Editoriali minuti di lettura
DOI: https://doi.org/10.19191/EP25.5-6.096

Screening di popolazione per diabete di tipo I e celiachia: qualcuno ha visto il libretto delle istruzioni?
Population screening for type I diabetes and coeliac disease: has anyone seen the instruction manual?
Il 15 settembre 2023, l’Italia è diventata la prima nazione al mondo (e, finora, l’unica) a introdurre uno screening di massa nella popolazione pediatrica per l’identificazione di diabete di tipo 1 (DT1) e celiachia.1 Il Decreto del Ministro della Salute che rende operativa la legge 130/2023 dovrebbe essere emanato entro la fine di quest’anno; ci si attende, quindi, che le Regioni possano incominciare il programma di screening a partire dal 2026, seguendo le tempistiche che riterranno più opportune.2,3
Secondo l’approccio tradizionale, lo screening per DT1 e celiachia viene raccomandato solo nei soggetti considerati ad alto rischio, tra cui i consanguinei di pazienti già diagnosticati e le persone affette da patologie note per essere associate con le due condizioni in oggetto.4-7 Negli ultimi anni, però, questa impostazione ha iniziato a essere messa in discussione, in particolare per il DT1. Infatti, è ormai largamente accettato che questa patologia abbia diverse fasi precliniche, nelle quali è già individuabile una risposta autoimmune contro le isole pancreatiche.8 La positività a un singolo autoanticorpo costituisce una situazione di rischio di sviluppare la malattia, mentre la positività a due o più anticorpi definisce gli stadi 1, 2 e 3 della malattia vera e propria – a seconda se accompagnata, rispettivamente, da normoglicemia, disglicemia o iperglicemia –, di cui il terzo costituisce il DT1 clinicamente manifesto.9 I risultati di diversi studi hanno mostrato la fattibilità di uno screening di popolazione basato sulla ricerca degli autoanticorpi e suggeriscono possibili effetti positivi sulla salute: da una riduzione dei casi che vengono diagnosticati in seguito a un episodio di chetoacidosi (un’emergenza medica che mette a rischio il paziente e può anche avere effetti a lungo termine importanti) fino a un miglior controllo della malattia nel lungo periodo.10,11 Inoltre, nel 2022, la Food and Drug Administration ha approvato teplizumab, un anticorpo monoclonale in grado di rallentare di un paio di anni la transizione dallo stadio 2 allo stadio 3 della malattia. La disponibilità di questo farmaco, che è in via di approvazione anche da parte della European Medicines Agency e costituisce attualmente l’unica terapia per il DT1 in fase subclinica, rappresenta, secondo i sostenitori dello screening di popolazione, un ulteriore (e forse il principale) motivo per una ricerca sistematica dei casi nelle fasi iniziali della malattia, anche se l’attuale costo di templizumab (circa 200.000 dollari a paziente) desta una serie di dubbi sulla sua reale costo-efficacia.11 Esempi di studi che hanno valutato lo screening nella popolazione generale esistono anche per la celiachia, anche se, in questo caso, non è ancora chiaro se offrire una dieta priva di glutine a soggetti asintomatici possa effettivamente tradursi in benefici clinici a lungo termine.6,12
Nonostante il dibattito in corso all’interno della comunità scientifica, attualmente non esistono linee guida che raccomandino espressamente lo screening di DT1 e celiachia nella popolazione generale né tantomeno forniscano indicazioni operative su come questo dovrebbe essere svolto.5,7,12,13 In un contesto simile, appare sorprendente che molti dei dettagli tecnici e organizzativi del programma di screening italiano restino ancora oscuri, nonostante l'imminente avvio.
Quali sono le istruzioni operative per condurre effettivamente lo screening?
