Come stanno gli stranieri in Italia? Abbastanza bene, grazie! Questa sembra possa essere l’estrema sintesi del lavoro di analisi dei dati delle indagini Istat sulla «Salute e il ricorso ai servizi sanitari» e di quella sulla «Condizione e integrazione sociale dei cittadini stranieri» che sono l’oggetto di questo supplemento di Epidemiologia e Prevenzione. Stanno mediamente bene. Ma le informazioni contenute nel volume sono ricchissime e permettono un dettaglio che non avevamo mai avuto in Italia.

Di interesse è la conferma che la durata della residenza è inversamente associata allo stato di salute, cioè che i cittadini stranieri arrivano sani ma, con il tempo, perdono il vantaggio di partenza e la loro salute si avvicina sostanzialmente a quella dei cittadini autoctoni. Anche per loro, quindi, il determinante principale delle differenze di salute diventa lo stato socioeconomico.

Ma vale la pena soffermarsi su un altro elemento determinante, quello culturale. Analizzando per esempio un fattore di rischio primario di malattia, l’obesità, abbiamo un quadro ampiamente sovrapponibile a quello dei cittadini italiani, con una prevalenza media di obesità e sovrappeso intorno al 40%.1 Alcune nazionalità mostrano però importanti scarti rispetto a questo valore: gli uomini di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est (Ucraina e Moldavia in particolare), così come quelli provenienti dall’Africa settentrionale o dall’America latina, tendono ad avere una prevalenza di queste condizioni nettamente superiore, così come avviene per le donne africane, in particolare quelle provenienti dal Marocco. Ciò che appare interessante in queste differenze è che non sembrano spiegabili da fattori diversi da quello culturale.

L’importanza del fattore culturale diviene evidente se guardiamo altri esempi: in un quadro di insufficiente copertura vaccinale per l’influenza, comune a tutti i cittadini stranieri, gli africani presentano dati drammaticamente più bassi;2 ancora, per quanto riguarda la frequenza di visite preventive al proprio medico, le popolazioni provenienti dall’Asia (cinesi, indiani e filippini) mostrano frequenze molto più basse rispetto a quelle medie della popolazione immigrata (per i cinesi sono due terzi più basse).3

In sintesi, l’analisi dei determinanti dello stato di salute delle popolazioni immigrate in Italia, in particolare per quanto riguarda i dati di accesso alle prestazioni preventive e di prevalenza di fattori di rischio, sembrano evidenziare una interazione fra tre fattori essenziali: la condizione di migrante, i fattori culturali legati al Paese e alla cultura di provenienza e la condizione socioeconomica, che sembra divenire il fattore principale con il passare del tempo dall’arrivo nel nostro Paese.

La costruzione della risposta ai bisogni sanitari delle popolazioni immigrate riceve da questi dati una indicazione essenziale: deve essere orientata culturalmente e capace di interagire con le comunità straniere.

Per l’Associazione italiana di epidemiologia, come per le altre società scientifiche di sanità pubblica che hanno il compito di orientare la ricerca al fine di produrre informazioni utili alla soluzione dei problemi sanitari, questi dati sono di estremo interesse. Una loro lettura approfondita fornisce lo spunto per molte raccomandazioni per la ricerca. Le più rilevanti mi sembrano però due.

Lo studio dell’influenza dei fattori culturali sulla salute. Questo filone di ricerca ha potuto essere finora trascurato, grazie alla relativa omogeneità della popolazione italiana. I fattori socioeconomici hanno rappresentato uno strumento così potente di spiegazione delle differenze di salute da rendere poco interessante lo studio di altri aspetti meno influenti. Con l’immigrazione le cose stanno cambiando e la ricerca deve dotarsi di strumenti di analisi di network di causazione più complessi, che includano i fattori socioeconomici, ma anche quelli culturali, quelli religioni etc. Si tratta di una sfida importante per i prossimi anni.

Lo studio del ruolo dei fattori sociali. Rispetto alle popolazioni immigrate lo stato socioeconomico non è solo un indicatore di posizione sociale, ma soprattutto un indicatore di esposizione a fattori specifici di malattia. Questo merita un cambio di ottica nella ricerca, orientandola verso lo studio delle cause sociali dei problemi di salute. Oltre che analizzare la salute stratificando per le variabili sociali, cioè, diviene essenziale un approccio eziologico per studiare come, per esempio, il lavoro, la qualità dell’abitazione, la quantità e il tipo di reddito, la struttura della famiglia, il titolo di studio (che fra gli immigrati sembra spesso avere un effetto paradosso) influenzino la salute. Questo permetterebbe l’identificazione di obiettivi degli interventi sociali non generici, ma focalizzati sui fattori specifici che hanno un effetto misurabile sulla salute.

La focalizzazione sul ruolo di questi due fattori, e sulla loro interazione con la condizione migratoria, potrebbe essere ben convogliata da un approccio life course. Ciò permetterebbe di studiare che cosa avviene alla salute e al ricorso ai servizi sanitari nelle varie tappe della storia migratoria, e come i fattori culturali e socioeconomici interagiscano nelle diverse tappe. Sarebbe una fonte essenziale di informazioni utili per meglio intercettare i bisogni di queste popolazioni.

