Rubriche
11/12/2017

Quali prove di efficacia per i farmaci nelle malattie rare?

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Le opinioni espresse dagli autori sono personali e non riflettono necessariamente quelle delle istituzioni di appartenenza.

Ogni giorno vengono proposti farmaci per curare malattie attualmente non (o poco) curabili, come è il caso di molte malattie rare. La domanda è sempre la stessa: l’assenza di terapie efficaci giustifica una maggiore apertura e/o vere e proprie deroghe al normale processo di approvazione? E, se sì, come orientarsi per distinguere cosa è accettabile e cosa no nell’interesse dei pazienti.

Il processo di approvazione dei farmaci

Per l’approvazione dei farmaci è stato sviluppato un processo con l’obiettivo di dimostrare l’efficacia e tutelare al meglio i pazienti. Le caratteristiche principali sono, o sono state:

  • divisione più o meno netta in fasi, dalla I alla III, con obiettivi che vanno dalla verifica della (assenza di) tossicità a quella dell’attività, fino a quella dell’efficacia;
  • aumento progressivo del numero di pazienti coinvolti, nel passaggio da una fase alla successiva, insieme all’integrazione di disegni non comparativi (fasi I e II) e basati su confronti fra gruppi (fase III).

Questo processo tutela i pazienti inclusi nelle sperimentazioni cliniche, in quanto si minimizza il numero di esposti nel caso di terapie inutili o dannose, e consente di stimare il livello di efficacia del nuovo trattamento.
A fronte di questi vantaggi, si scontano alcuni limiti. Il primo riguarda la difficoltà delle sperimentazioni cliniche nel mettere in evidenza reazioni avverse relativamente rare o che insorgono a distanza di tempo oppure che riguardano sottogruppi di popolazione meno coinvolti negli studi. Il secondo riguarda la trasferibilità dei risultati dal contesto sperimentale alla pratica clinica. Il terzo è relativo al ricorso via via più frequente a esiti surrogati, in particolare se l’esito clinico è poco frequente e/o avviene a distanza di parecchio tempo. Infine, se la terapia standard è percepita come inefficace, può essere difficile (o non etico) proporre ai pazienti di essere inclusi in una fase III randomizzata e di non ricevere il trattamento sperimentale, dopo che le fasi I e II hanno fatto intravedere una possibile efficacia.

Adattamenti del processo di approvazione

Nel caso delle malattie rare c’è un problema aggiuntivo: la scarsa numerosità di pazienti, che può rendere più difficile l’applicazione completa della progressione per fasi appena descritta. Per questa ragione, sia negli Stati Uniti sia in Europa, sono state sviluppate norme ad hoc o deroghe al normale iter di approvazione. Per esempio, in Europa, se davvero mancano i pazienti, ed è poco probabile che si riescano a ricavare dati più solidi nel tempo, si può ottenere una cosiddetta approvazione in circostanze eccezionali (approval under exceptional circumstances). Su 99 farmaci orfani commercializzati nell’Unione europea fino a settembre 2017, 15 sono approvati con questa clausola.
Inoltre, sebbene ciò non sia specifico delle malattie rare, si può ottenere una cosiddetta approvazione condizionata (conditional approval) se il farmaco è molto promettente, con dimostrazioni su esiti surrogati, e ci si può impegnare a proseguire gli studi dopo l’approvazione per arrivare a conclusioni anche per gli esiti clinici. Sono 14 i farmaci orfani commercializzati con questo vincolo autorizzativo.

Un esempio di applicazione corretta delle deroghe…

L’imatinib è un esempio classico degli approcci autorizzativi “più flessibili”: il farmaco è stato inizialmente autorizzato under exceptional circumstances nella leucemia mieloide cronica (LMC) con cromosoma Philadelphia (bcr-abl) positivo sulla base di 3 studi di fase II non comparativi (single arm).1 Tuttavia, il legame della malattia con la mutazione del cromososma Philadelphia era già nota e ben caratterizzata, sia dal punto di vista molecolare sia epidemiologico. La decisione regolatoria è stata motivata dalle seguenti considerazioni:

  • gli studi non controllati mostravano tassi di risposta superiori all’85%;
  • la risposta era associata in modo significativo a un aumento della sopravvivenza;
  • quest’ultima superava il 98% a 9 mesi;
  • le alternative terapeutiche erano il trapianto di midollo (consigliabile solo nel 15% dei pazienti e con elevato rischio di morte) o l’interferon (con tassi di risposta tra il 10% e il 38% ed elevata tossicità).

