Cambiamento climatico e vulnerabilità
È ormai un luogo comune dire che non tutti sono egualmente vulnerabili di fronte al cambiamento climatico. Di tutte le forme di disuguaglianza questa era certamente difficile da prevedere ai tempi di Marx. La disuguaglianza a livello globale è ovvia ed è legata alla distribuzione asimmetrica tra chi inquina (i Paesi ricchi) e chi subisce le conseguenze (i Paesi poveri). Meno ovvio è il fatto che all’interno di ciascun Paese si riproducono disuguaglianze altrettanto vistose. La “vulnerabilità” al cambiamento climatico colpisce ovunque e per motivi diversi le fasce più povere della popolazione. Un esempio lampante è l’inondazione di New Orleans (ammesso, ovviamente, che fosse attribuibile al cambiamento climatico),ma gli esempi si moltiplicano, con sfumature diverse a seconda che si tratti di Paesi ricchi o Paesi poveri. In Bangladesh, per esempio, un gruppo di ricercatori ha intervistato 700 residenti di un’area prossima alla costa, e frequentemente soggetta a inondazioni.1 Le famiglie più povere erano per vari motivi più soggette sia alle inondazioni sia alle conseguenze delle stesse: le loro case erano più fragili e costruite in luoghi in cui altri non volevano costruire; le possibilità di recupero dopo l’inondazione erano più limitate; e la capacità di preparasi agli eventi (“preparedness”) era più limitata tra i più poveri. Perfino l’accesso alle cure mediche era più ristretto.
L’altezza raggiunta dalle inondazioni entro casa era di più di 1 metro nelle famiglie con meno di 600 dollari all’anno, verso meno di 10 centimetri in chi aveva più di 1 200 dollari di reddito. Il reddito medio di chi aveva preso misure protettive in anticipo era di 1 500 dollari/anno, verso 976 per chi non ne aveva prese, e il danno ammontava a 245 dollari per i primi e 391 per i secondi, a dimostrazione del fatto che la povertà tende spesso ad autoaggravarsi. Un’altra ricerca, questa volta negli Stati Uniti, è stata recentemente presentata al Convegno della International Society for Environmental Epidemiology da Paul English e colleghi. Questi ricercatori hanno sviluppato uno strumento per stimare la vulnerabilità dei gruppi sociali al cambiamento climatico, e l’hanno applicato in due aree ad alto rischio della California. Il metodo usato si basava su una mappa che comprendeva numerose informazioni incluso l’impatto delle onde di calore legate al cambiamento climatico. Inoltre i ricercatori hanno sviluppato un indice di vulnerabilità che includeva la proporzione di anziani che vivono da soli, il possesso di condizionatori d’aria, gli spazi verdi, la comorbidità, e i rischi di inondazioni e di incendi. L'indicatore di vulnerabilità è stato validato usando come esiti i ricoveri per malattie legate alle ondate di calore, ed è uno strumento che può essere utilizzato anche da altri, tramite tecniche di georeferenziazione, per identificare le aree più vulnerabili. La lezione che si trae da questi due esempi è complessa e meno ovvia di quanto non appaia, perché ridurre la vulnerabilità dei più svantaggiati di fronte al cambiamento climatico comporta investimenti su larga scala. In Bangladesh può significare per esempio dislocazioni di vasti settori della popolazione, e la costruzione di ricoveri e di abitazioni più adeguate (senza contare la fornitura di acqua pulita, argomento cui ho già dedicato un numero della rubrica). È sorprendente che alcuni eminenti epidemiologi qualche anno fa abbiamo sostenuto in un famoso articolo su Lancet2 che non è compito degli epidemiologi occuparsi della povertà, bensì scoprire le cause delle malattie. Perfino per un argomento che allora sembrava remoto come il cambiamento climatico la povertà non solo è un decisivo modificatore degli effetti di altri fattori di rischio, ma è essa stessa una delle più importanti “cause delle cause”.
Bibliografia
- Brouwer R, Akter S, Brander L, Haque E. Socioeconomic vulnerability and adaptation to environmental risk: a case study of climate change and flooding in Bangladesh. Risk Anal 2007;27(2): 313-326.
- Rothman KJ, Adami HO, Trichopoulos D. Should the mission of epidemiology include the eradication of poverty? Lancet1998;5,352(9130): 810-813.