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COP30: colmare il divario tra ambizione e realtà
COP30: bridging the gap between ambition and reality
Riassunto
Una COP del mutirão? Un clima che cambia troppo in fretta e una transizione che procede troppo lentamente: la COP30 di Belém mette in luce un divario sempre più evidente tra ambizione e realtà. Tra assenze eccellenti, società civile protagonista e sfide finanziarie immense, il negoziato sul clima arriva a un punto critico. Colmare questi gap sarà decisivo per mitigare la crisi climatica.
Stanze gelide di aria condizionata per compensare giornate troppo calde e piogge torrenziali. È questo il clima di Belém, quello di una conferenza sul clima che si è scontrata con il clima stesso. Un clima che cambia troppo in fretta, mentre la transizione procede troppo lentamente.
Tra il 10 e il 21 novembre 2025, a poche centinaia di chilometri dal cuore della foresta amazzonica, più di 55mila persone si sono riunite per la trentesima Conference of the Parties (COP30) di Belém. Per due settimane, nelle sale ufficiali della COP30, i delegati governativi hanno negoziato decisioni che peseranno sul futuro del pianeta e dei suoi abitanti. Intorno a loro, tra padiglioni, side events e corridoi, scienziati, attivisti, osservatori e lobbisti hanno cercato di influenzare il processo, portando evidenze, richieste e pressioni.
Dal 1995, le COP sono il grande rituale annuale della diplomazia climatica, un rituale che quest’anno ha compiuto due anniversari: il decimo dagli Accordi di Parigi (COP21) e il ventesimo dall’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, il primo tentativo globale di ridurre le emissioni di gas serra. A trent’anni dalla prima COP, le delegazioni di (quasi) tutti i Paesi si ritrovano di nuovo attorno a un tavolo, questa volta ai margini del più grande polmone verde della Terra, per rispondere alla stessa domanda di allora: stiamo davvero facendo abbastanza?
In questi tre decenni, la crisi climatica si è trasformata da minaccia lontana a emergenza umanitaria, sanitaria ed economica. La comunità scientifica ha invocato interventi decisi, ma questa richiesta si scontra con gli interessi degli Stati, delle imprese e degli investitori, in un contesto globale segnato da pandemie, conflitti e tensioni geopolitiche. In questo scenario instabile, però, le emissioni continuano ad aumentare, così come le temperature.
Mitigazione: cosa servirebbe e cosa è stato fatto
Nel 2024 la temperatura media annuale era di 1,6°C superiore ai livelli preindustriali (1850-1900), circa 0,1°C in più del limite stabilito dagli Accordi di Parigi. Si tratta di un segnale importante, ma da interpretare con cautela: la soglia di 1,5°C si riferisce a medie climatiche su un periodo di 20-30 anni. Le temperature dello scorso anno, quindi, se isolate, non precludono totalmente il raggiungimento dell’obiettivo. Anche qualora si dovesse verificare un superamento temporaneo degli obiettivi di Parigi, una riduzione drastica delle emissioni potrebbe permetterci di ritornare sotto il grado e mezzo entro fine secolo.
Nel 2022, l’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) aveva indicato la traiettoria necessaria per contenere il riscaldamento entro 1,5°C: ridurre le emissioni globali del 43% entro il 2030 e dell’84% entro il 2050, rispetto ai livelli del 2019.
Lo scenario attuale, però, va nella direzione opposta. Secondo l’ultimo Emission Gap Report dell’United Nations Environment Programme (UNEP), nel 2024 le emissioni sono aumentate del 2,3% rispetto ai livelli del 2023, anno in cui erano cresciute dell’1,6% rispetto al 2022. Di una vera inversione di tendenza non c’è ancora traccia.
Lo stesso rapporto esamina l’impatto dei Nationally Determined Contributions (NDCs), i piani climatici nazionali presentati da ogni Paese, aggiornati quest’anno. La piena implementazione degli NDCs, sia incondizionati sia condizionati al sostegno internazionale, comporterebbe una riduzione delle emissioni globali di circa il 15% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019 (intervallo 11-18%). Se escludiamo l’NDC statunitense, la riduzione si attesterebbe circa all’11% (intervallo 6-15%). Anche nello scenario più ottimistico, tali riduzioni risultano ancora lontane dal 43% stabilito dall’IPCC.
