Abstract

While writing I note that it is July 21, 2010. Just half a century ago, on July 21, 1960 I graduated in medicine discussing a thesis on the distribution of the ABO blood groups antigens at the surface of red cells. For epidemiology and Italy alike half a century is a long period, involving many changes but also some similarities. I’ll start with differences.

Riassunto

Sto scrivendo questo articolo, è il 21 luglio 2010. Esattamente mezzo secolo fa, il 21 Luglio 1960, mi laureavo in medicina a Pavia discutendo una tesi sulla distribuzione degli antigeni del sistema immunogenetico ABO alla superficie dei globuli rossi. Mezzo secolo è un non breve periodo, per l’epidemiologia e per l’Italia.Tra 1960 e 2010 tante differenze ma anche varie similitudini. Comincerò con le differenze.

1960 e 2010: differenze alla luce dell’epidemiologia di oggi (Versione italiana)

Nel 1960 erano già passati dieci anni dalla pubblicazione dei primi studi casocontrollo su fumo di tabacco e tumori polmonari1-3 ed è del 1957 la prima edizione dell’illuminante libro di Jerry Morris4 sugli usi e scopi dell’epidemiologia lungo tutto l’arco della medicina e sanità pubblica. Qualche segnale di ricezione e interesse per questi sviluppi dell’epidemiologia era presente in Italia, ma mancavano i segnali di risposta, nella forma di documentabili attività di ricerca. Rimarchevole eccezione la partecipazione italiana al progetto «Seven countries», pietra miliare della epidemiologia cardiovascolare.5 L’idea era germinata nella mente di Ancel Keys, a Napoli con l’esercito americano nel corso della seconda guerra mondiale, dopo aver osservato la rarità dei ricoveri per infarto miocardico negli ospedali napoletani confrontati con quelli del Minnesota e di altri stati nordamericani.
Se si assume per convenienza il 1960 come il simbolo della nuova epidemiologia – la prima trattazione sistematica dei principi e metodi da parte di MacMahon e collaboratori è proprio di quell’anno6– salta all’occhio la differenza essenziale con il 2010. Quella epidemiologia, inizialmente nata dalla necessità di indagare le cause sconosciute di malattie non trasmissibili (croniche o degenerative) in crescente incidenza nei Paesi economicamente più sviluppati, era una epidemiologia “di conquista” che si è attualmente trasformata in una epidemiologia “di residenza”. Si trattava allora della diffusione attiva, a ondate successive, dell’approccio epidemiologico in tutti i settori della medicina, là dove oggi la continua sfida per l’epidemiologia è costituire entro e attraverso questi settori, ormai acquisiti alla indispensabilità della disciplina, una componente non banale. Per tutto il periodo che va dal 1945 a, grosso modo, gli anni Novanta del secolo scorso, bastava applicare l’approccio epidemiologico a un problema medico o di sanità e immediatamente si schiudeva una prospettiva nuova, portatrice di nuove strade di investigazione e soluzione. Quasi ogni pagina di un testo di medicina si prestava a questo esercizio nel momento in cui ci si domandava cosa volessero dire, in senso sia qualitativo sia quantitativo, i termini (in corsivo) di frasi correnti come: «...nella maggioranza dei casi la malattia ha un andamento subclinico o presenta sintomi lievi ma in una minoranza può evolvere in una forma grave, in casi eccezionali a esito letale»
Lo stesso esercizio si poteva applicare a una serie quasi illimitata di problemi di diagnosi o intervento, preventivo o terapeutico, semplici come un farmaco o complessi come l’erogazione di un servizio. Se i problemi eziologici potevano sembrare a prima vista più ardui il vuoto di cause conosciute di una patologia non chiedeva altro che esplorazioni a tutto campo capaci di generare, e poi saggiare, ipotesi causali. Per esigente che fosse metodologicamente e complessa organizzativamente la esecuzione di uno studio, la applicazione dell’approccio epidemiologico a settori inesplorati era la garanzia della produzione di risultati-primizie.
Quell’epoca è passata, parecchie nicchie inesplorate perman gono, ma il corpo principale dell’epidemiologia attuale, che ovviamente include le patologie e i problemi più comuni e rile vanti per la salute della popolazione, presenta contorni differenti. Contribuiscono a disegnarli, direttamente o indirettamente, quattro fattori generali, che ho discusso in qualche det taglio tre anni fa in Epidemiologia & Prevenzione.7

