Rubriche
22/12/2010

Primo Levi chimico-letterato

Rispondendo alla domanda su come l’esperienza di chimico avesse influito sulle sue letture e sulla sua scrittura, Primo Levi (1919-1987) ha sostenuto: «Non si trattava solo di un mestiere esercitato, ma anche di una formazione esistenziale, di certe abitudinimentali e direi, prima tra tutte, quella della chiarezza. Un chimico che non sappia esprimersi è un povero chimico. Ilmestiere di chimico in una piccola fabbrica di vernici (come Italo Svevo) è stato fondamentale per me anche come apporto dimaterie prime, come capitale di cose da raccontare. E scrivevo solo dopo le sei di pomeriggio…».

In effetti l’anamnesi lavorativa dell’autore di Se questo è un uomo (prima edizione, 1947) e de La tregua (1963) èmolto caratterizzante; laureatosi in chimica nel 1941 trova un impiego “in nero” (a causa delle leggi razziali del 1938) in un laboratorio presso la cava di amianto di Balangero con l’obiettivo, poi non realizzato, di estrarre il nichel presente in piccole quantità nel materiale di discarica. Nel 1942, a Milano, lavora presso la Wander, fabbrica svizzera di medicinali. Durante l’esperienza della prigionia era stato scelto a Monowitz per lavorare nella fabbrica di gomma sintetica Buna; dopo una breve esperienza alla Duco-Montecatini di Avigliana che produceva vernici e una frustrante esperienza di lavoro autonomo con un amico, dal 1947 al 1975 è attivo nei pressi di Settimo Torinese nel laboratorio della Siva, piccola fabbrica di vernici di cui presto diviene direttore.

Dell’esperienza di clandestino a Balangero nasce il capitolo Nichel de Il sistema periodico (1975) dove Levi annota: «C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra». Negli scritti sul campo di concentramento emerge il nome di Ludwig Gatterman (1860-1920), il chimico che salvò Levi per due volte, una prima quando Levi impara il tedesco per studiare il testo di chimica organica, più volte ristampato e tradotto, Die Praxis des Organischen Chemikers (Leipzig, Verlag von Veit & Comp, prima edizione del 1894) e in seguito, quando la conoscenza di quel testo gli permette di ottenere il posto di tecnico di laboratorio nella fabbrica dell’IG-Farben; a tal proposito Levi scrive in Se questo è un uomo: «E anche questo è assurdo e inverosimile: che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto anno, a casa mia». Un brano del Gattermann, quello dedicato alla prevenzione degli infortuni in laboratorio, nella traduzione dello stesso Levi, verranno inserite in una “antologia personale” di letture formative (La ricerca delle radici, 1981): «La scelta - spiega l’autore- è stata quasi automatica perché avevo l’abitudine di collocare i libri preferiti, indipendentementedal loro tema e dalla loro età, tutti sullo stesso scaffale, e tutti erano abbondantemente sottolineati nei punti da rileggere ». In questo modo rende sinceramente conto della soddisfazione dei propri interessi scientifici (Lucrezio, Polo, Darwin, Testo della ASTM, Rosny, Bragg, Vercel, Thorne, Russel, Brown, Clarke, Langnein) oltre che di quelli umanistici (Omero, Il libro di Giobbe, Parini, Porta, Rabelais, Caro, Belli, Mann, Swift, Conrad, Melville, Alechém, Eliot, Saint-Exupéry, Babel’, D’Arrigo, Celan, Rigoni Sten). Alle tre pagine di Gattermann è anteposta una breve nota dal titolo Le parole del Padre che vale la pena leggere: «In trent’anni di professione le ho consultate centinaie di volte, le ho imparate quasi a memoria, non le ho mai trovate in difetto, e forse hanno silenziosamente stornato guai da me, dai miei compagni di lavoro e dalle cose che mi erano affidate». Ma la loro citazione qui non è solo un atto di riconoscenza e di omaggio. Vi si sente qualcosa che è più nobile del puro ragguaglio tecnico: l’autorità di chi insegna le cose perché le sa, e le sa per averle vissute; un sobrio ma fermo richiamo alla responsabilità, il primo, a ventidue anni, dopo sedici anni di studio e infiniti libri letti. Le parole del Padre, dunque, che ti risvegliano dall’infanzia e ti dichiarano adulto sub conditione.

Prendendo spunto dal suo Faussone, l’operaio “di mestiere” piemontese che gira il mondo per montare tralicci, ponti, trivelle petrolifere e racconta incontri, avventure, difficoltà quotidiane del proprio mestiere (La chiave a stella, 1978), Levi ha avuto modo di dire che anche lui è stato un montatore, un chimico montatore, uno specialista di vernici: «Fare vernici è un mestiere strano: in sostanza, vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità delle nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere allo stesso tempo permeabili all’acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che resiste abbastanza bene alla pioggia e all’acqua del mare, cioè non si restringe, non gonfia e non ci si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po’ d’acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori».

Altre pagine nelle quali Levi racconta la sua esperienza di chimico industriale le troviamo nei Racconti e Saggi, tutti ripubblicati nel terzo volume delle Opere da Einaudi nel 1990; nel racconto La sfida della molecola viene descritta con tutti i particolari una cottura di vernici “che parte” diventando inutilizzabile; nella Calze al fulmicotone si parla di un grave infortunio capitato a una lavoratrice che aveva utilizzato del materiale inappropriato, recuperato in fabbrica, per fare delle calze; ne La lingua dei Chimici si discute della tossicità di alcune sostanze e in particolare del benzene; ne La forza dell’ambra sono analizzati due importanti “incidenti”, un mancato infortunio per lo stravaso di un solvente che aveva creato una atmosfera esplosiva e un disastro ambientale per il capovolgimento di un rimorchio contenente benzina; in Stabile/ instabile viene illustrata, sulla base della propria esperienza, la pericolosità della segatura di legno.

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