Rubriche
11/12/2017

Big data contro studi clinici randomizzati? La contrapposizione non giova a nessuno

Chi ha partecipato quest’anno al convegno della Società internazionale di farmacoepidemiologia (Montreal, Canada) ha respirato una strana atmosfera. Alcune relazioni suonavano trionfalistiche e con toni di chi annunciava una svolta epocale per il settore: «Gli studi osservazionali e post-marketing saranno il nuovo punto di riferimento capace di indicare ciò che è efficace e sicuro tra i nuovi medicinali». Altri, invece, assistevano provando a resistere, dubbiosi e scettici, alle nuove parole d’ordine (real world evidence eccetera) che, per quanto accattivanti, non risolvono i limiti e le sfide metodologiche con cui ci si confronta da sempre in questo settore. Ma che cosa è successo di nuovo per alimentare tanto entusiasmo?
Il fatto è che l’annunciata riforma negli Stati Uniti delle procedure e degli standard per l’approvazione dei nuovi farmaci (21st century cures act), insieme ad alcune iniziative condotte per ora solo in fase pilota a livello europeo (adaptive pathways), sembrano preannunciare un nuovo paradigma regolatorio che pone gli studi clinici randomizzati (RCT) non più come un passaggio ineludibile per ottenere l’accesso al mercato dei nuovi medicinali. In pratica, secondo queste nuove proposte in discussione, i real world data potranno essere utilizzati in modo molto più incisivo del solito, per esempio, nell’autorizzazione di nuove indicazioni di farmaci già in commercio o per patologie rare dove non sia facile condurre RCT.1 Tutto ciò offre una prospettiva molto allettante a chi finora si era concentrato soprattutto sul monitoraggio della sicurezza ed eventualmente sull’efficienza dei medicinali già in commercio.
Il nuovo scenario di regole e standard non basta, però, a spiegare il perché proprio ora qualcuno si senta così fiducioso da rigettare un sistema che chiede la prova clinica misurata nel campione chiuso della sperimentazione randomizzata e vuole fidarsi a tal punto degli studi osservazionali, per quanto sofisticati e ben disegnati. Un grosso contributo a questo nuovo indirizzo potrebbe forse derivare da alcuni termini attualmente molto presenti negli ambienti epidemiologici e utilizzati per riassumere in breve una nuova società super controllata e capace di digerire e tener conto della moltitudine di dati generati da ogni nostra azione. Si tratta dei big data, intesi come possibilità di gestire una varietà, una velocità e un volume di dati, anche non strutturati, finora impensabili e che ruotano intorno alle terapie farmacologiche. Secondo alcuni, la disponibilità di queste nuove fonti di dati e la capacità di elaborazione delle nuove macchine consentirebbe di superare il limite della distanza tra quanto accade negli RCT e il mondo reale. Un approccio diverso da quanto è stato proposto da altri autori con i pragmatic trial che, per quanto disegnati all’interno della pratica clinica, mantengono il disegno e la metodologia di riferimento degli RCT.2
In effetti, a supporto di questi nuovi entusiasmi bisogna registrare:

  • la possibilità di connettere sistemi diversi;
  • combinare dati attraverso linguaggi condivisi;
  • trasformare il rumore di fondo in nuove e utili informazioni;
  • aumentare i punti di osservazione sui fenomeni;
  • rendere più efficienti in termini di tempo e spazio le rilevazioni.

Questi sono tutti potenziali vantaggi che sembrano ora possibili. L’analisi critica di tutti questi aspetti e altri ancora sono stati oggetto di uno degli approfondimenti del Progetto Forward3 (un’iniziativa del Pensiero scientifico editore e del Dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio) che insieme ad alcune aziende private ha avviato una serie di approfondimenti su ciò che diventerà importante nel prossimo futuro nell’ambito del settore sanitario. In particolare, il tema dei big data offre uno spunto estremamente interessante per riflettere sulla sanità in cambiamento. Se ne parla molto, ma alla ricchezza della documentazione disponibile non corrisponde un’adeguata consapevolezza dei termini della questione da parte dei diversi professionisti sanitari. Di ciò è possibile avere un riscontro diretto dai risultati di un’indagine condotta intervistando 674 professionisti, tra cui 70 epidemiologi, a cui è stato somministrato un questionario con 13 domande a risposta multipla sul tema dei big data.4
La lettura dei risultati dell’indagine e dei diversi contributi del fascicolo dedicato rende chiaro che nessuno ormai mette in discussione che i big data potrebbero rappresentare una nuova frontiera per produrre una conoscenza più approfondita dell’efficacia e sicurezza di un farmaco. La disponibilità di dati in tempo reale consente di monitorare costantemente l’evolversi, per esempio, di un’epidemia o, nell’ambito della farmacovigilanza, di identificare segnali indicativi di eventi avversi a farmaci che possono completare la sorveglianza routinaria e la farmacovigilanza, solitamente effettuate attraverso le segnalazioni spontanee da parte degli operatori sanitari. Siamo sicuramente di fronte alla possibilità di avere un generatore di segnali molto potente che, però, non per questo deve far considerare superati i metodi classici di verifica dell’efficacia e della sicurezza dei nuovi medicinali. Più che sull’attributo big, dovremmo porre l’attenzione sulla qualità del dato e sulla possibilità di tenere sotto controllo l’enorme quantità di variabili che lo condizionano.
In tale contesto, si rimane scettici sulla fiducia con cui alcuni pensano sia già il tempo per un nuovo scenario riassumibile, almeno per i nuovi medicinali, nel try and see. Tradotto: una volta avuta la proof of concept della nuova terapia, sarebbe possibile metterla in circolazione, poiché i sistemi di osservazione sono talmente sofisticati da consentirci, nel caso di segnali contrastanti da quanto atteso, di ritirarla in tempo utile da non creare un nuovo caso talidomide. Inutile dire che a tale approccio sono particolarmente interessati i produttori di medicinali che vedono in tutto ciò la risposta alla costante richiesta di semplificazione delle procedure autorizzative e una riduzione dei costi di sviluppo dei nuovi farmaci.
In conclusione, le criticità e le potenzialità associate ai big data in ambito medico, inclusi quelli utili allo studio di nuovi medicinali, sono numerose e rilevanti. Occorre, però, ancora del tempo per separare il segnale vero dal rumore di fondo e tradurre le informazioni sempre più numerose di cui disponiamo in benessere e salute per i cittadini. Nel mondo della farmacoepidemiologia, non giova a nessuno porre queste nuove frontiere della conoscenza in contrapposizione con i riferimenti del passato. Il rischio, altrimenti, è di trasformare grandi possibilità in una grande (big) illusione.

Bibliografia

  1. Kesselheim AS, Avorn J. New “21st Century Cures” Legislation: Speed and Ease vs Science. JAMA 2017;317(6):581-82.
  2. Ford I, Norrie J. Pragmatic Trials. N Engl J Med 2016;375(5):454-63.
  3. AA.VV. Big Data. Come cambieranno la medicina, la sanità, la ricerca. E la salute. Disponibile all’indirizzo: http://forward.recentiprogressi.it/
  4. AA.VV. I big data secondo gli operatori sanitari. Disponibile all’indirizzo: http://forward.recentiprogressi.it/big-data/i-big-data-secondo-gli-operatori-sanitari/
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