  1. La pressione del neocapitalismo, finanziaria e produttivisti ca, su sanità e salute che si trasmette anche sull’epidemiologia in forma di pressione per ottenere livelli crescenti di perfor mance tecnica ed economica misurabile tipicamente attraver so indicatori di diffusione delle pubblicazioni in relazione ai lo ro costi. Un effetto è la moltiplicazione nella letteratura delle rianalisi delle basi di dati di studi, singoli o combinati: meri torie nella misura in cui mirano a estrarre tutta l’informazione disponibile su problemi scientificamente rilevanti, preoccupanti nella misura in cui rappresentano banali esercizi di ripiego, per scarsità di idee o di finanziamenti (o di entrambi), rispetto al la condotta di studi originali.
  2. La connotazione essenzialmnente metodologica della «modern epidemiology» che la rende di per sé uno strumento onnivalente neutro a contenuti e indirizzi di ricerca.
  3. Il principio di individualizzazione che permea tutta la cultura contemporanea nei Paesi a economia avanzata e che si esprime nella meta della cosiddetta medicina personalizzata, vista come possibile grazie al quarto fattore, di grande peso.
  4. Lo sviluppo tumultuoso della nuova biologia.

Ciascuno di questi fattori, in particolare la combinazione degli ultimi due, meriterebbe una approfondita riflessione: mi limito qui ad aggiungere solo una cosa.
Nel settore in espansione dell’epidemiologia genetica la forza trainante l’innovazione e la produzione di risultatiprimizie è l’evoluzione delle tecniche di misura su larga scala di varianti genetiche. In gergo è questo un settore technology driven che mette a disposizione piattaforme highthroughput e ultrahighthroughput di analisi delle varianti del DNA. Si è così rapidissimamente avanzati dagli studi di associazione tra malattie e SNP(single nucleotide polymorphisms) o – meno frequentamente CNV (copy number variants) – agli studi di esplorazione totale del genoma (GWA, genome wide association). I risultati per esempio, su patologie cardiovascolari,8 diabete di tipo 2,9 tumore della mammella10 gettano dubbi sulla effettiva possibilità di pervenire su base genetica a una esatta predizione del rischio individuale. D’altro canto i risultati di questi stessi studi costituiscono il passaggio obbligato e il punto di partenza per l’analisi dei meccansimi patogenetici che collegano la malattia alle varianti genetiche confermate come a essa associate, analisi che si vale anch’essa di studi epidemiologici a componente genomica, proteomica e metabolomica, anch’essi fortemente technology driven. Se la identificazione di meccanismi fisiopatologci potenzialmente suscettibili di modifiche essenzialmente per la via farmacologica della chemoprevenzione (oltre che del trattamento della malattia manifesta) è di fatto l’orizzonte di un segmento della ricerca epidemiologica che a livello mondiale assorbe una cospicua e crescente frazione di risorse materiali e umane, vale la pena di domandarsi: fino a che punto questa concentrazione di impegno è giustificabile in particolare nell’attuale contesto dell’Italia?