Guardando questi dati, la lotta alla crisi climatica sembrerebbe persa in partenza, ma, nell’ultimo decennio, abbiamo visto dei risultati. Secondo Climate Action Tracker, con le politiche in atto alla fine del 2015 il riscaldamento previsto per fine secolo era di 3,6°C; oggi, invece, considerando le politiche in atto 10 anni dopo, è di circa 2,6°C.
Grandi assenze e forti presenze
Nonostante il momento decisivo e la posta in gioco, nessuno dei leader dei quattro Paesi oggi responsabili delle maggiori emissioni di gas serra si è presentato di persona. Con l’ultima presidenza Trump, gli Stati Uniti, titolari anche del primato di emissioni cumulative nella storia, si sono nuovamente ritirati dall’accordo di Parigi. Cina, India e Russia hanno invece inviato funzionari o ministri di grado inferiore rispetto ai capi di stato: un segnale che riflette bene le priorità dei loro governi. Anche dal fronte europeo i segnali non sono particolarmente ottimisti. L’assenza della prima ministra italiana Giorgia Meloni si inserisce in un contesto europeo instabile, impegnato a risolvere crisi sovrapposte e poco coeso sulla transizione climatica.
Eppure, nonostante queste assenze, a Belém è tornata in primo piano una protagonista che nelle ultime tre COP non ha avuto modo di partecipare: la società civile. Le immagini delle comunità indigene Munduruku che incontrano André Corrêa do Lago, il presidente della COP30, o la Marcha Global pelo Clima, che ha attraversato le strade di Belém a metà conferenza, hanno fatto il giro del mondo. Sono immagini che ci ricordano che, senza la partecipazione delle persone che vivono ogni giorno gli impatti della crisi climatica, la transizione rischia di ridursi a una trattativa sterile, lontana dal territorio e dalle persone che lo abitano.
Quanto è giusta questa transizione?
La presenza della società civile nei negoziati climatici non è solo simbolica, tocca il fulcro del processo di transizione, che, per essere reale e non solo dichiarata, dovrà garantire equità sociale, diritti dei lavoratori, sostegno ai territori e partecipazione delle comunità. È questo il senso del Belém Action Mechanism (BAM), una proposta avanzata da circa un migliaio di organizzazioni della società civile internazionale. Il BAM, che ha ottenuto il supporto indiretto di G77 e Cina, chiede di istituire un meccanismo multilaterale che renda la Just Transition un impegno globale e verificabile e di integrarla come parte strutturale nei negoziati.
Contestualizzare la Just Transition in Amazzonia non può prescindere dalla tutela delle foreste e dei popoli che le abitano. Gli ecosistemi terrestri, principalmente foreste, assorbono circa un terzo delle emissioni antropogeniche di CO₂ ogni anno. Tuttavia, il Forest Declaration Assessment ha dichiarato che nel 2024 sono andati perduti 8,1 milioni di ettari di foreste, il 63% in più rispetto alla traiettoria compatibile con l’azzeramento della deforestazione entro il 2030. C’è però qualche dato incoraggiante: il tasso di deforestazione annuale in Amazzonia nel 2024 si è ridotto dell’11,04%, una cifra importante rispetto agli anni precedenti. Inoltre, l’Amazzonia sta diventando il laboratorio di nuovi mercati del carbonio: progetti di riforestazione che generano crediti di rimozione acquistati dalle grandi corporation e dalle BigTech, che spesso però dimenticano di dialogare con i territori e con le comunità indigene.
Adattamento: quali strumenti e per chi
Una transizione può essere davvero giusta se tutti i popoli e tutti i Paesi, soprattutto quelli più vulnerabili, dispongono degli strumenti necessari per adattarsi a un clima che cambia sempre più rapidamente. Da anni è aperta la discussione sul Global Goal on Adaptation (GGA), l’obiettivo globale che dovrebbe rafforzare la capacità adattativa dei Paesi e ridurre i danni che, già oggi, subiscono a causa del cambiamento climatico.
Durante la COP28, per monitorare i progressi sul GGA è stata stabilita una serie di indicatori in sette aree tematiche. L’iniziale lista di quasi diecimila indicatori quest’anno è stata ridotta a cento e presentata alla Conferenza del Clima di Bonn, pronta per essere oggetto delle negoziazioni della COP30. È stato un enorme lavoro di ridefinizione e revisione. Tuttavia, come osserva Ferdinando Cotugno nella newsletter Areale, resta meno definito l’elemento più cruciale: la finanza. Perché cento indicatori, senza i mezzi economici e materiali per attuarli, rischiano di restare poco più che un esercizio teorico. Senza risorse adeguate, il GGA, per il Sud globale, è una battaglia persa in partenza.
