La recente approvazione della nuova autorizzazione integrata ambientale (AIA) per lo stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto, per una durata di esercizio di dodici anni e una potenza massima produttiva di sei milioni di tonnellate di acciaio l’anno, pone innanzitutto una serie di questioni di carattere ambientale, sanitario, sociale e, vorrei dire, etico, concernenti la scelta di un proseguimento dell’attività di un impianto industriale – definito, nello stesso oggetto dell’autorizzazione, “di interesse strategico nazionale” – che ha già prodotto rilevanti effetti negativi sulla collettività tarantina, nonché sul territorio, come ampiamente documentato da una serie di studi, indagini, pubblicazioni scientifiche prodotte negli anni sull’argomento.1

Ma può essere di interesse analizzare la questione anche da un punto di vista impiantistico ed economico.

Intanto, è necessario mettere l’accento sulla fondamentale ed eccezionale complessità dell’operazione di “decarbonizzazione” dello stabilimento siderurgico di Taranto, delineata nelle due paginette stringate (e con qualche incoerenza) del documento di intesa concordato fra Ministeri ed Enti Locali il 12 agosto 2025, a Roma – peraltro, implicato, in qualche modo, dalla prescrizione tre dell’AIA.

La costruzione di tre forni elettrici ad arco (EAF) consisterebbe, in effetti, nell’edificazione di un'acciaieria elettrica molto più grande (e con grande impatto) di quelle già esistenti in Italia – quale per esempio la Ori Martin, a Brescia, impianto autorizzato alla produzione di circa un milione di tonnellate di semilavorati di acciaio l’anno e che contiene un unico forno elettrico, per il quale il Comune di Brescia ha predisposto un osservatorio specifico, che riguarda aspetti produttivi e ambientali.

I tre forni elettrici dovrebbero prendere, a Taranto, il posto dei convertitori – sei, tre nell’acciaieria uno e tre nell’acciaieria due – senza che, però, sia stato in qualche modo considerato l’aspetto delle fasi successive alla fusione dell’acciaio, che attualmente prevede trattamenti in siviera e colate continue, tutte svolte negli stessi capannoni o in zone attigue ai convertitori.

Il ferro preridotto (DRI) che dovrebbe alimentare i forni EAF insieme ai rottami sarebbe prodotto in impianti e con modalità che non sono definiti in tempi e collocazione.

L’operazione di trasformazione dello stabilimento a ciclo integrale di Taranto in acciaieria elettrica porterebbe, così, a spegnere altiforni, cokerie, impianti di sinterizzazione (agglomerazione), oltre a parchi minerali (del carbone) e centrali elettriche (non essendoci più gas combustibili prodotti dallo stabilimento), con giganteschi risvolti anche occupazionali; per dare un’idea, lo stabilimento Ori Martin di Brescia ha un po’ meno di mille dipendenti, a fronte degli ottomila dello stabilimento di Taranto.

A fronte di questa fondamentale indeterminatezza sia dell’AIA sia del documento di intesa, si può prendere in esame un documento, datato 2 luglio 2025, che riguarda lo stabilimento siderurgico British Steel di Scunthorpe e le “sfide economiche” per il passaggio all’acciaio “verde”.2

Il documento delinea la configurazione di tale stabilimento, assolutamente analoga, con una potenzialità un po’ inferiore, a quella dello stabilimento di Taranto. 

Anche nel caso britannico, viene individuata l’essenzialità dello stabilimento per la sicurezza nazionale e la sovranità industriale, essendo l’unico a ciclo integrale nel Regno Unito, e si definisce la fondamentale criticità dell’assenza di minerale di ferro in loco, il che rende competitiva la produzione in Paesi che dispongono di tali minerali (quali, per esempio, la Cina, in cui alla presenza di minerale estratto si aggiungono condizioni fiscali e produttive rese favorevoli dal Governo cinese).

Con ciò, lo stabilimento di Scunthorpe risulta in costante perdita (700.000 sterline al giorno) e l’invecchiamento degli altiforni rappresenta un’ulteriore criticità, per la necessità di massicci investimenti e con un sostanziale impegno economico a fronte di ritorni incerti, dato in particolare il “declino economico globale” del ciclo produttivo basato sugli altiforni.

Il documento specifica il passaggio alla tecnologia dei forni ad arco elettrico come quello più indicato per la decarbonizzazione della produzione dell’acciaio, a fronte, però, della condizione critica del costo dell’elettricità, essendo i forni EAF ad alto consumo di energia elettrica (circa 350-600 kilowatt/ora di elettricità per tonnellata di acciaio).