1960 e 2010: similitudini, alla luce dell’Italia di oggi

Ritorno quindi all’Italia e anche al luglio 1960 per uno squarcio di storia civile, passata e recente. Dieci giorni prima della laurea andai a discutere gli ultimi dettagli con il relatore, direttore dell’Istituto di genetica dell’Università di Pavia. L’Istituto era ospitato nell’edificio, un exmonastero, dell’orto botanico ed era allora un punto di riferimento e incontro dei non molti che facevano ricerca biologica avanzata, incluso Giulio Alfredo Maccacaro, amico personale e collaboratore in lavori di genetica microbiologica di Luca Cavalli Sforza, il mio supervisore diretto. Dirigeva l’Istituto Adriano BuzzatiTraverso (19131983), una delle figure più marcanti della scienza italiana del dopoguerra. Apparteneva, come il fratello scrittore Dino Buzzati, a quello strato troppo sottile della borghesia italiana che, cosciente del ruolo privilegiato che la struttura di potere della società le assegna, dà in ritorno alla società non solo una competenza tecnica senza fallo e un rigoroso rispetto delle leggi, ma anche e soprattutto una profonda cultura critica che permette di esercitare quel ruolo prendendone le distanze e comprendendo le ragioni di chi di potere ne ha poco o nulla. Non è snobismo, è il meglio che una borghesia lungimirante può offrire alla società. Una prima similitudine tra il 1960 e il 2010 è che se allora questo strato della borghesia era sottile oggi lo è ancora di più, al punto della evanescenza.
Buzzati mi accolse scuotendo la testa in segno di disapprovazione non per la mia tesi ma per quanto accadeva in quei giorni in Italia e per l’operato del governo. «Il Giorno», quotidiano in cui Buzzati regolarmente scriveva sulla ricerca e i malanni dell’università, aveva chiesto – unico tra i giornali non di partitole dimissioni del governo dell’onorevole Fernando Tambroni, sostenuto dai voti determinanti del Movimento Sociale, dopo l’uccisione il 7 luglio da parte della polizia di cinque operai a Reggio Emilia. Erano manifestanti contro il congresso del Movimento Sociale, che avrebbe dovuto tenersi a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. L’Italia era, anche allora, in un momento di acuta crisi: le maggioranze di centro ormai traballavano e sbilanciarle verso la destra neofascista si presentava come un antidoto a una possibile apertura a sinistra osteggiata dai più forti centri di potere. Quale che fossero le sue intenzioni e convinzioni politiche e i suoi condizionamenti partitici Tambroni rimane oggettivamente un esempio di quell’autoritarismo illiberale, insidia permanente di tutte le democrazie, che nei centocinquanta anni dell’Italia unitaria ha una lunga e spesso tragica tradizione: da Crispi, uomo della sinistra postrisorgimentale, a Pelloux, generale e di destra, a Mussolini, che esordì socialista, aTambroni, etichettato verso sinistra nella Democrazia Cristiana, a Berlusconi, uomo di se stesso e per se stesso. È questa una seconda e grave similitudine tra l’oggi e il passato.
Il successo di Berlusconi è risultato finora nell’azzoppamento del Paese proprio nel bel mezzo di una gigantesca corsa mondiale al cambiamento che combinata con una crisi economica di durata imprevedibile richiederebbe una visione del bene comune e una capacità di iniziativa politica ben al di là di un piatto: l’Unione europea ci impone il rigore finanziario, così sia. Nel bilancio di sette anni di governo (20012005, 20082009) figurano:

  1. L’indicatore standard, sia pure crudo e incompleto, di benessere materiale, il Prodotto interno lordo (PIL) procapite è regredito ai livelli del 1999. Non risulta si tratti di una “decrescita programmata” ispirata da una politica di compatibilità ecologica. Nel quinquennio 2001-2005 la variazione dell’indicatore è stata in media di uno striminzito +0,3%, seguita nel 2008 e 2009 da variazioni negative (rispettivamente –1,8% e 5%). Sarà solo una coincidenza ma nei tre anni del decennio (2000, 2006 e 2007) in cui era al governo il centrosinistra le variazioni sono state: +3,6%, +1,5%, +0,8 %.11
  2. Sulla salute dei cittadini grava al momento l’ipoteca di un fascio di fattori capaci di influenzarla negativamente, tra i quali: aumentate diseguaglianze di reddito;12 blocco, non è dato di conoscere quanto selettivo, del turnover del personale sanitario; tagli dei bilanci regionali che sostengono i servizi sociali; federalismo fiscale i cui costi e benefici economici –che si ripercuotono immediatamente sul settore della sanitàrestano avvolti nella nebbia: è paradossale che di un provvedimento di natura economica di vasta portata non siano ancora definiti quantitativamente proprio i costi e benefici economici.
  3. L’investimento in ricerca e sviluppo scientifico (R&D), leva prioritaria per mantenere aperto il futuro economico e sociale del Paese, ristagna (1,2 % del PIL nel 2007) e le riduzioni annunciate con la manovra finanziaria rivelano una sostanziale insensibilità del governo, più grave di quella discussa nel 2004,13 stante la pesante congiuntura del Paese. Nell’Unione europea a 27 Paesi l’Italia è in sedicesima posizione per percentuale del PIL dedicata a R&D, ormai seguita solo da Grecia, Malta, Cipro e i Paesi dell’Est (ma non Slovenia e Repubblica Ceca, posizionate più avanti). L’Italia ha un PIL procapite uguale alla media dell’UE ma persiste a investire in R&D (come percentuale del PIL) neanche due terzi della media dell’UE (1,9%).11

Questi risultati appaiono realizzare l’ipotesi di lavoro che Berlusconi aveva proposto agli italiani entrando in politica all’inizio del 1994: «Gestirò l’azienda Italia come ho gestito le mie aziende». Per chi non avesse voluto bendarsi gli occhi quelle aziende erano allora arrivate sull’orlo del fallimento, con un indebitamento pari a 3,4 volte il capitale!14 (attualmente prosperano,15 compiacenti tutti i governi dell’azienda Italia).

