Intervenire dove è possibile può non essere sufficiente, ma è necessario
La valutazione del rischio da esposizione scolastica per i bambini immunodepressi in condizioni di copertura vaccinale sub-ottimale nella popolazione di coetanei continua a essere tema di attualità e a suscitare qualche distinguo, anche tra gli addetti ai lavori. Sembra, perciò, utile fare il punto della situazione, richiamando le motivazioni scientifiche che hanno indotto ad assumere le decisioni alla base dell’attuale normativa. Andrebbe premesso che i bambini classificabili genericamente come “immunodepressi” non sono tutti uguali, perché la loro condizione può essere dovuta a cause molto diverse tra loro, può essere temporanea e può non ledere completamente la loro capacità di essere immunocompetenti. Comunque, dato che proprio questi bambini sono a maggior rischio di complicanze nel caso in cui acquisiscano un’infezione prevenibile con la vaccinazione, gli immunodepressi sono un target specifico delle vaccinazioni. I vaccini a virus vivi attenuati, che nel programma esteso italiano sono solo quelli contro morbillo, rosolia, parotite e varicella, inducono l’immunità mediante un’infezione da virus attenuato e sono, quindi, controindicati in bambini con immunodepressione grave (vedi Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente 2017-2019). In questi rari casi, la riduzione del rischio viene perseguita in modo indiretto circondando il più possibile il bambino, che non può essere vaccinato, da persone immuni all’infezione. Tuttavia, il problema della riduzione del rischio di esposizione da infezioni prevenibili con vaccinazione, per i bambini con problemi immunitari, si pone per tutte le infezioni (e non solo per MPRV), perché, anche se vaccinati, i bambini immunodepressi potrebbero avere risposte immunologiche sub-ottimali a qualsiasi vaccinazione e non essere adeguatamente protetti. Quanto è importante vaccinare tutti i bambini che vanno a scuola? Studi condotti anche in Italia1 hanno permesso di ricostruire le matrici di contatto tra le persone di diverse classi di età, fornendo alcuni parametri necessari a modellizzare la diffusione di infezioni a trasmissione diretta inter-umana in diversi contesti sociali. I risultati hanno dimostrato che, in tutti gli otto Paesi europei studiati, i contatti più efficienti per il contagio si verificano tra i giovani, per esempio, in Olanda tra i 5 e i 9 anni e in Italia tra i 5 e i 19 anni. Le probabilità maggiori di contatto sono registrate tra coetanei e in ambito scolastico. Invece, fuori da questo contesto i contatti efficienti sono molto più dispersi e meno probabili. La vaccinazione dei bambini che frequentano la scuola ha, quindi, il fondamento scientifico di rallentare la propagazione di infezioni prevenibili nel contesto dove queste sono più probabili e dove si possono accumulare più soggetti suscettibili perché giovani.
È intuitivo il fatto che i soggetti definiti come immunodepressi possono avere molte altre fonti di esposizione a infezioni pericolose, oltre a quelle da compagni di scuola, e nelle diverse vaccinazioni in uso possono essere presenti quote, anche non trascurabili, di soggetti suscettibili in diverse fasce di età della popolazione generale. In alcuni casi, i suscettibili sono tali perché lasciati indietro da politiche estemporanee di prevenzione primaria, non omogenee nelle varie aree geografiche dell’Italia e non costanti nel tempo. Programmi di vaccinazione “variabili nel tempo” (sia per tipologia di offerta sia per intensità e copertura di popolazione raggiunta) provocano l’accumularsi di suscettibili che successivamente sostengono la circolazione di malattie altrimenti eliminabili. Questo è il caso del morbillo, per il quale per sapere chi rappresenta il serbatoio di suscettibili che sostiene la circolazione della malattia in Italia basta osservare che l’età mediana dei 2.526 casi di morbillo (di cui il 90% non vaccinati) notificati in Italia nel 2018 è di 25 anni.2 E ovviamente è lo stesso per la rosolia, la cui vaccinazione è ormai da molti anni accoppiata al morbillo, per la quale l’indicatore epidemiologico più adeguato non è la mortalità, ma le interruzioni volontarie di gravidanza per infezione rubeolica e i casi di rosolia congenita tra i nuovi nati. Oltre a coperture vaccinali sub-ottimali, la presenza di suscettibili può essere attribuibile anche ad alcuni vaccini che non mantengono il grado di protezione stellare intorno al 95% a cui siamo stati abituati dai primi prodotti. Questo sembra essere il caso di alcuni vaccini contro la parotite. Tuttavia, la proposta di mantenere una libera circolazione del virus della parotite per creare immunità naturale nella popolazione generale e così proteggere gli immunodepressi è paradossale, dato che ci sarebbero molte più occasioni di contagio anche per questi ultimi.
