Non c’è una nobile causa, piuttosto circostanze, necessità. La laurea in medicina e chirurgia mi stava un po’ stretta: avevo voglia di occuparmi di prevenzione (dei tumori in particolare). Avevo sostenuto l’esame di oncologia (quando era ancora facoltativo) e poi quello di medicina del lavoro con annessa tesi di laurea sui tumori professionali. Quindi la specializzazione in oncologia con particolare interesse per la ricerca. Ma… alle donne capita di rimanere incinte e così, non potendo più maneggiare chemioterapici (allora si preparavo al mattino su un tavolo, senza cappa, naturalmente) mi allontanarono gradualmente dal reparto e mi misero a sedere dietro a una scrivania a inserire dati. E così ho cominciato a lavorare con i numeri e non più con i pazienti.

Che dire? Con il passare degli anni mi sono appassionata sempre più a grafici, istogrammi e tabelle, ho cominciato a interrogarmi sui perché e a raccontare a me e ai miei collaboratori dell’importanza del nostro lavoro. Ho cominciato a credere fortemente che anche il lavoro dell’epidemiologo è nobilissimo, sebbene non curiamo nessuno e non alleviamo direttamente le sofferenze di nessuno. Ho cominciato a pensare che il nostro contributo, seppure solo un granello di sabbia, concorre ad accrescere le conoscenze sulla ricerca e che le scoperte non sono appannaggio solo dei premi Nobel ma sono il frutto del lavoro di tanti piccoli ricercatori che in Italia e nel mondo lavorano nell’ombra su piccoli dati, ottenendo piccoli risultati. Sono contenta della mia scelta, i pazienti non mi mancano…perché dovrebbero? La mia precedente esperienza clinica mi ha profondamente cambiata e ora tutti i giorni quando illustro e commento tabelle e andamenti temporali mi ricordo bene che dietro a ogni numero ci sono occhi di uomini e donne che ho conosciuto e che avevano riposto in me (e oggi in altri) un filo di speranza. È stata un’esperienza importante per il mio lavoro di epidemiologa. È un’esperienza importante per la mia vita.

 

 

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