Un suggerimento per oggi e domani

L’epidemiologia è ormai divenuta – nel nostro come in moltissimi altri Paesi – una componente obbligata di tutte le aree della biomedicina e sanità. In un contesto precario come quello italiano or ora delineato ciò può indurre a fare un pochino di tutto, come capita e superficialmente, o costringere invece – opzione di gran lunga preferibile – a concentrare l’attività su alcuni assi prioritari. Continuo a pensare che l’ottica di popolazione, tratto identitario dell’epidemiologia, specifichi il livello della collettività (piuttosto che quello dell’individuo, organo, cellula ) non solo come strumento di indagine sulla salute ma anche come priorità di indagine. Questo vuol dire ricerca indirizzata primariamente ai determinanti collettivi (o, detto altrimenti, ambientali), materiali e sociali, di salute e malattia. Non vorrei essere frainteso: non intendo in alcun modo diminuire, in negativo, il valore conoscitivo delle altre tematiche della ricerca epidemiologica, dagli studi nutrizionali a quelli sui comportamenti individuali alla epidemiologia genetica ed epigenetica orientata in direzione fisiopatologica (discussa in precedenza); intendo suggerire, in positivo, che l’impegno degli epidemiologi italiani debba essere diretto, nelle condizioni attuali del Paese, ad assicurare prima di tutto lo sviluppo di una ricerca di qualità, supporto dinamico dei servizi, lungo tre assi dell’ambiente in senso lato.
L’ambiente materiale è un filone su cui l’epidemiologia italiana ha molto e bene investito e sulla cui espansione occorre insistere. Tutte le componenti sono rilevanti: da quella del cambiamento climatico globale, che pone nuove sfide metodologiche agli epidemiologi, a quella residenziale, a quella occupazionale (con l’incessante riorganizzazione degli ambienti di lavoro), all’influenza dei fattori ambientali dal concepimento alla nascita alla vita adulta. Ovviamente questi studi possono spesso valersi di marcatori biologici di esposizione o lesione.
L’ambiente sociale e il tema delle diseguaglianze nella salute è ormai così onnipresente nella sanità pubblica che recentemente è stata stigmatizzata16 l’esistenza di una sorta di “industria dell’analisi delle diseguaglianze” che campa proprio sulla loro permanenza. Questa critica coglie il bersaglio se intesa a sottolineare il deficit di iniziative (da parte degli stessi analisti epidemiologi) e di interventi correttivi ma è fuori bersaglio se implica che su questo argomento ne sappiamo fin troppo e dedicarvi ancora tempo e risorse è sterile. Documentare la persistenza di un problema su cui si potrebbe intervenire è al contrario indispensabile perché il problema non venga occultato e perpetuato. E inoltre vi sono aspetti, come l’evoluzione delle diseguaglianze nella salute nell’attuale fase di crisi economica o la salute delle popolazioni di immigrati, su cui poco ancora si conosce.
L’ambiente sanitario, composito di materiale e sociale, rappresenta un terzo asse prioritario. Soprattutto la valutazione di interventi e servizi è fondamentale, oggi ancora più di ieri, affinché la loro erogazione non divenga determinata essenzialmente dal gioco del calcolo economico e delle pressioni delle lobbies professionali, partitiche e dell’industria farmaceutica e biotecnologica.
Più in generale l’ancoraggio della conoscenza e della pratica medica e di sanità pubblica sull’evidenza costruita con lo strumento epidemiologico ha una rilevanza che va oltre l’ambito scientifico e tecnico: oggi in Italia ha anche valore come un’isoletta di lucidità e razionalità nel contesto di una società che da dieci anni si culla nell’illusione che la “cura Di Bella” politica a cui si è affidata faccia miracolosamente scomparire gli ardui problemi della realtà. Inevitabilmente il risveglio sarà molto duro.