Per la varicella, la situazione è più complessa, data l’elevata contagiosità del virus e l’infezione latente che rimane nel sistema nervoso degli infetti. Da studi di sieroprevalenza in epoca pre-vaccinale si stima che, in assenza di vaccinazione, ogni anno il numero di casi di varicella sia pari al totale dei nuovi nati nell’anno. Modelli matematici applicati anche alla situazione italiana3 hanno indicato che, per una tale forza di infezione, il controllo della malattia può essere raggiunto solo con elevatissime proporzioni di immunizzati e coperture sub-ottimali possono avere come effetto solo lo spostamento in avanti dell’età di massima incidenza, come è successo per il morbillo. Che la vaccinazione pediatrica estesa incrementi il rischio di Herpes zoster, per l’assenza di esposizioni naturali, è un problema teorico che non ha trovato conferma anche in una recente metanalisi. In diversi studi inclusi, un incremento di incidenza di Herpes zoster era stato già riportato prima dell’introduzione della vaccinazione estesa contro la varicella (senza che se ne conoscano le cause). La significatività statistica di un aumento, osservato solo per un paio di fasce di età, è stata considerata dagli autori della metanalisi comunque poco rilevante in termini di popolazione generale, perché associata ad un aumento di 2 casi per 100.000.4 E comunque non è evidente l’attinenza dell’eventuale aumento di rischio di Herpes zoster con la protezione degli immunodepressi.
Il fatto che un bambino immunodepresso possa avere molteplici possibili fonti di esposizione, anche se con diversa probabilità, oltre ai contatti scolastici non ci evita di cercare di ridurre il rischio per quanto possibile. L’osservazione non mette in discussione l’attuale programma di immunizzazione, ma anzi indica la necessità di un allargamento dell’offerta di vaccinazione alle fonti di esposizione identificabili a priori per i piccoli pazienti immunodepressi: il personale scolastico, i familiari conviventi, il personale sanitario che li ha in cura. Nel 2018, sono stati segnalati 115 casi di morbillo tra operatori sanitari, con un’età mediana di 35 anni, e in alcuni casi la malattia si è diffusa facilmente nell’ambito ospedaliero. Sembra sensato richiedere di essere vaccinato a chi si occupa di bambini a rischio.
È certamente vero che esistono diverse potenziali fonti di infezione, ma è anche vero che è prioritario ridurre il rischio dove si può. È un’azione necessaria, ma certamente non sufficiente.
Sono numerosi gli interventi di prevenzione primaria importanti almeno tanto quanto le vaccinazioni. La prevenzione primaria delle malattie cronico-degenerative è stata, infatti, il focus del Piano nazionale di prevenzione, concluso nel 2018 (a proposito, che risultati sono stati ottenuti dalle singole Regioni?). Sempre in tema di protezione degli immunodepressi dalle infezioni, per l’antibiotico-resistenza andrebbe ricordato che la vaccinazione viene identificata come uno degli strumenti per ridurre l’uso di antibiotici e il relativo effetto indesiderato di selezione di ceppi resistenti.5
Le disposizioni vigenti in tema di vaccinazione non sono da contrapporre ad altre azioni di prevenzione come se vi fosse un problema di scelte mutuamente esclusive (di che malanno preferiamo ammalarci?).
Il programma di vaccinazione necessita di coerenza e solidità sul lungo periodo per essere riconosciuto come affidabile e produrre i risultati di salute che si prefigge. La coerenza richiede di evitare continui cambi di rotta e di approccio del programma, che ne danno un’indesiderabile immagine di estemporaneità, e la solidità richiede un robusto sistema organizzativo, anche in termini di personale e professionalità coinvolte che, in modo coordinato, mirano agli stessi obiettivi e sono in grado di indicarli anche alla popolazione generale.
Sembra appropriato ricordare che, quarant’anni fa, quando nel 1979 l’Organizzazione mondiale della sanità annunciò ufficialmente l’eradicazione completa del vaiolo, il direttore generale dell’epoca, Halfdan Mahler, definì l’eradicazione «un trionfo dell’organizzazione e della gestione sanitaria, non della medicina». Nel 2019 in Italia siamo ancora alle prese con il morbillo…
Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.
Bibbliografia
- Mossong J, Hens N, Jit M et al. Social contacts and mixing patterns relevant to the spread of infectious diseases. PLoS Med 2008;5(3):e74.
- Istituto Superiore di Sanità. Morbillo & Rosolia News. Rapporto n. 48. Gennaio 2019. Disponibile all’indirizzo: https://www.epicentro.iss.it/morbillo/bollettino/RM_News_2018_48%20def.pdf
- Salmaso S, Scalia Tomba G, Mandolini D, Esposito N. Valutazione del potenziale impatto in Italia di programmi estesi di vaccinazione antivaricella secondo un modello matematico. Epidemiol Prev 2003;27(3):154-60.
- Harder T, Siedler A. Systematic review and meta-analysis of chickenpox vaccination and risk of herpes zoster: a quantitative view on the “exogenous boosting hypothesis”. Clin Infect Dis 2017. doi: 10.1093/cid/ciy1099
- Bloom DE, Black S, Salisbury D, Rappuoli R. Antimicrobial resistance and the role of vaccines. Proc Natl Acad Sci U S A 2018;115(51):12868-71.