Il passaggio alla tecnologia EAF comporterebbe, sempre secondo il documento, un investimento di capitale stimato in 1,25 miliardi di sterline, con un significativo rischio di esecuzione, considerata  la difficile situazione finanziaria dell’impianto e il costo dell’elettricità.

Di conseguenza, la soluzione indicata a conclusione del documento consiste nella riconversione strategica dello stabilimento di Scunthorpe ad attività di sola laminazione di semilavorati di acciaio “verde”, acquisiti da altri stabilimenti operanti con ciclo DRI a idrogeno verde e forni EAF con energia elettrica da sorgenti rinnovabili e a basso costo. 

Ciò eliminerebbe, così, sia la problematica del reperimento dei minerali (e del loro costo) sia i sostanziali investimenti necessari per la conversione industriale della fusione dell’acciaio sia il costo dell’energia elettrica per l’alimentazione dei forni elettrici sia la necessità di un ciclo dell’acciaio senza produzione di emissioni di ossidi di carbonio. Naturalmente, ciò si tradurrebbe anche nello spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento e nell’eliminazione delle relative emissioni inquinanti, oltre che della CO2.

Sono evidenti le analogie fra il documento di British Steel e la situazione di Taranto e dell’acciaio in Italia, le criticità economiche e impiantistiche delle soluzioni prospettate e, sottolineo, non analizzate in nessun modo nel documento di intesa prodotto dal Ministero.

Tale singolare situazione potrebbe essere attribuita alle seguenti, possibili circostanze.

Uno, che il Governo non abbia sinora coinvolto o interpellato – e non si comprende perché – dei tecnici competenti nel considerare i risvolti impiantistici e finanziari della possibile decarbonizzazione dell’acciaio italiano e tarantino; quindi, non si sia analizzata la convenienza economica, la solidità impiantistica, la proponibilità del passaggio alla tecnologia EAF e DRI, che apparirebbe così più uno slogan che una concretezza.

Fra l’altro, andrebbero esaminate le implicazioni dal punto di vista ambientale e sanitario, oltre che normativo: l’impatto sulla salute della collettività e sull’ambiente della possibile acciaieria elettrica, degli impianti per la produzione del DRI, e degli annessi e connessi; il possibile obbligo di una VIA o di una VIS per tali nuovi impianti; la necessità di un’analisi della contaminazione dei suoli su cui tali impianti dovrebbero sorgere, e della possibile, necessaria bonifica; il calcolo del Carbon Budget attuale dell’impianto di Taranto e l’eventuale risparmio di CO2 con il passaggio al ciclo DRI/EAF, con l’uso del metano o dell’idrogeno, incluso però l’impatto della produzione dell’elettricità necessaria per l’alimentazione dei forni elettrici.

Due, la possibilità che il Governo abbia già preso una qualche decisione “strategica” riguardo alla siderurgia e all’impianto di Taranto (e, forse, all’impianto di Genova) e che si siano poi incaricati o si incaricheranno dei tecnici “compiacenti” di confortare tale decisione di elementi scientifici e procedurali – un classico errore metodologico, utilizzare la scienza non come strumento di conoscenza per indirizzare le azioni della policy, ma per fornire strumenti alla parte politica per legittimare delle scelte, già precostituite.3

Tre, è possibile che le scelte riguardo all'impianto di Taranto, e a quello di Genova, siano “delegate” a un possibile acquirente, che dovrà  in qualche modo garantire la decarbonizzazione, con modalità, tempi e percorso assolutamente non definiti (tranne che siano contenuti elementi tecnici nell’avviso pubblico di procedura negoziata, peraltro secretato).

Quattro, è possibile che il documento di intesa e il possibile seguito servano, solo, a rinviare il passaggio all’acciaio “verde” ad un lontano futuro, magari responsabilità di altri governanti e decisori, affidando alla vigente autorizzazione integrata ambientale dello stabilimento di Taranto il proseguimento di un’attività siderurgica svantaggiosa, inquinante e funesta.

Vorrei concludere con una frase, attribuita al generale Eisenhower durante la campagna in Italia della seconda guerra mondiale, secondo cui, se la distruzione di un bellissimo monumento avesse potuto significare la salvezza di un solo soldato americano, ebbene, sarebbe stato legittimo distruggere quel monumento.

Ciò pone l’interrogativo: il mantenimento di uno stabilimento siderurgico deficitario e obsoleto può valere la vita (o la salute) anche di un solo cittadino di Taran

Note

  1. Vedi, ad esempio, in: https://www.epicentro.iss.it/ambiente/IlvaTaranto .
  2. https://www.steelonthenet.com/insights/british-steel-scunthorpe-green-transition.html
  3. Vedi, ad esempio, in: Roger A. Pielke Jr., Scienza e politica, Laterza 2005.

 

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