1960 and 2010. Some differences in the light of today epidemiology (English version)

In 1960 ten years had already elapsed since the first casecontrol studies on the association of tobacco smoking with lung cancer.1-3 1957 is the publication of the enlightening book by Jerry Morris4 on the uses and purposes of epidemiology in medicine and public health. Rare signals of interest for these developments were occasionally detectable in Italy but no actual research of import was implemented. The one remarkable exception is the Italian component of the classic «Seven countries» study of coronary heart disease.5 The seed of it was the observation by Ancel Keys, who had been in Naples with the US army during World War II, of the rarity of myocardial infarction cases in the Naples hospitals compared to hospitals in Minnesota and other NorthAmerican states.
In 1960 the first systematic presentation appeared of the methodological principles of epidemiology by MacMahon et al.6 If that year is taken as the symbol of a new epidemiology a major difference in respect to 2010 strikes one immediately. The 1960 epidemiology was initially born to investigate the unknown causes of noncommunicable (chronic, degenerative) diseases whose incidence was on the rise in economically developed countries: it was a “conquest epidemiology” of unexplored etiological territories that today has become a kind of “resident epidemiology”. At that time a fresh epidemiological approach pervaded in successive waves all areas of medicine and public health. Today the permanent challenge for epidemiology, whose indispensability is firmly established, is to be a nontrivial and merely routine component of those areas.
For the nearly half century ranging from 1945 to roughly the midnineties of last century it was enough to apply the epidemiological approach to a medical or public health problem to see disclosed a new perspective, rich in research avenues and potential practical applications. Almost any textbook page would offer a fertile ground for this exercise, just by trying to transform in exact qualitative and quantitative terms such typical statements as «…in the majority of cases the disease has a subclinical course or presents with mild symptoms but in a minority of cases it may evolve into a severe form and exceptionally be lethal».
The same exercise could be applied to an almost unlimited host of diagnostic or intervention issues, preventive or therapeutic, simple as a drug or complex as the delivery of a health service. Etiological problems could appear at glance less tractable but the very dearth of known causes justified throwing wide the net of exploratory investigations capable of generating hypothesis to be subsequently tested in analytical studies.These could often be methodologically demanding and complex to organize but applying the epidemiological approach to yet unexplored territories amounted in any case to a guarantee of discovering novel findings.
That golden period has gone, although a fair number of unexplored niches still remain. The main body of today epidemiology, which obviously includes the most common diseases and problems relevant to the population health, has different contours. They are shaped, as I discussed in some detail three years ago in Epidemiologia e Prevenzione,7 by four general factors:

  1. The pressure of neocapitalism, in its financial and productivity components, on the health domain. It extends to epidemiology as a pressure to attain increasing levels of technical and economical performance, mainly measurable through indicators of diffusion of publications in relation to their costs. One effect is the multiplication of reanalyses of study databases, individual or pooled. No doubt they have merit to the extent that they extract all available information on scientifically important issues. But they are also of concern to the extent that they represent trivial exercises replacing, because of shortage of ideas or funds (or both), original fresh studies.
  2. The essentially methodological connotation of «modern epidemiology» making it an allpurpose instrument, neutral to contents and directions of research.
  3. The principle of individualization pervading all contemporary culture in economically advanced countries. In the health field it translates into the objective of personalized medicine, believed attainable thanks to the fourth factor:
  4. The tumultuous development of the new biology

Each of these factors, in particular the combination of the last two, would be worth indepth consideration.

I can only make here a short remark. The driving force in genetic epidemiology, producing novel findings, is essentially the technological progress in large scale measurement of genetic variants, namely the continuing improvement of platforms for highthroughput and ultrahighthroughput analyses of DNA variants. Research has fast moved from association studies of SNP’s (single nucleotide polymorphisms) or, less frequently, CNV’s (copy number variants) to genome wide association studies (GWAs). Recent results, for instance on cardiovascular disease,8type 2 diabetes,9breast cancer,10throw doubts on the actual possibility of attaining a highly accurate prediction of individual risk.The results of such studies are instead a necessary starting point for the analysis of pathogenic pathways linking a disease to the genetic variants firmly established as associated with it.These analyses makes also substantial use of epidemiological investigations with technologydriven genomic, proteomic and metabolomic components,Thus it appears that identifying pathogenic mechanisms potentially modifiable at the preventive or clinical stage via pharmacological interventions is de facto the horizon of an important segment of epidemiological research, absorbing a large amount of material and human resources. How far is this concentration of effort justifiable in general and in particular in the current Italian context ?

