe quasi dire che i mercanti sono entrati nel tempio della epidemiologia). Per dare una idea di sintesi: ci sono tante letture distinte e parziali della qualità della assistenza sanitaria e sociale dei Servizi Sanitari Regionali, ma nessuna ha ricadute e non c’è alcuna sede in cui si tenti una integrazione dei dati provenienti da queste diverse fonti. Peraltro vi sono aree quasi completamente fuori fuoco come il sistema dell’emergenza territoriale, la presa in carico della cronicità e l’assistenza domiciliare e residenziale. Allo stesso tempo tutte le innovazioni introdotte o previste rimangono prive di una valutazione d’impatto come tutte quelle già nominate in precedenza come il più volte citato DM 70, ottimo esempio di atto di indirizzo a potenziale forte impatto di sistema, i cui benefici e limiti sono oggetto di forti contrasti senza il supporto di analisi epidemiologiche che orientino il confronto.

Tornando alle domande del dibattito interno all’AIE, quella sulla identificazione delle aree di ricerca prioritarie su cui concentrare l’attività della epidemiologia nel corpo vivo del SSN va affrontata assieme a quella sui vincoli alla realizzazione di questa attività, che è forse la domanda da cui partire. Il vincolo principale è la distanza tra i processi decisionali ai vari livelli (mi riferisco in particolare a quello nazionale e quello regionale) e la “struttura” della funzione epidemiologica, molto dispersa, disomogenea e spesso assente o quasi in alcune realtà regionali. Questa distanza impedisce alla epidemiologia di mettersi alla prova  nell’indirizzare e valutarle principali scelte di politica sanitaria che l’epidemiologia potrebbe trasformare in altrettante aree di ricerca.

Prima di ragionare su come provare a colmare questa distanza vorrei sviluppare una considerazione per me fondamentale: la ricerca epidemiologica di cui qui stiamo parlando (che chiamo valutativa per comodità espositiva) ha bisogno di partire da una conoscenza di dettaglio sui meccanismi di funzionamento del SSN e sulla natura dei suoi problemi. Faccio un paio di esempi su temi a me familiari: la assistenza ospedaliera e il ruolo dei privati contrattualizzati, quelli che lavorano per conto del SSN. Partiamo dalla assistenza ospedaliera.  Per costruire strumenti per guidarne e monitorarne la evoluzione a livello regionale non si può prescindere dalla conoscenza del DM 70 e dalle relative problematiche di dettaglio nella sua applicazione relativamente ad esempio a: numero e tipologia delle strutture pubbliche e private, reti cliniche, organizzazione del  sistema dell’emergenza urgenza e ruolo dei piccoli ospedali. Così come non si può prescindere dalla conoscenza dei problemi più “sentiti” delle reti ospedaliere: la crisi dei Pronto Soccorso con il fenomeno del boarding legato alla indisponibilità di posti letto liberi, i tempi di attesa della chirurgia maggiore anche oncologica, la dispersione delle casistiche chirurgiche con uno scarso rispetto dei valori soglia per i volumi minimi di alcune tipologie di interventi, i forti flussi di mobilità sanitaria e l’uscita dai LEA di alcune chirurgie minori come complessità e maggiori come impatto sociale (la cataratta in primis). La “familiarità” con le regole e i problemi genererebbe in automatico le domande di ricerca più urgenti. Faccio anche qui qualche esempio: mancano davvero i posti letto, se sì quali e dove? È possibile creare centri ambulatoriali ad accesso diretto per le urgenze minori da filtrare rispetto ai Pronto Soccorso? Quando e quali strutture ospedaliere riservare alle aree interne? Che dimensioni ha l’accesso inappropriato alle aree intensive per carenza di posti letto semintensivi?

Lo stesso vale per l’analisi epidemiologica dei fenomeni di privatizzazione. Anche qui per trasformare questa analisi in ipotesi di ricerca occorre conoscere le regole (natura dei contratti, criteri di accreditamento, tetti di spesa, tariffe, tipologie di strutture ospedaliere previste in rapporto a quelle previste per le strutture pubbliche, ecc.) e i problemi ( forte presenza dei privati in alcuni settori e quasi assenza in altri, tendenza alla selezione della casistica, disimpegno rispetto alle attività in urgenza, ecc.). Su questa base di conoscenze si può ragionare e fare attività di ricerca sui rischi e i benefici ( ci sono anche quelli) della presenza e della crescita del privato senza basarsi su analisi fatte altrove in realtà totalmente diverse. 

Su questa base di conoscenza delle regole e dei problemi del SSN si può costruire con il contributo della epidemiologia un approccio diverso al monitoraggio della erogazione dei LEA e al monitoraggio dell’impatto delle scelte (o non scelte in alcuni casi) delle politiche sanitarie centrali e regionali. 

A questo punto le domandone finali: dove si possono incrociare i percorsi della politica sanitaria e della ricerca epidemiologica e come favorire questo incrocio? Il dove dell’incrocio è facile: a livello centrale Agenas e Istituto Superiore di Sanità, a livello regionale Assessorati e Agenzie. Il vero problema è come favorire l’incrocio, tema su cui l’AIE si sta impegnando da anni. Inutile far finta di non sapere che i tempi buoni per l’epidemiologia sono passati da decenni, da qualche anno i tempi sono diventati pessimi. I vertici dei livelli centrali, infatti,  sono appannaggio di clinici, manco tanto illuminati. Questo vale per il Ministro della Salute e i Presidenti dell’Agenas e dell’Istituto Superiore di Sanità, ma vale anche per gli incarichi più tecnici (Direzioni di Dipartimento) a livello ministeriale. 

Governo e maggioranza delle Regioni sono di centrodestra e tradizionalmente il centrodestra ha sulla sanità due derive convergenti: la spinta alla privatizzazione (vedi la Lombardia) e il populismo, che vuol dire fondare le scelte in funzione del voto e non delle risposte più “giuste” ai bisogni dei cittadini. Ma anche se il contesto è sfavorevole rimane valido il principio che bisogna provarci a salvare il SSN con il contributo della epidemiologia.

Un primo passo è quello di continuare come AIE a lavorare sulle quattro domande all’origine del dibattito  partendo tra l’altro da un consenso sulla necessità di entrare “di più” e meglio dentro i meccanismi di funzionamento e i problemi del SSN. Questa è almeno la mia poco scientifica impressione. Il modo di farlo potrebbe essere quello di mettere assieme epidemiologi e decisori “amici” per arrivare a definire assieme le priorità di ricerca e le metodologie per quelle attività di ricerca che risultassero le più urgenti. Il presente dibattito potrebbe valere da menù degustazione per poi passare a prodotti più elaborati.

 

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