La Legge n. 130/2023 è costituita di soli 4 articoli e definisce il programma di screening in termini molto generici.2 Il disciplinare tecnico del Decreto ministeriale riferisce quali anticorpi verranno testati tramite un prelievo di sangue capillare (GADA, IA2A e ZnT8A per il DT1; TGA-IgA e TGA-IgG per la celiachia) e le fasce di età coinvolte (2 anni e 5-7 anni per il DT1; 5-6 anni per la celiachia).3 Inoltre, sottolinea che le analisi dovranno essere eseguite da laboratori individuati da ogni Regione e che centri clinici regionali di riferimento saranno deputati alla conferma della diagnosi, all’inserimento periodico dei dati di conferma nella piattaforma, alla presa in carico e al trattamento dei bambini riconosciuti affetti da DT1 o celiachia, e al loro follow-up. Non vengono, però, forniti dettagli sulle tecniche analitiche da utilizzare, su quale sia il percorso diagnostico che un soggetto con un’eventuale positività dovrà intraprendere prima che la patologia venga confermata e in cosa dovrà consistere esattamente la presa in carico dei pazienti. Si tratta di aspetti rilevanti e con molteplici criticità. Per esempio, alcuni autori suggeriscono come non sia lo screening iniziale in sé a ridurre il rischio di chetoacidosi, ma il follow-up (più o meno serrato) che segue, che deve, quindi, deve essere definito accuratamente.10 Inoltre, il fatto che teplizumab sia approvato per pazienti a partire dagli 8 anni di età, mentre i bambini sottoposti a screening saranno di 2 e 5-7 anni, implica che i casi individuati in questo modo non potranno accedere immediatamente a questa terapia; occorre, quindi, che sia chiaro quale tipo di assistenza verrà loro offerta nel frattempo.14 Il rischio che sembra delinearsi è che, in assenza di indicazioni precise, ogni Regione sia lasciata da sola a improvvisare e finisca così per doversi inventare il proprio programma di screening.
Come verrà valutato l’impatto dello screening?
In ogni programma di screening che si rispetti, il monitoraggio degli indicatori di processo e, soprattutto, di quelli che misurano gli effetti sulla salute dovrebbe essere stabilito a priori, prima che inizi la fase di implementazione. Questa raccomandazione è ancora più necessaria nel caso specifico, dato che si tratta della prima volta al mondo che un programma del genere viene introdotto; risulta, quindi, fondamentale valutarne la reale efficacia e le possibili criticità da correggere. Attualmente, non sembra esistere un piano preciso per il monitoraggio del programma nazionale di screening, nonostante la legge preveda un osservatorio dedicato, istituito alla fine del 2024.15 In questo senso, la composizione di quest’organo è emblematica, poiché non include la presenza di competenze epidemiologiche, in particolare nell’ambito della valutazione degli interventi sanitari.
Nel 2024, L’Istituto Superiore di Sanità ha lanciato uno studio pilota di fattibilità dello screening in quattro Regioni italiane (Campania, Lombardia, Marche e Sardegna), offrendo, tramite la collaborazione dei pediatri di libera scelta (PLS), il test capillare per la ricerca degli anticorpi a circa 5.000 bambini (1,6% della popolazione pediatrica residente).16 Questo studio (chiamato D1CE) ha fornito indicazioni sulla generale fattibilità dei test capillari presso gli studi dei PLS, con alcuni caveat (il 24% dei medici si è rifiutato di partecipare, nonostante venisse previsto un compenso).17 Per quanto riguarda il DT1 (ma non la celiachia), gli autori hanno anche proposto una possibile strategia di follow-up per i diversi stadi della malattia, ma non è chiaro se è quella che verrà effettivamente implementata su scala nazionale, dato che non viene menzionata nel decreto del Ministro della Salute in corso di approvazione.3,18 Altre informazioni fondamentali, come la percentuale di rifiuti da parte delle famiglie a partecipare allo screening, non sono attualmente disponibili, ma si auspica che siano state raccolte, anche se non esplicitamente menzionate nel protocollo di ricerca.16 Peraltro, il limitato numero di casi di DT1 individuati all’interno dello studio (34 positivi al test capillare di primo livello, 8 dei quali hanno visto la diagnosi confermata) rende difficile valutare gli aspetti associati all’intero processo diagnostico (per esempio, numero di falsi positivi, risorse utilizzate eccetera), alla presa in carico e soprattutto ai possibili benefici in termini di salute.17 A questo proposito, può essere utile sottolineare che la notizia, circolata alcuni mesi fa, che un’analisi preliminare avrebbe dimostrato un’importante riduzione dei casi di chetoacidosi nelle regioni coinvolte nello studio D1CE non risulta supportata dai dati.19 La ricerca in oggetto ha misurato nel 2024 la proporzione di diagnosi di DT1 esordite con chetoacidosi in tutti i centri diabetologici pediatrici delle 4 Regioni coinvolte nel progetto D1CE e l’ha confrontata con quella di altre 12 Regioni, trovando nel primo gruppo valori inferiori del 26%.20 In realtà, dato che D1CE coinvolgeva solo una piccolissima parte della popolazione delle 4 Regioni (1,6%), non era possibile che la differenza osservata fosse dovuta allo screening; non sorprendentemente, i valori registrati nelle varie Regioni erano gli stessi anche nel 2023, anno precedente all’inizio dello studio. D’altra parte, sembra poco plausibile anche l’interpretazione di questi risultati offerta dagli autori stessi, per i quali la presenza di un effetto in entrambi gli anni sarebbe dovuta al fatto che la fase preparatoria del progetto avrebbe implicato una maggiore consapevolezza del problema della chetoacidosi.20 Inoltre, se presa seriamente in considerazione, questa spiegazione dovrebbe paradossalmente indurre il Ministero ad abbandonare lo screening e promuovere, invece, campagne di sensibilizzazione verso la popolazione generale.