1960 and 2010. Similarities in the light of today Italy

I revert therefore to Italy and to July 1960 for a passage of civic history, past and recent. Ten days before my graduation I went to discuss the last details of my thesis with the director of the Institute of Genetics of the University of Pavia, where I had spent two years. The institute was hosted in an exmonastery within the Botanic Garden and it represented a reference and a meeting point for advanced biology researchers, few at that time in Italy.They included Giulio Alfredo Maccacaro, personal friend and collaborator in genetic microbiology work of Luca Cavalli-Sforza, my direct supervisor.
The Institute director was Adriano BuzzatiTraverso (1913-1983) one of the most distinguished and forceful personalities in Italian science of the postWorldWar II time. Like his brother, the wellknown writer Dino Buzzati, he belonged to a rather small subgroup of Italian bourgeois fully conscious of the privileged role they enjoy because of the power structure of society. They regarded as incumbent to give in return to society an impeccable professional competence, full respect of laws and rules and, foremost, a critical culture allowing them to exercise their role with a measure of detachment and with a genuine understanding of the reasons of those who in society have little or no power.This attitude was and is not snobbish, in fact it is the best contribution a farsighted bourgeoisie can make. A first and worrying similarity between 1960 and 2010 is that in 1960 that layer of the Italian bourgeoisie was thin and today is thinner, close to a vanishing point.
When I entered his office professor Buzzati-Traverso was shaking his head, not because of my thesis but for the news from the country. «Il Giorno» the newspaper of which he was a columnist on research and on university problems had just demanded (alone among nonparty newspapers) that the government resign. It held the government, supported by the neofascist Movimento Sociale, responsible for the killing by the police of five workers during a demonstration against the congress of Movimento Sociale that should have taken place –rather provocatively in Genova, a city proud of its gold medal of the antifascist Resistance. At that time Italy was going through a severe political crisis.The parliamentary majority of the centre had repeatedly proved unstable. Getting support from the neofascist right had been regarded as preferable to some measure of ‘opening to the left’, abhorred by powerful economic and social forces.
The prime minister, Mr.Tambroni, might have been caught between personal orientations (said to lean towards the left) and party line constraints: yet he objectively remains as one more example of illiberal authoritarianism, a permanent menace for any democratic state and a recurrent – often tragic feature in the history of united Italy. He joins in this regrettable recorda Crispi, a key figure of the left in the second half of the nineteen century, Pelloux, a rightwing general, Mussolini, who started as a socialist, and Berlusconi, a man of himself and for himself.There is here a second not joyful similarity between present and past. Mr. Berlusconi success has hitherto resulted in handicapping the country just at a time when gigantic changes and an economic crisis of unpredictable duration are occurring on the world scale. They would demand a vision of the public good and political competence well beyond the current government formula (the European Union imposes us financial austerity, that’s it).The record of seven years government ( 2001-2005, 2008-2009) includes:

  1. The percapita Gross National Product (GNP) still represents the standard indicator, albeit crude and incomplete, of material wellbeing. In Italy it is now back to the level of 1999 and there is no evidence that this is due to a ‘planned decreasÈ inspired by an ecological philosophy. During 20012005 the GNP per head grew on average by a minute +0.3%, while in 2008 and 2009 it decreased ( 1.8% and 5% respectively). It might be pure coincidence but in the three years (2000, 2007, 2008) when Mr. Berlusconi had to leave the government to the centre left the variations were +3.6%, +1.5%, +0.8%.11
  2. A number of factors, all capable of negatively affecting the population health are at work: increase in income inequalities;12blockade, to a yet unspecified extent, of the turnover of the health services personnel; cuts in the Regional government budgets that support social services; unknown costs and benefits of the «federalismo fiscale»bthat have immediate effects on the health services financing ( it is paradoxical that for this major measure of economic nature the very economic costs and benefits have not yet been reliably estimated ).
  3. The investment in scientific research and development (R&D), a key lever to keep open the economic and social future of the country, drags on at the level of 1.2% of the GNP (in 2007). The government has recently announced further cuts. They reveal a basic insensitivity to the issue: given the current grave juncture this is even worse than what I discussed in 2004.13Within the 27 countries of the European Union Italy ranks sixteenth for the percentage of GNP devoted to R&D, followed only by Greece, Malta, Cyprus and the Eastern countries (but not Slovenia and the Czech Republic, better placed). Italy has a percapita GNP equal to the average in the European Union but keeps spending for R&D (as a percentage of GNP) not even two third of the European Union average (1.9%).11These results strictly implement the working hypothesis that Mr. Berlusconi proposed to the Italians when he entered politics in 1994: «I am going to manage the “enterprise Italy” has I managed my own business». Anyone not willingly blind would have seen that his enterprises were at that time on the edge of bankruptcy with a debt 3.4 larger than the capital!14(Now they flourish thanks to the governments, of any color, of the “enterprise Italy”15).