Inoltre, inizialmente l’autorizzazione è stata fornita per i sottogruppi con particolari fenotipi della LMC, ovvero pazienti in fase cronica (come seconda linea dopo interferon), in fase accelerata e in blast crisis.2 Il programma di sviluppo clinico, messo in piedi dall’azienda produttrice, è stato poi esteso e l’investimento non si è arrestato al momento dell’ingresso sul mercato, tanto che, a seguito di ulteriori studi, le indicazioni dell’imatinib sono state allargate sia all’interno della LMC (in prima linea) sia in altri setting oncoematologici.

…e alcuni problemi nell'applicazione delle deroghe

Se applicate correttamente, le deroghe sono nell’interesse dei pazienti con malattie rare. Nello stesso tempo si prestano a forzature. Sempre più spesso si assiste all’approvazione di farmaci senza che vi sia stato uno studio comparativo randomizzato, anche quando la frequenza della malattia consentirebbe di fare confronti o il nuovo trattamento non modifichi radicalmente la storia naturale. Se poi si somma il ricorso a esiti surrogati, anche se manca una validazione, si completa un quadro tutt’altro che rassicurante per i pazienti con malattie rare e per i servizi sanitari.
Un caso emblematico è quello di due farmaci approvati per il trattamento della distrofia muscolare di Duchenne, una malattia genetica con esito spesso letale causata dall’incapacità di sintetizzare le proteine del muscolo. Nel caso dell’ataluren, l’esito primario – il numero di metri percorsi in 6 minuti dopo 48 settimane di trattamento – non è stato raggiunto nel trial controllato randomizzato (RCT) che aveva portato nel 2014 alla cosiddetta approvazione condizionata. In un RCT successivo (su 230 pazienti), valutato dalla European Medicines Agency (EMA) nel 2016,3 il miglioramento si era ridotto a circa 12 metri (sempre non statisticamente significativo) e la rivendicazione di efficacia era basata su analisi secondarie e/o di sottogruppi di pazienti. Nel caso dell’eteplirsen, lo studio che ha portato alla registrazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense – peraltro anch’esso negativo – aveva incluso solo 12 pazienti. Una così scarsa numerosità non dipendeva dalla rarità della patologia, ma dall’essersi concentrati su un esito surrogato. Il giudizio sullo studio e sugli esiti raggiunti è stato negativo per i tecnici della FDA e per un comitato di esperti indipendenti. Solo una overrule da parte della direzione della FDA ha consentito l’autorizzazione.4

Il disegno degli studi puo' essere rigoroso anche per i farmaci per le malattie rare

Come per qualunque trattamento, le domande di fondo sono sempre le stesse: riguardano la dimensione degli effetti e la rilevanza nella clinica. Alla fine dello studio saremo in grado di stimare in maniera ragionevolmente affidabile l’entità dell’efficacia? Se sono stati usati esiti surrogati, quale sicurezza abbiamo che siano rispecchiati negli esiti clinici?
Sulla prima domanda, raramente l’efficacia è così ampia da rendere superfluo e non etico un RCT. Da un lato, se davvero l’efficacia è ampia, bastano relativamente pochi pazienti e periodi brevi per capirlo e per raccomandare l’adozione nella pratica clinica; dall’altro, nulla impedisce di anticipare analisi comparative fin dalle fasi iniziali dello sviluppo clinico di un farmaco.
Anche quando si prendono in considerazione modelli di studio innovativi che superano almeno in parte l’organizzazione in fasi – dall’applicazione di disegni adattativi all’utilizzo della randomizzazione sin dalla fase I – non si perde nulla del rigore dell’attuale processo di approvazione, poiché tali disegni di studio prevedono sempre un gruppo di controllo (attivo o placebo). Non è giusto, invece, tranne che in circostanze eccezionali, invocare l’interesse dei pazienti per evitare di condurre studi robusti. I pazienti con malattie rare (inclusi i tumori rari) non possono trarre beneficio nel caso in cui i farmaci siano approvati sulla base di evidenze deboli; anzi, si creerebbe una condizione di pericolosa disparità rispetto ai pazienti con patologie a maggiore prevalenza/incidenza.

Bibliografia

  1. Deininger M, Buchdunger E, Druker BJ. The development of imatinib as a therapeutic agent for chronic myeloid leukemia. Blood 2005;105(7):2640-2653.
  2. European Medicines Agency. Scientific discussiob. 2004. Disponibile all’indirizzo: http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/EPAR_-_Scientific_Discussion/human/000406/WC500022203.pdf
  3. European Medicines Agency. Assessment report: Translarna. Procedure No. EMEA/H/C/002720/R/ 0022.2016. Disponibile all’indirizzo: http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/EPAR_-_Assessment_Report_-_Variation/human/002720/WC500222769.pdf
  4. Kesselheim AS, Avorn J. Approving a Problematic Muscular Dystrophy Drug: Implications for FDA Policy. JAMA 2016;316(22):2357-58.
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