Rubriche
17/06/2014

La verità sull’uovo e la gallina: randomizziamo con Mendel!

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Quando nel 2012 fu lanciata questa rubrica, paventavamo una messe di epigenomic-wide association studies (EWAS) sul modello dei genomic-wide association studies (GWAS), che negli anni scorsi tanto avevano promesso circa la comprensione delle “origini” genetiche di tratti complessi e così relativamente poco, invece, avevano prodotto. È arrivato il momento: a circa 2 anni di distanza, con l’introduzione della piattaforma Illumina che scansiona 485.000 siti di metilazione simultaneamente, stiamo per assistere all’inizio dell’epidemia.
Naturalmente l’indice di massa corporea (BMI), tratto che aveva scatenato gli ingegni dei genome researcher a varie latitudini (sono state identificate più di trenta varianti geniche associate al BMI, che però complessivamente spiegano meno dell’1,5% delle differenze interindividuali),1 è stato subito preso di mira anche dagli epigenome researcher (ma saranno gli stessi ricercatori?) e a metà marzo è stata pubblicata on-line su The Lancet la prima analisi sistematica dell’associazione tra il BMI, appunto, e la variazione della metilazione del DNA lungo tutto il genoma.2

Le novità dello studio

Lo studio di The Lancet, condotto su una discovery cohort iniziale e replicato in altre tre coorti, ha messo in evidenza un nesso tra l’aumento di BMI e quello del livello di metilazione di tre siti CpG dell’HIF3A, un gene che codifica per una delle subunità di HIF, il fattore di trascrizione che regola la risposta adattativa all’ipossia cronica.
Ma cosa c’è di particolarmente interessante in questo lavoro tanto da aver meritato la pubblicazione su The Lancet con relativo editoriale?
La coorte iniziale era piuttosto piccola, meno di 500 persone, e ciò renderebbe ragione del risultato alquanto modesto in termini di numero di “segnali” di metilazioni individuati. Il segnale più forte, poi, non è una novità assoluta, poiché era già stato affermato che il complesso HIF fosse implicato nel metabolismo e nella regolazione del bilancio energetico.
Lo studio è però molto interessante da un punto di vista metodologico, perché affronta alcuni dei problemi delineati con grande perizia da Bas Heijmans3 e inseriti tra le sette piaghe dell’epigenetica in epidemiologia.
Di certo la replicazione dell’ipermetilazione di HIF3A sul DNA di leucociti di altre due coorti indipendenti, con relativo aggiustamento per popolazione leucocitaria, e la conferma in una terza coorte in cui è stato esaminato il DNA degli adipociti, tessuto bersaglio dell’aumento di peso/BMI, rinforza di molto il risultato e supera uno dei problemi più spesso contestati agli studi di epigenetica, in cui non sempre è possibile studiare la metilazione dei tessuti più direttamente implicati nelle varie patologie.
In più, gli autori dimostrano che nel tessuto adiposo il livello di metilazione dell’HIF3A è inversamente correlato con l’espressione di una delle isoforme del gene. L’associazione è quindi davvero robusta.

Causa o conseguenza?