Un programma serio di monitoraggio degli effetti sanitari dello screening è assolutamente necessario. Per alcuni esiti, come la riduzione dei casi di chetoacidosi in soggetti senza una precedente diagnosi di diabete, questa valutazione potrebbe essere relativamente semplice, per esempio, utilizzando i dati dei flussi amministrativi sanitari, disponibili in ogni Regione. Altri aspetti, come la valutazione dell’andamento a medio e lungo termine della malattia in seguito all’introduzione dello screening, richiederanno, invece, la conduzione di studi longitudinali, decisamente più complessi. Da questo punto di vista, l’esperienza maturata in decenni di valutazione dell’efficacia degli screening in ambito oncologico potrebbe costituire una risorsa importante, che andrebbe valorizzata.
Il programma di screening è sostenibile dal punto di vista economico e organizzativo?
La legge 130/2023 riporta che, a partire dal 2026, verranno stanziati ogni anno 2,85 milioni di euro per il programma di screening.2 Questa cifra, che non viene motivata ed è suddivisa tra le varie Regioni in maniera proporzionale al numero di nuovi nati, servirà a coprire i costi dei test capillari, mentre tutte le altre spese saranno a carico delle Regioni.18 Non essendo stata prodotta da parte delle istituzioni alcuna valutazione del numero di soggetti che si prevede avranno bisogno di test di secondo livello né fornite informazioni esaustive sul percorso diagnostico di conferma e sul tipo di assistenza che verrà eventualmente loro offerta, non stupisce che non sia neanche disponibile una stima dell’impatto economico e organizzativo che questo programma di screening implicherà nel suo complesso. Una ricerca indipendente ha recentemente calcolato i costi relativi alla conduzione dello screening pediatrico per la celiachia nella popolazione generale in Lombardia, stimando che i costi diretti nel corso del primo anno raggiungerebbero i 13 milioni di euro – una cifra più di 25 volte superiore ai fondi stanziati dalla legge per eseguire i test capillari nella Regione – che aumenterebbero ulteriormente negli anni successivi.21 Se un simile moltiplicatore venisse applicato all’intera popolazione italiana, i costi attesi sarebbero attorno ai 75 milioni di euro nel corso del primo anno, fino a toccare i 130 milioni durante il quarto anno di attività. A queste spese bisognerebbe poi aggiungere quelle relative al diabete, che l’analisi non ha preso in considerazione. Inoltre, i ricercatori sottolineano che, nel caso della celiachia, in Lombardia sarebbero necessarie 4.000 visite mediche e 1.800 gastroscopie ogni anno per individuare i reali malati tra tutti quelli risultati positivi al test anticorpale.21 C’è da chiedersi se tale incremento di attività sia sostenibile per i diversi sistemi sanitari regionali, molti dei quali hanno già ora importanti problemi collegati alle liste di attesa. In generale, potrebbe succedere che tutte le Regioni offrano i test capillari, perché sono pagati dal Ministero, ma che in alcune di esse non ci sia la possibilità di accedere agli esami di secondo livello in tempi utili (tranne, naturalmente, per chi può rivolgersi al canale privato), con il conseguente rischio per i pazienti di rimanere in un limbo, senza sapere se la loro diagnosi sia confermata o meno. Si tratterebbe di uno dei peggiori scenari che possono accadere all’interno di un programma di screening. In questo senso, può essere utile ricordare che il famoso decalogo di Wilson e Jungner stabilisce che, affinché un programma di screening sia giustificato, alla popolazione deve essere garantito accesso a tutti esami necessari per la conferma della diagnosi e alle migliori terapie disponibili.22
Guardando a ritroso l’iter della legge 130/2023, colpisce come, al momento della sua presentazione in aula, questa legge fosse priva di un qualunque documento tecnico di accompagnamento e, nella discussione parlamentare che ne è seguita, non sia emersa la necessità di approfondire il razionale e gli aspetti scientifici di una iniziativa così innovativa e complessa.2 Seppur tardivamente, queste lacune vanno colmate prima dell’effettivo inizio del programma di screening, quindi aprendo sin da ora anche a un confronto con le molte società medico-scientifiche (incluse quelle nell’area della sanità pubblica) coinvolte in queste tematiche.
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
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