Un’ultima considerazione merita il problema delle seconde generazioni. Nei Paesi europei a più antica immigrazione è ormai il problema principale. Si tratta di ampie fasce di popolazione, pienamente integrate e “nazionalizzate”, che hanno studiato nel Paese ospite, e quindi hanno una completa padronanza della lingua, degli usi e dei costumi, e soprattutto hanno le stesse aspettative di progresso delle popolazioni autoctone. Aspettative che però non ricevono una risposta adeguata. Tra queste fasce di popolazione si annida il disagio, e lì sono evidenti i maggiori problemi sociali e sanitari; ma si annidano anche i fattori che determinano la radicalizzazione religiosa e violenta e il terrorismo, che hanno subito oramai molti Paesi europei. Ciò è avvenuto infatti in quei Paesi, come il Regno Unito, la Francia, il Belgio e la Germania, che hanno una storia di immigrazione decennale dai Paesi africani e asiatici, in cui le seconde generazioni sono ormai arrivate all’età adulta. L’Italia ha una storia di immigrazione da quei Paesi relativamente più recente, ed è ancora in tempo per poterla “deviare”, adottando fin da subito interventi e policy che mirino a prevenire questa deriva verso l’insoddisfazione e il rancore.

Non sono certo le società scientifiche come l’AIE a dover suggerire gli interventi per la soluzione dei problemi di salute delle popolazioni migranti. Ma mi sembra che un paio di sollecitazioni meritino di essere fatte.

La prima è generale: il sistema di prevenzione di un Paese come l’Italia deve essere attrezzato per intervenire sui determinanti sociali (il Piano nazionale di prevenzione fa esplicitamente riferimento ai «determinanti socioeconomici, culturali, politici e ambientali» delle malattie),4 per cui è, in principio, già adeguato alle sfide poste dalla salute della popolazione immigrata. C’è però un problema di accesso. Gli stessi interventi previsti per la popolazione italiana devono essere proposti con un filtro culturale, attraverso cioè un adattamento che non è solo linguistico, per assicurarne la copertura. Vi sono già alcune esperienze da cui vale la pena prender spunto (si veda per esempio un’esperienza veneta di promozione della vaccinazione, trasformata in una IPEST – Intervento preventivo efficace, sostenibile e trasferibile).5

La seconda sollecitazione riguarda il coinvolgimento delle comunità interessate: coinvolgere la comunità proveniente dall’America latina per la presa di coscienza del problema dell’obesità, o la comunità mussulmana per discutere la bassa frequenza di visite mediche preventive permetterebbe di identificare con loro le cause culturali dei deficit di prevenzione, i possibili interventi, e nel contempo favorire un dialogo che non può che essere positivo per prevenire la deriva verso l’insoddisfazione e il rancore. L’AIE è pronta a raccogliere queste sfide e a sollecitare l’impegno di tutta la comunità epidemiologica italiana, oltra che essere orgogliosa del privilegio di ospitare i risultati di questa ricerca sulle pagine della propria rivista.

Bibliografia/references

  1. Petrelli A, Di Napoli A, Rossi A, Spizzichino D, Costanzo G, Perez M. Sovrappeso e obesità nella popolazione immigrata adulta residente in Italia. Epidemiol Prev 2017;41(3) Suppl. 1:26-32.
  2. Fabiani M, Di Napoli A, Riccardo F, Gargiulo L, Declich S, Petrelli A. Differenze nella copertura vaccinale antinfluenzale tra sottogruppi di immigrati adulti residenti in Italia a rischio di complicanze (2012-2013). Epidemiol Prev 2017;41(3) Suppl.1:50-56.
  3. Perez M, Panaccione D, Spizzichino D, Petrelli A. Le visite mediche come forma di prevenzione primaria nella popolazione straniera. Convegno “Epidemiologia della salute della popolazione immigrata in Italia: evidenze dalle indagini multiscopo ISTAT”. INMP, Roma, 5 maggio 2016. Disponibile all’indirizzo: http://www.inmp.it/index.php/ita/content/download/25685/172501/file/Le%20visite%20mediche%20come%20forma%20di%20prevenzione%20primaria%20nella%20popolazione%20straniera.pdf (ultimo accesso: 08.03.17).
  4. Baldissera M, Napoletano G, Della Camera M, Abrescia F, Valsecchi M. Un Ipest per ridurre le diseguaglianze di salute: un intervento per incrementare le coperture vaccinali in gruppi di popolazione difficili da raggiungere. In: Bassi M, Calamo-Specchia F, Faggiano F, Nicelli AL, Ricciardi W, Signorelli C, Siliquini R, Valsecchi M. Rapporto Prevenzione 2015. Fondazione Smith Kline. Il Mulino, 2015.
  5. Piano nazionale di prevenzione 2014-2018. Disponibile all’indirizzo: www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2285_allegato.pdf (ultimo accesso: 08.03.17).
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