Una parte di questi indicatori riguarda direttamente la salute. Alcuni monitorano la morbilità e la mortalità legate alle ondate di calore, la trasmissione delle malattie infettive sensibili al clima o gli infortuni da stress termico sul lavoro; altri monitorano la resilienza delle infrastrutture sanitarie ai disastri climatici, la copertura dei servizi essenziali (incluso il supporto alla salute mentale), l’efficacia dei sistemi di allerta precoce e la preparazione del personale sanitario.
In questo processo si inserisce il COP30 Special Report on Climate and Health dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che fornisce le basi scientifiche del Belém Health Action Plan (BHAP), il primo piano d’azione proposto a una COP per l’adattamento del settore sanitario ai rischi climatici. Il BHAP propone misure operative per integrare clima e salute nella pianificazione nazionale, rafforzare la preparazione dei servizi sanitari e proteggere le comunità più esposte. Lo Special Report on Social Participation, sempre dell’OMS, sottolinea inoltre la necessità di coinvolgere attivamente le comunità locali, in particolare quelle indigene e più vulnerabili, nella progettazione e nell’attuazione delle politiche sanitarie.
Nonostante la rilevanza di questi rapporti e nonostante sempre più stati stiano sviluppando un piano nazionale clima-salute, il 52% nel 2021, la barriera più importante alla loro implementazione rimane sempre la stessa: quella finanziaria.
Finanza climatica: ciò che manca
L’articolo 9 dell’Accordo di Parigi stabilisce che i Paesi sviluppati sono tenuti a fornire le risorse finanziarie ai Paesi in via di sviluppo per la mitigazione, l’adattamento e la riparazione da perdite e danni (loss & damage) dovuti al cambiamento climatico. Il compito della COP29 di Baku era di definire un nuovo obiettivo di finanza climatica. In realtà, gli obiettivi sono diventati due.
Il primo è la stima di ciò che sarebbe veramente necessario: 1.300 miliardi di dollari l’anno per permettere ai Paesi più vulnerabili di affrontare la crisi climatica con mezzi adeguati.
Il secondo è invece la cifra che una quarantina di Paesi industrializzati hanno dichiarato di essere disposti a mettere sul tavolo da qui al 2035: 300 miliardi l’anno. Un divario enorme, che la Baku-to-Belém Roadmap vorrebbe provare a colmare, delineando una strategia per mobilitare flussi finanziari più consistenti, pubblici e privati, verso i Paesi in via di sviluppo.
Il successo della COP30 si misurerà da quanto saremo in grado di colmare questo gap finanziario. A questo, si aggiunge il gap del BHAP, che manca di un impegno finanziario delle nazioni aderenti e dispone finora solo dei 300 milioni di dollari annunciati da una coalizione filantropica. La situazione è analoga per la Tropical Forests Forever Facility (TFFF), il fondo gestito dalla Banca Mondiale che punta a raccogliere 125 miliardi di dollari da ridistribuire annualmente ai Paesi che proteggono le foreste, con almeno il 20% destinato alle comunità indigene. Un obiettivo ambizioso, per cui però sono stati raccolti solo 6 miliardi, di cui 3 dalla Norvegia.
Mutirão
Questa COP ha avuto molti soprannomi: COP del popolo, COP della verità, COP dell’Amazzonia, COP della finanza, COP delle contraddizioni. Ognuno ha catturato un frammento di quello che sono state queste due settimane dense e discusse. Ma c’è un termine, scelto dal presidente André Corrêa do Lago per definire la COP, che più di tutti è rimasto ed è stato evocato nelle scorse settimane: mutirão.
Mutirão è una parola brasiliana che indica azione collettiva: identità diverse che agiscono nella stessa direzione per un obiettivo comune. È una bella parola, molto potente. Ma possiamo davvero dire che questa sia stata una COP del mutirão? Abbiamo davvero costruito un obiettivo condiviso tra le Parti? E soprattutto: chi sono le Parti? Solo lobbisti, negoziatori e funzionari dei Paesi più forti? Oppure anche le comunità che chiedono adattamento, diritti, salute, protezione delle foreste e la possibilità di non essere sacrificate in nome della transizione?
Forse la risposta non è nella COP in sé, ma in ciò che verrà dopo: se le decisioni prese a Belém troveranno risorse e volontà politica sufficienti a trasformare il mutirão da un bello slogan a una pratica reale.