A suggestion for today and tomorrow

Epidemiology has become, in Italy as in many other countries, an established component of all segments of biomedicine and public health. In the current precarious Italian context this may lead to “do a bit of everything” rather than concentrating research on some priority axes. I for one believe that the population perspective which identifies epidemiology specifies the population level not only as an instrument of research (rather than the organism, the cell etc.) but also as research priority. This implies research primarily addressing the collective determinants, material and social, of health and disease or, if one prefers, the population or ‘environmental’ determinants, in a broad sense. Let me dispel any possible misunderstanding. I do not intend to diminish at all in a negative way the value of other streams of epidemiological research (e.g. nutritional, on individual behavior, genetic and epigenetic epidemiology aiming at unraveling pathogenic pathways as discussed before). I intend instead to suggest in a positive way that the Italian epidemiologists’ effort is directed, given the current conditions of the country, to ensure as a first priority a high quality research along three axes of the environment, broadly defined (this research also offers a dynamic support to the health services).
The material environment has been a traditional focus of Italian epidemiology which ought to be maintained. All facets are relevant:the global climatic change, posing new methodological challenges; the residential and occupational environment, the latter undergoing incessant restructuring; the influences of environmental factors from conception to adult life. All of these investigations can today profitably use biomarkers of exposure and lesions.
The social environment and the twin theme of social inequalities in health is so pervasive in public health that the rise of an “industry of inequalities analyses” has been recently stigmatized16 that makes a life out of their very persistence. It is a pertinent critique if it denounces the inadequacies of many actions (including by social epidemiologists) to reduce the inequalities. At the same time it is a misplaced critique to the extent that it assumes that in this area we have enough knowledge and further research would be wasteful of resources. Documenting the persistence of problems amenable to correction is indispensable to prevent oblivion. In addition there are aspects, like inequality changes following the current economical crisis or the health of large migrant populations, on which our knowledge is far from adequate.
The health service environment, a composite of the material and the social, is the third priority axis. Most of all evaluating interventions and services is an absolute necessity, today even more than yesterday. Lest this is done service delivery becomes essentially decided by the play of economic calculations and of lobbying parties, professional, political, industrial ( pharmaceutical and biotechnological). More generally anchoring knowledge and the practice of medicine and public health to the evidence built through the epidemiological instrument is relevant beyond science. In today Italy it represents an islet of rationality and clearness within a society that since ten years has cherished the illusion that the political “Di Bella cure”c that it has chosen to trust in will miraculously solve all real problems.Wakingup will inevitably be very hard.

Bibliografia/References

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  2. The «federalismo fiscale» (fiscal federalism) has been already approved in principle and it should be soon implemented. It entails the devolution of additional government and fiscal responsibilities to the Regions. Unless properly controlled the process may aggravate already existing interregional disparities. This seems hardly to be a concern for the «Lega» party, members of which regard «federalismo fiscale» as the currently feasible approximation to separating the richer North from the rest of the country.
  3. The “Di Bella cure” (from the name of the proposer) is an “alternative” cancer treatment of no efficacy (see e.g. in Google.com: American Cancer SocietyDi Bella therapy; also: Buiatti E, Arniani S, Verdecchia A, Tomatis L. Results from a historical survey of the survival of cancer patients given Di Bella multitherapy. Cancer 1999; 86: 21439 ). It enjoyed an intense wave of controversial popularity in 1997 and 1998. From a sociological viewpoint the Berlusconi political experiment presents several common traits with a Di Bella treatment on a grand scale.
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