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Perché l’Italia non può chiamarsi fuori dal nuovo Accordo Pandemico Globale
Il 7 ottobre 2016, alla conferenza dell’International Journal of Epidemiology, uno degli oratori invitati affermò di prevedere da almeno dieci anni il verificarsi di una pandemia nel decennio successivo. L’affermazione, apparsa un po’ paradossale, non aveva modificato il grado (basso) di preoccupazione dei presenti. Meno di quattro anni dopo, iniziava la pandemia di COVID-19, ricordandoci che i virus non consultano le nostre agende e non rispettano i confini nazionali.
Oggi, nell’apparente quiete di un periodo interpandemico, la comunità internazionale ha varato un Accordo Pandemico Globale. È un’occasione preziosa in cui ci si può permettere, senza troppi rischi, di rafforzare i piani pandemici e le competenze epidemiologiche a tutti i livelli. Tuttavia, si potrebbe essere tentati di spostare l’attenzione altrove, di dimenticare quanto appreso negli ultimi anni e di concedersi il lusso di illudersi che le future malattie possano rispettare i confini nazionali.
Lo ha spiegato bene Stefania Salmaso nella sua presentazione “L’epidemiologia per la risposta alle pandemie”, tenutasi a Napoli per l’Evento in memoria di G.A. Maccacaro che apriva il congresso annuale dell’AIE (il video è liberamente disponibile sul sito di Epidemiologia & Prevenzione). La preparazione della risposta alle epidemie future richiede una cooperazione “a cerchi concentrici”: globale, continentale e regionale, per garantire sorveglianza integrata e accesso rapido a dati, campioni biologici, vaccini e terapie.
Per questi motivi la scelta dell’Italia di astenersi comporta almeno quattro contraddizioni:
- l’ accordo non toglie sovranità: non attribuisce all'OMS poteri coercitivi negli Stati membri; chiede solo standard minimi di cooperazione e condivisione;
- regole scritte da altri: l’Italia, nodo naturale dei flussi mediterranei, subirebbe comunque le decisioni altrui su viaggi, commercio e scambi sanitari, senza aver voce piena al tavolo negoziale;
- Articolo 32 della Costituzione: il diritto alla salute, individuale e collettivo, mal si concilia con scelte che potrebbero ampliare le disuguaglianze di accesso a farmaci e vaccini, sia fra regioni sia fra Paesi;
- fiducia pubblica: invocare una difesa di “sovranità sanitaria” dopo gli errori di comunicazione visti nel 2020-21 rischia di erodere ulteriormente la credibilità delle istituzioni e della scienza.
Questo è dunque il momento giusto per prendere sul serio la prevenzione: aggiornare e finanziare i piani pandemici, potenziare le reti di sorveglianza, formare epidemiologi e firmare un accordo che, lungi dall’imporre obblighi gravosi, crea le condizioni minime perché la prossima emergenza non ci trovi di nuovo impreparati. Procrastinare equivale a chiedere alla prossima malattia di rispettare i nostri confini: un lusso che la storia, recente e passata, ci ha già mostrato di non potersi permettere.
Trovate questa presa di posizione anche come commento al post di Cesare Cislaghi "La salute non può e non deve avere confini!"