Ma il punto più intrigante è, a nostro avviso, che gli autori hanno stabilito il senso della direzione dell’associazione tra l’aumento del BMI e l’ipermetilazione del gene HIF3A.
Sappiamo che le inferenze di causalità a partire dall’associazione trasversale tra esposizioni modificabili ed esiti di salute sono in genere seriamente insidiate, oltre che dal problema del confondimento, anche dalla difficoltà di definire chiaramente la relazione temporale tra esposizione ed esito, cosicché la questione di una possibile causalità inversa rimane spesso irrisolta. Ciò rappresenta una complicazione soprattutto negli studi di epigenetica: capire se è nato prima l’uovo o la gallina diventa fondamentale per poter verificare se le variazioni osservate in un certo outcome di interesse sono una conseguenza, e non un determinante, delle alterazioni rilevate nel livello di metilazione in specifici geni.
Oltre al disegno prospettico di coorte, che rimane il gold standard per le inferenze di causalità in epidemiologia osservazionale, conosciamo uno strumento efficace per distinguere tra causa ed effetto: la randomizzazione mendeliana. In sintesi, questo metodo propone di indagare se un’eventuale associazione significativa tra esposizione ed esito persiste quando si considera una variante genetica come proxy dell’esposizione: se l’associazione persiste, ne derivano forti indicazioni di causalità.
Infatti, la variante genetica è ovviamente preesistente a qualsiasi esito in studio, essendo determinata al momento del concepimento. Inoltre, in virtù delle leggi di Mendel, la sua distribuzione è casuale rispetto a tutti i principali confondenti (per esempio, genere, età, stato socioeconomico, stili di vita eccetera). In epigenetica, la randomizzazione mendeliana consiste, nel caso più semplice, nel testare gli effetti sull’esito dovuti a polimorfismi associati ai livelli di metilazione del DNA in un preciso locus (punto del genoma) in studio, allo scopo di inferire la causalità tra metilazione ed esito.
Nel lavoro pubblicato su The Lancet, Dick e collaboratori hanno identificato due varianti geniche (single nucleotide polimorphism, SNP) a monte di HIF3A che sono risultate indipendentemente associate alla metilazione dello stesso gene HIF3A in tutte le coorti testate, ma non associate all’aumento del BMI: come a dire che l’ipermetilazione del gene HIF3A è probabilmente il risultato, e non la causa, dell’aumento del BMI. Così il BMI da esito diventa esposizione!

Uno sguardo al futuro

Ci sono tanti esempi di come il livello di metilazione di un gene dipenda da esposizioni ambientali, ma questa sarebbe una delle prime volte in cui si dimostra che un fenotipo (il BMI) abbia un effetto diretto sullo stato di metilazione di un gene. Chissà se questo era un risultato previsto…
Gli autori si spingono affermando che la metilazione al gene HIF3A potrebbe avere un importante valore prognostico, in quanto possibile biomarcatore per la predizione di patologie correlate al BMI, come il cancro o i disturbi cardiovascolari. Questa affermazione rimane per ora abbastanza teorica, sia perché non è affatto chiaro il funzionamento di tutto il fattore di trascrizione HIF in relazione all’espressione del gene HIF3A, sia perché dalla picture è per il momento sparito proprio l’esito.
In uno scenario più complesso, la metilazione potrebbe sì essere vista come fenotipo intermedio tra esposizione ed esito, il che però richiederebbe una duplice verifica di causalità: quella tra esposizione e metilazione (tramite un proxy genetico per l’esposizione) e quella tra metilazione ed esito (tramite un proxy genetico per la metilazione).4 A Dick e collaboratori servirebbe quindi un altro piccolo sforzo per chiudere il cerchio e chiarire il ruolo della metilazione di HIF3A come endofenotipo di patologie correlate all’obesità. Gli auguriamo, quindi, buon lavoro!

Bibliografia

  1. Hebebrand J , Volckmar AL, Knoll N, Hinney A. Chipping away the “missing heritability”: GIANT steps forward in the molecular elucidation of obesity - but still lots to go. Obes Facts 2010;3(5):294-303.
  2. Dick KJ, Nelson CP, Tsaprouni L et al. DNA methylation and body-mass index: a genome-wide analysis. Lancet 2014. Early Online Publication. Disponibile all’indirizzo: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(13)62674-4
  3. Heijmans BT, Mill J. Commentary: The seven plagues of epigenetic epidemiology. Int J Epidemiol 2012;41(1):74-8.
  4. Relton CL, Davey Smith G. Two-step epigenetic Mendelian randomization: a strategy for establishing the causal role of epigenetic processes in pathways to disease. Int J Epidemiol 2012;41(1):161-76.
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